VI
Dunwich visse la scoperta di Cambria come dentro un lento sogno confuso. Già alla prima curva del sentiero che lo allontanava definitivamente da casa sua, aveva percepito qualcosa di diverso intorno a lui. Una particolare morbidezza della luce. Il vento portava con sé odori che non erano mai giunti fino allo spiazzo dove i suoi genitori avevano scelto di insediarsi. La prima notte fuori era stata indimenticabile. Aveva scoperto che il cielo era più stellato e vasto. Il fuoco del piccolo accampamento condensava l’aria in una bolla tremolante. Seneo, l’uomo che aveva convinto suo padre a lasciarlo partire, gli aveva parlato a lungo, ma lui ricordava soltanto a sprazzi quei momenti di intenso straniamento dalla realtà. Immagini, stimoli. Seneo aveva un modo di parlare molto descrittivo. Come se fosse sempre intento a criticare un quadro.
Dunwich, durante le settimane a cavallo con il cantore, ebbe modo di crearsi una sua Cambria, la città ideale che si plasmò fra le parole lente e soppesate di Seneo. Vide la sicurezza delle strade, la pulizia che sfoggiavano i suoi villaggi, il gran numero di soldati che pattugliavano i boschi e le campagne. Fantasticò sui dialetti e la cadenza musicale dei loro modi di dire. Finse di raggiungere la città, tanta era la smania di arrivare. Restò senza fiato di fronte alla grandezza e alla maestosità delle sue mura di pietra grigia, gli occhi si persero fra guglie sottili lanciate a sfiorare le nuvole. Si sentì piccolo e inutile di fronte al grande portone in ottone, alto come dieci uomini. Oltrepassata la prima difesa esterna, le case bianche e basse costeggiavano strade disegnate con ordine e geometrica precisione, disposte a formare spicchi e quartieri che nascondevano tutti i mestieri esistenti al mondo. Avvicinandosi all’interno, i palazzi crescevano in lusso e i primi giardini spuntavano fra i recinti di ferro, con alberi e siepi lavorate e curate nelle forme più svariate.
Camminando, si poteva vedere che a un tratto terminavano le case, la strada giungeva a un parco e proseguiva verso il cuore della città, costeggiava stagni limpidi e cascate, progettate da un artista che sbizzarrendosi aveva plasmato la natura in scenari di un’eleganza senza pari. Proseguendo ancora, il parco terminava e fra le cime degli alberi spuntava una torre senza finestre, inquietante e bellissima. Da entrambi i lati scorreva un cancello laccato in oro, alto quanto un muro di cinta, che correva abbracciando il centro storico. Era intervallato da altre due torri identiche alla prima. Quella era la sede storica dei cantori, fulcro dei loro studi e delle loro ricerche, e lì avevano vissuto e studiato le menti più brillanti di tutto il continente.
Il cancello d’oro era spaventoso. Scintillava nelle descrizioni di Seneo con la forza di un’opera divina. Ricco di volute e di punte acuminate, poteva sembrare un’inutile difesa se paragonata all’enorme muraglia di pietra che cingeva la città, ma nessuno si era mai azzardato ad abbatterlo. Era un’opera più antica della memoria del suo popolo. Nessuno sapeva chi l’avesse innalzata, e come fosse stato in grado di dare all’oro quell’impossibile sensazione di plasticità. Solo un arco chiuso da un’inferriata interrompeva le sue volute, e da lì si dipanava la via verso il cuore della capitale, costeggiava palazzi sontuosi e giungeva alla colossale dimora dell’Imperatore, più alta e massiccia di tutte le altre guglie. Dai suoi balconi si ammiravano i monti che, in lontananza verso Est, intrappolavano il fiume Camhann, un poderoso ramo dell’Hann, in una serie di volute, gole e pendii ricoperti di castagni.
Dunwich spinse la sua fantasia oltre le parole stesse dell’uomo che sarebbe diventato il suo maestro di canto. Vide dall’alto la popolazione che si accalcava sulle strade e nei mercati. Era eterogenea e indaffarata. Molti stranieri viaggiavano giorni e giorni appositamente per vendere e comprare nei mercati di Cambria le merci più pregiate. I nobili si muovevano in carrozza facendosi lentamente largo fra la folla, spesso scortati da cavalieri armati, mentre la gente si scansava rapidamente e le urla dei venditori e dei passanti assordavano l’aria.
La massa informe e variopinta interrompeva il baccano soltanto in occasione del passaggio delle truppe dirette al fronte. La voce di Seneo era un mormorio addolorato. Nei primi anni, quando ancora si pensava che tutto si sarebbe risolto in una breve stagione di sangue, le strade erano letteralmente invase da massicce formazioni di cavalieri ben addestrati e protetti da poderose armature. Ma la guerra durava da troppo tempo, e la maggior parte delle truppe era ormai composta da giovani delle campagne, allettati solo da vane promesse di fortuna e carriera. Più per rispetto della loro triste sorte che per paura, al loro passaggio la folla ammutoliva, chinava il capo, alcuni pregando sommessamente. I ribelli di Eldain erano un nemico mortale e instancabile. Combattevano nascosti nelle terre che conoscevano alla perfezione, sfruttavano le stagioni e le piene dei fiumi per mutare continuamente i profili del fronte. Sapevano portare alleati alla loro causa fra i villaggi lontani da Cambria. Non era più una guerra di conquista, ma solo un lento e snervante macello.
Lo spettacolo era ben diverso, quando passavano le mitiche Lance Imperiali. Le loro armature nere intarsiate d’oro, i mantelli preziosi trascinati dal vento erano uno spettacolo terribile e maestoso, degno della loro fama. Erano pochi rispetto alle truppe regolari, ma erano comunque considerati il più terrificante e inarrestabile battaglione di tutto il continente. Maestri di canto e guerrieri fusi in un soldato impressionante. Il braccio armato dell’Imperatore Loralon.
Seneo aveva lavorato con l’esercito, sapeva quello che diceva. La guerra continuava a infuriare contro ogni previsione. Il cimitero a Sud delle mura era troppo piccolo per contenere tutti i caduti di buona famiglia che pretendevano una degna sepoltura. Intere casate nobiliari si erano ritrovate senza eredi, e molte avevano concesso l’utilizzo delle loro maestose cappelle private alle famiglie meno fortunate che non avevano più spazio nei mausolei, stipandole di cadaveri avvolti in sudari rossi, o in casse di legno scuro. L’aria della sera traboccava del fumo acre portato dal vento delle pire accese nelle campagne, tutto ciò che restava dei figli dei contadini. Nelle strade del mercato si affollavano i mercenari venuti dalle altre regioni, che per denaro appoggiavano la causa di Cambria, non prestando però il minimo rispetto per la sua gente. Risse, furti, saccheggi nei villaggi erano una realtà con cui tutti dovevano convivere quotidianamente. La scena che aveva accolto Dunwich, di ordine e pulizia in strade battute da simpatici gendarmi, si corruppe in un quadro crepuscolare.
Il fronte di guerra era una linea frastagliata e complessa che copriva gran parte delle regioni dell’Est. Cambria aveva già esteso il suo dominio sui territori che si spingevano fino ai monti di Telatias, la nervatura centrale di montagne che tagliava il Nord del continente fino al mare interno, a Sud. Lo stesso fiume Hann rappresentava per lunghi tratti il fronte, difeso dall’alleanza di Eldain che sapeva come sfruttare le centinaia di acquitrini che si aprivano nelle ricche pianure circostanti. La linea dei combattimenti saliva fino al Terrapieno, a Nord-est di Cambria. Il cuore della difesa di Eldain e i suoi. Ancora più a Nord del Terrapieno, le montagne segnavano una barriera difficile da superare, protette da castelli arroccati e insidiose gole ammantate di foreste. Ma soprattutto, protette da Cambrinn, un alleato storico di Eld, che si era dichiarata neutrale ma che si era già dimostrato particolarmente fedele alla linea di Eldain.
Per chi abitava a Cambria era una consuetudine, ma Dunwich non aveva alcuna esperienza di guerra. Seneo non tralasciava i dettagli. La vita a Cambria peggiorava di anno in anno. Difficile farci l’abitudine, come già avevano dovuto fare nelle campagne. La gente di Cambria ancora ricordava le gloriose annate di prosperità e benessere che avevano preceduto la nascita del progetto imperiale, e il gustoso afflusso di ricchezza generato dalle prime conquiste. Le stesse che avevano fomentato l’illusione di una guerra rapida e quasi indolore. Nessuno avrebbe mai immaginato, all’epoca, che l’alleanza dei feudatari ribelli potesse essere in grado di fermare l’avanzata di Cambria. Era soltanto una questione di tempo, viste le forze in campo. Ma ogni giorno che l’impero perdeva, erano uomini che morivano lontani da casa, abbandonati in campi di battaglia ormai lastricati di vecchi corpi.
I giorni di viaggio a cavallo volavano fra una spiegazione di Seneo e l’altra. Dunwich era strabiliato dalle conoscenze di quell’uomo. L’Imperatore Loralon era un uomo nel fiore dell’età, che aveva ereditato dal padre la guerra contro Eldain. Era di aspetto austero, con capelli neri corti, molto curati, alto e magro in modo fuori dal comune. I suoi occhi erano due piccoli pozzi neri conficcati in un volto pallido e tagliente. La sua dinastia era antica, ma non era stata l’unica a dominare la capitale. Nessuno sapeva quanto Cambria fosse realmente vecchia. Ma Dunwich invece lo sapeva. Era appartenuta agli Aelian prima di loro, ma nessuno lo ricordava più fra gli uomini.
Era stato il nonno di Loralon a iniziare la guerra contro Elder, il padre di Eldain. Quando l’impero era ancora confinato nelle campagne di Cambria e nei sogni di Loren, il grande patriarca. I confini dell’epoca sfioravano le lande a Nord-est della capitale, una zona ricca di boschi, campi e monti che creavano netti confini naturali. Quelle erano le propaggini storiche delle terre possedute dai nobili ribelli di Elder. La regione a Ovest che separava la capitale dai monti di Telatias, e le pianure limitrofe a Nord si allearono con Cambria diventando protettorati. Essar a Sud-ovest non tardò ad allinearsi. Prima dell’ascesa di Loren, Cambria fungeva da cuore di una enorme e fitta rete di città fortificate retti da una moltitudine di nobili imparentati fra loro. Una consuetudine diffusa in tutto il grande Est dell’intero continente. Non esistevano stati che accorpavano più città. Cambria era la più grande e la più antica. Non era la prima volta che alzava la testa dalla fossa della storia per partire alla carica. Nelaria a Nord ed Essar a Sud avevano accettato di entrare a far parte del controllo di Cambria per evitare di essere travolte dall’esercito imperiale. Avevano perso parte della loro indipendenza, ma la nobiltà locale era stata lasciata al comando delle decisioni minori. Un giusto compromesso che Loren aveva sapientemente promosso con successo.
Dalla parte del nobile ribelle si erano schierate le regioni alle spalle del feudo di Eld, che si estendevano fino alle coste dell’Oceano dell’Est, e che non avevano la minima intenzione di cedere il potere a Cambria. I loro reggenti erano nobili non imparentati con il resto dell’Est, più chiusi verso l’esterno. Secoli di legami commerciali avevano indurito tutta la fascia affacciata all’oceano in una grande regione ricca di feudi e in equilibrio su una pace molto antica. Le lande dell’estremo Nord a ridosso dei monti ghiacciati, oltre le pianure che erano già in mano alla capitale, erano passate anch’esse sotto la guida indipendentista di Eldain. Territori inospitali, che Cambria considerava inutili e disabitati. Restavano fuori dal conflitto l’immensa catena montuosa di Telatias, che fungeva da cuscinetto fra l’Est e l’Ovest, e lo stretto di Calhann, la lingua di terra che separava il Nord dal Sud, che viveva di dazi e tasse sulle merci che transitavano attraverso le sue strade.
Le parole di Seneo e ciò che Dunwich vide una volta arrivato a Cambria, si fusero in un’esperienza che accecò di gloria i suoi occhi per tutta la sua giovinezza.
***
Dunwich si stabilì a Cambria a undici anni. Viveva in casa di Seneo, una grande residenza che occupava interamente l’ultimo piano di un enorme palazzo storico. Soltanto le scale che salivano dall’ingresso erano più grandi di tutto ciò che Dunwich avesse mai visto. La sua camera era molto più confortevole di casa sua. Tutto era nuovo e magnifico. La nostalgia per la vita tranquilla venne facilmente soffocata dalla valanga di novità che lui si trovò a dover affrontare.
Seneo accoglieva in casa sua altri cinque ragazzi. Il più giovane dei suoi compagni aveva quindici anni, il più grande diciannove. Lui ne dimostrava appena sei. Scoprì molto presto che il suo mentore era un uomo famoso e rispettato nel quartiere dove vivevano, una delle zone di Cambria più costose e prestigiose. Lavorava all’Accademia come maestro di canto, esperto nella fusione unica delle armonie che erano alla base della ricerca arcana che veniva svolta al suo interno. Somigliava molto a una scuola. Dunwich si trovò ad assistere a lunghe lezioni di teoria della musica, all’inizio solo come ospite ma dopo poche settimane, subito come allievo. Non mostrava alcun problema a memorizzare intricate dissertazioni sugli effetti che l’armonia, fusa alla profonda concentrazione del cantore, era in grado di manifestare nella realtà. Aveva fretta di imparare di più. I primi mesi a Cambria volarono in una nube confusa di eccitazione continua.
Seneo era molto ricco. Pagava personalmente la sorveglianza di tutto il palazzo. E ospitava presso di sé tutti i ragazzi che lui riteneva potenziali. Una volta concluso il lungo addestramento volto a plasmare le loro voci, lui rifiniva le loro caratteristiche e li rendeva pronti a servire gli interessi dei nobili più facoltosi della città, o quelli della famiglia imperiale. In rari casi capitava che un suo allievo venisse richiesto dalle Lance come maestro interno, e ciò fruttava a Seneo somme davvero considerevoli
Solitamente, il percorso di studi di un cantore consisteva in cinque anni di approfondimenti teorici e pratiche di canto insieme a un tutore. In quella fase, gli allievi dovevano imparare ogni aspetto della teoria musicale, e dovevano studiare a memoria tutte le sillabe utilizzabili per comporre i canti. Chi riusciva a sviluppare la voce a sufficienza da poter essere sfruttata a dovere, proseguiva la carriera entrando all’Arcana. Da quel momento, ogni sforzo era volto a mettere in sintonia il canto con la propria volontà. Era un passaggio estremamente complesso che pochi erano in grado di compiere. La norma prevedeva circa dieci anni di tempo, oltre i quali si potevano considerare fallimentari gli ulteriori tentativi di ottenere un fenomeno attraverso l’armonia. Tale unione di mente e musica veniva chiamata risonanza.
La teoria era complessa, l’allenamento estremamente di più. Un cantore non poteva appoggiarsi a uno strumento che lo sostenesse nello sviluppo delle melodie, poteva contare solo ed esclusivamente sulla sua voce. Un semplice errore nella pronuncia delle sillabe, nel ritmo, in un passaggio o in un banale cambio di tonalità interrompeva irrimediabilmente la risonanza e non produceva alcun effetto. Quando si era fortunati. Di solito, un canto interrotto tendeva a scaricarsi contro lo stesso cantore. Spesso uccidendolo all’istante.
Per raggiungere un tale livello di concentrazione, i maestri insegnavano ai ragazzi tutti i segreti della musica. La logica di scegliere un ritmo diverso da un altro. La cadenza battagliera di un inno di guerra aveva i suoi pregi e difetti, mentre una nenia sussurrata e sincopata produceva altri risultati, completamente diversi. Esistevano decine di scale che i cantori sapevano utilizzare. Le note erano dodici, le combinazioni studiate in Accademia erano innumerevoli. Dunwich chiese delucidazioni su chi avesse formalizzato la teoria della musica, e come fosse stata ottenuta. Scoprì con grande stupore che nessuno lo sapeva. Era qualcosa che si era perso nel tempo, e lui sospettava che fosse stato un atto voluto. Non esistevano libri che parlassero di un prima, di teorie più vecchie. Le dodici note erano sempre le stesse, accordate alla perfezione con forcelle d’argento rimaste immutate nei secoli.
Anche il ribrezzo per la musica strumentale era un mistero irrisolto. Dopo generazioni intere di prove e valutazioni, si era accertato che una melodia prodotta da uno strumento non poteva essere un veicolo adeguato a convogliare la volontà di un cantore. Per cui, gli strumenti erano stati completamente annichiliti dagli studi. Una scelta parecchio drastica che Dunwich accettò ma non comprese mai del tutto. Poneva molte domande, ma soprattutto i primi tempi tenne le questioni più controverse per sé. Cosa ci fosse alla base della risonanza, come fosse possibile plasmare una nube di fuoco partendo semplicemente dalla fiamma di una candela. I suoi maestri gli spiegarono che era tutto frutto di un particolare stato della mente, spinta in condizioni di concentrazione estrema, veicolata dalla guida armonica del canto. Somigliava a un dogma, più che a una teoria certa. Preferì attendere di scoprire da solo il meccanismo di fondo, per non inimicarsi nessuno. Non poteva permetterselo.
I più meritevoli fra gli studenti erano agevolati non pagando nulla per studiare, e alcuni di loro potevano godere anche del privilegio di un piccolo sussidio economico. Non poteva certo chiedere denaro a casa. Anzi, lui voleva trovare il modo di inviarne al più presto, anche se il villaggio dei suoi rientrava nei territori dei ribelli di Eldain, a più di venti giorni di viaggio da Cambria. Si dedicò allo studio mostrando una passione maniacale. Imparò a memoria ogni dettaglio della teoria delle Armonie. Si allenò a modulare la voce dormendo raramente e mangiando ancora meno. Scoprì con grande piacere che era nato per quello. Anche Seneo non aveva dubbi. Dunwich riuscì a sviluppare un’estensione e una padronanza che avevano dell’incredibile. E prima ancora che gli fosse insegnato, aveva già compreso l’obiettivo finale dei suoi studi.
La vera sfida era sintetizzare le melodie in modo da raggiungere più velocemente lo stato mentale necessario. Una breve scala, un motivo appena sussurrato fra i denti. La scelta delle sillabe giuste per pronunciare le note. Era la continua ricerca della perfezione. Una volta compresa e padroneggiata, era possibile innescare risonanze in pochi istanti di profonda concentrazione.
In un anno, Dunwich aveva già imparato tutte le nozioni di base, tanto da rendere inutile gli altri quattro anni iniziali dal suo tutore. La sua voce poteva ancora migliorare, anche se già mostrava potenzialità notevoli. Seneo lo costrinse a frequentare un altro anno con lui di allenamento. Era troppo piccolo per tentare di entrare all’Arcana vera e propria, e lui doveva ancora trovare gli agganci giusti per superare quell’ostacolo.
Dunwich sembrava ancora un bambino. Nessuno lo avrebbe accolto negli studi superiori, senza oliare qualche ingranaggio.
***
Dunwich spense la candela che illuminava il suo scrittoio, e si sgranchì le braccia dondolandosi sulla sedia di legno. Il tomo di Sovrapposizione di arpeggi minori in nove che aveva appena finito di leggere lo aveva un po’ deluso. Le solite cose. Come ottenere dall’incrocio di scale minori un’armonia che rispettasse i principali passaggi mentali. Stato di coscienza alterata, attimo di smarrimento, la vista aumentata. La luce troppo forte, poi l’attimo di buio che segnava il raggiungimento della risonanza. Che fossero appunto scale minori non modificava il discorso, pensò divertito dalla semplicistica visione dell’autore. Pazzesco che esistesse ancora qualcuno disposto a credere che una melodia in minore suonasse oggettivamente più triste di una in maggiore, o cromatica. “Ridicolo…” pensò mentre si versava un bicchiere d’acqua.
Non esisteva nulla di soggettivo nell’armonia Arcana: ogni suo aspetto era riconducibile all’incredibile numero di combinazioni ottenibili attraverso il canto. Oltre l’armonia, un cantore doveva scegliere le scale su cui muoversi, le modulazioni da effettuare, e le sillabe da utilizzare per pronunciare ogni nota. Doveva sapere anche come muovere le mani per tenere e dettare il ritmo agli altri, usando i segni per impartire le tonalità a ogni linea vocale. Era un’arte estremamente codificata e complessa.
Non c’era spazio per la bellezza, o per il sentimento. Il canto arcano era un insieme di prassi create per essere Dei. Era quello ciò che importava, non se le melodie fossero belle o brutte. Tristi e allegre. Qualcuno, magari anche lui, poteva percepire tristezza in un arpeggio in minore, ma ogni ascoltatore era diverso. Quel sentimentalismo era solo un effetto secondario e non desiderato.
Ormai conosceva la libreria di Seneo a menadito. Lui continuava a insistere sulla teoria, anche se Dunwich aveva già tentato di spiegargli che le basi le conosceva fin troppo bene. Per evitare grane, si era sempre limitato a rimarcare il livello di preparazione che aveva raggiunto, senza entrare nell’argomento che invece gli stava più a cuore. Che tutte quelle basi erano inutili, e soprattutto, insulse. Seneo non l’avrebbe presa molto bene, pensò ridacchiando.
Dunwich si allenava nel canto da solo o insieme a Seneo, improvvisando melodie su basi scelte e interpretate da lui. Semplici arpeggi bassi, o a volte lunghe note martellate in ritmi misti. Non era facile, o almeno, Dunwich aveva avuto quell’impressione quando aveva assistito alle lezioni dei ragazzi più grandi. Si perdevano, non riuscivano ad anticipare Seneo ingarbugliando la loro voce nel tentativo di inseguirlo. Dopo i primi tentativi fallimentari, aveva compreso da solo dove stesse sbagliando. Non doveva aspettare di capire cosa volesse da lui il suo maestro, doveva essere lui a guidare. Inventare melodie era un atto quasi involontario per lui. Si divertiva a imbastire musiche senza parole sopra le linee di basso di Seneo, e tendeva a non farsi sorprendere mai quando lui improvvisamente cambiava ritmo e tonalità. Affrontava lo studio come se fosse un gioco. E proprio per quel motivo, si era stancato di lavorare tanto sulla teoria, quando non aspettava altro di vedere finalmente gli effetti che la risonanza poteva produrre nella realtà. Aveva sentito dire dai ragazzi più grandi che all’Arcana mettevano continuamente in pratica le potenzialità dei cori. Motivi epici e gloriosi scatenavano fiamme e fulmini terrificanti. Sussurri cupi e maligni agitavano le ombre rendendole schiave del proprio volere. Un canto poteva creare dal nulla o ampliare a dismisura qualcosa che già esisteva. Come una torcia poteva essere la fonte di un mare di fuoco, o una pozzanghera in risonanza con la voce di un cantore poteva dilatarsi e inghiottire un’intera strada. Non vedeva l’ora di mettersi alla prova, invece doveva rispettare gli anni accademici. Una vera tortura.
Teoria, teoria e ancora teoria. Utile, per carità. Ma ormai l’aveva imparata più volte a memoria. Conosceva ogni possibile sillaba utilizzabile per comporre i canti. Sapeva armonizzare tutte le scale. Tutto ciò che Seneo poteva insegnargli a riguardo, Dunwich l’aveva appreso. Si era anche spinto oltre, domandandosi chi avesse formalizzato la musica sotto quelle regole, e se in passato fossero esistite altre pratiche scartate dalla storia. Dato che nessuno lo sapeva, non doveva nemmeno compiere lo sforzo di ricercare qualcosa di totalmente innovativo. Doveva solo imparare a ripetere meccanicamente le stesse sequenze armoniche, usare le giuste sillabe, scegliere i giusti ritmi, cercare l’atmosfera giusta. E lasciare che la sua volontà si sciogliesse nella perfezione. A lui veniva mostruosamente facile. Non capiva perché gli altri facessero tanta fatica, fino addirittura a non riuscirci. Se voleva, lui poteva perdersi dentro la sua voce dopo poche note. Desiderava farlo, lo faceva. Un passaggio banale.
Tutti gli altri ragazzi che studiavano con Seneo erano degli idioti, pensò frustrato.
In realtà, avrebbe di gran lunga preferito passare qualche serata con i suoi compagni a divertirsi, invece che leggere da solo in camera. Li sentiva sempre ridere e gozzovigliare in cucina fino a tarda notte, quando il maestro si era già ritirato nelle sue stanze, oppure era fuori città per lavoro.
Ma loro non lo volevano.
Per cui, erano dei completi idioti.
«Si divertirebbero con me» mormorò fra sé stizzito, mentre strappava l’ennesimo libro dalla sua piccola biblioteca. Una guida alla voce ferma. «Come utilizzare a fondo la respirazione totale… grazie, proprio non lo so» borbottò sarcasticamente.
All’inizio aveva fatto colpo su di loro grazie alla sua precoce intelligenza. Ma era durato poco. Alcuni avevano iniziato a prenderlo in giro, motteggiandolo con gli epiteti più svariati. Marmocchio, bambello, mostriciattolo. Testina di merda. La competizione a Cambria era uno stile di vita radicato sin da tenera età. Ma quando, durante le sue lezioni personali, lui aveva mostrato di poterli massacrare con la rapidità con cui era in grado di assecondare Seneo nel canto, gli scherzi e i dileggi si erano trasformati in astio. Non lo volevano quando uscivano per andare in città, né per cenare o divertirsi. Aveva provato a mangiare qualche volta con loro, ma se ne era dovuto andare, infuriato per il silenzio finto e strafottente con cui gli facevano capire che non era gradito alla loro tavola. Da allora mangiava da solo in camera, sbocconcellando qualche tozzo di pane e il formaggio che la cuoca di casa gli lasciava da parte.
«Bah, non ne posso più!» sbottò lasciando cadere il libro aperto sulla scrivania. Il calamaio e la vaschetta di inchiostro dondolarono pericolosamente. Dunwich le afferrò entrambe con la mano aperta, usando solo le dita a forbice. Li rimise in piedi e piantò i talloni sulla gamba del tavolo.
“Chissà come sta la mamma.”
Non vedeva la sua famiglia da tanto. Doveva accontentarsi delle lettere che Eglade di tanto in tanto gli spediva. Ogni volta si riprometteva che sarebbe partito la mattina dopo per raggiungere la sua vecchia casa. Sapeva però che non sarebbe stato possibile, almeno fino alla fine del ciclo di studi con Seneo. Avrebbe voluto anche parlare con suo padre, e raccontargli dei progressi che stava facendo. Varno era un uomo semplice, che non aveva mai compreso a fondo le doti di suo figlio. Ma Dunwich sapeva che prima o poi avrebbe cambiato idea.
“Quando riuscirò a guadagnare più soldi… magari potrei chiederle di visitare Cambria con Mordraud, così potranno vedere la capitale…”
Non aveva la minima voglia di continuare a studiare, e neppure di dormire. Pensare a casa gli aveva fatto venire voglia di una passeggiata notturna.
“Un giretto al parco dei templi mi aiuterà a rilassarmi un po’” pensò Dunwich, mentre già cercava i suoi stivali sotto il letto. “Potrei chiedere a Enio se vuole venire con me… sembro talmente piccolo che non mi permettono di entrare nelle taverne, mentre con lui magari… anche le guardie mi fanno delle storie se mi beccano a bighellonare in giro.”
Lasciò subito perdere quella fantasia, quando sentì oltre le spesse mura di pietra le grida soffocate dei suoi compagni che brindavano, nelle cucine del palazzo. Se glielo avesse chiesto, Enio lo avrebbe mandato a quel paese e tutti lo avrebbero preso in giro.
«Va bene… vado da solo» mormorò mentre chiudeva a chiave la sua camera.
***
Dunwich riuscì a entrare nell’Arcana l’anno dopo, con dieci anni di anticipo rispetto all’età media degli studenti e tre anni prima della fine del ciclo di noviziato. Di comune accordo con Seneo, continuò ad abitare e perfezionarsi da lui, cosa che gli permise di spedire quasi tutto il sussidio ai genitori, mese dopo mese, senza mai tenere per sé più di quelle poche ramette che gli servivano per togliersi qualche sfizio. Aveva già a disposizione tutto quello che poteva desiderare. Una bella libreria, cibi raffinati, mobili di lusso e vestiti confezionati su misura.
Ed era soltanto l’inizio della sua dirompente carriera.
Nella sua nuova scuola, Dunwich riaccese le solite chiacchiere e gli stessi sospetti che aveva già dovuto sopportare nei suoi brevi studi con Seneo. Il suo ritmo di apprendimento era inimmaginabile. In sei mesi era diventato solista di coro. Aveva cantato in fila giusto per un paio di giorni, poi i suoi insegnanti erano stati costretti ad assegnargli il ruolo principale. Nessuno degli altri ragazzi riusciva a stargli dietro, la sua voce spiccava sulle altre in modo imbarazzante. Grazie all’interessamento del suo tutore gli fu data la possibilità di avanzare glissando i primi anni di studi, e ciò gli permise, già all’età di quattordici anni, di entrare nelle cerchie dei cantori più rinomati della capitale.
Fu in quel periodo che finalmente poté sperimentare le prime risonanze.
Lo scopo dell’Arcana non era formare degli eccelsi cantastorie. Attraverso la musica era possibile ottenere un ventaglio di effetti tremendamente utili, soprattutto in ambito militare. Un coro in sintonia poteva mutare una pioggerellina passeggera in una tempesta martellante. Un cantore solitario poteva spalancare la terra sotto i piedi di un plotone lanciato alla carica. I nobili più facoltosi pagavano esperti per appoggiarli nelle contrattazioni. Un cantore immerso nella propria concentrazione era in grado di percepire minacce e menzogne altrimenti invisibili. O poteva tirar fuori dai guai un mercante finito malamente in trappola. Era sufficiente la giusta melodia, con la tonalità e il ritmo adeguato, per manifestare una risonanza. Candele che esplodevano in globi ruggenti di fuoco. Il vento imbrigliato e concentrato in spuntoni assassini. Luci che si generavano dal nulla. Inganni della mente che lasciavano senza fiato gli incauti ascoltatori.
Quando Dunwich riuscì ad avvicinarsi ai maestri di Armonia Militare, si rese conto che quello era il campo in cui voleva eccellere sopra ogni altro cantore di Cambria.
L’Arcana sorgeva nel cuore culturale della capitale, vicina alle torri che dominavano il grande cancello d’oro. Il palazzo era stato ricostruito poco dopo la dichiarazione del progetto imperiale, secondo il gusto pomposo e magniloquente caro al patriarca della famiglia di Loralon, Loren. Marmo bianco interrotto da decori in pietra policroma, ampie vetrate a sesto acuto, statue celebrative disseminate su piedistalli incastonati nelle pareti. Tutte le scuole di Cambria, l’accademia militare e l’Arcana, l’antico circolo delle scienze e la biblioteca imperiale, sorgevano all’interno di un parco curato e rigoglioso dove tutti gli studenti potevano incontrarsi, dialogare o pranzare all’ombra dei poderosi castagni che l’Imperatore stesso aveva preteso fossero prelevati dalle foreste a Ovest della città. Il nonno e il padre di Loralon avevano sempre dimostrato un profondo interesse per la cultura, e il frutto di tale dedizione aveva generato una miriade di premi, concorsi e fondazioni che occupavano un’importante fetta del patrimonio della città. Pittori e scultori avevano prodotto opere magnifiche che abbellivano i più importanti palazzi nobiliari, nei teatri si susseguivano una dopo l’altra le creazioni di giovani e affermati commedianti, gli alchimisti producevano medicamenti raffinati e i geografi ricavavano mappe leggibili da pergamene erose dai secoli.
I tempi stavano però cambiando rapidamente. Loralon non aveva la stessa predilezione familiare per l’arte e la cultura, e non aveva neppure completato gli studi da Maestro dell’impero, la figura di giudice supremo e custode della legge, perché era stato costretto a subentrare al padre morto prematuramente. Avrebbe anche potuto concludere gli studi, ma si era ritirato per il bene della città, a suo dire.
Una scelta che in tanti attribuirono alle sue scadenti doti di studente, più che a una reale fretta di comandare.
La guerra continuava da decenni senza alcun progresso determinante, e il denaro ormai non traboccava più dalle tasche dei mecenati e dalle borse dei burocrati imperiali. Lo spazio si stava restringendo, e solo i più dotati riuscivano a restare ben artigliati ai privilegi concessi dalle fondazioni. L’Arcana godeva dell’appoggio delle Lance Imperiali, perché forniva maestri di canto e specializzati in ricerca teorica, per cui il livello era ancora molto alto. Esserne membri era un’opportunità molto rara, dedicata a pochi.
Dunwich era perfettamente conscio di non potersi permettere la minima distrazione, o il più piccolo ritardo. Come figlio del popolo, senza alcuna famiglia alle spalle e un briciolo di dote economica su cui appoggiarsi, doveva primeggiare costantemente su tutto e tutti.
Cosa che non gli risultò affatto difficile.