XXI

 

 

 

 



 

«Alto, capelli scuri, probabilmente robusto. Occhi di un verde intenso. Parla senza accento di Eld, di Cambria o dell’Est. Immagino abbia una voce baritonale. Potresti trovarlo insieme a un ragazzino dai capelli castano chiari, occhi cerulei, molto magro e pallido. Mi interessano entrambi. Scopri cosa fanno, voglio i dettagli. Non farti vedere.»

 

In fondo alla pergamena, una mano più energica e spigolosa, diversa dalla cura della prima calligrafia, aveva aggiunto una postilla sghemba. Come una veloce approvazione su un ordine.

 

«Ammazzali.»

 

La nota era firmata con una D elegante. Mordraud accartocciò il foglio fra le mani e lo usò per fermare il sangue che sgorgava copiosamente dalla ferita sulla spalla. Per poco, pochissimo, la lama non gli aveva perforato i polmoni. Sarebbe morto lentamente, proprio sui gradini di casa.

«Dunwich… maledetto…»

Il primo pensiero che ebbe quando sentì il pugnale piantarsi nella schiena, fu che se lo meritava, in fin dei conti. Adraman li aveva scoperti, e aveva preso la saggia decisione di farlo fuori. Aveva addosso ancora l’odore della pelle di sua moglie, il suo respiro in gola. La testa gli pesava, schiacciata dal vino e dalla pietra dura su cui si era addormentato. Deanna se n’era già andata quando si era ripreso, e lui era sgattaiolato fuori poco prima dell’alba, terrorizzato all’idea di essere scoperto da Adrina e dagli altri servitori. Mentre varcava la porta stava pensando solo a Deanna, a un bacio che era sicuro di aver sentito mentre dormiva, una carezza mentre lei si alzava per tornarsene a letto. Probabilmente stava sognando.

L’assassino doveva aver passato la notte fuori ad aspettarlo. Era scivolato alle sue spalle mentre scendeva dall’ingresso e aveva colpito, ma senza troppa precisione. Forse il sonno, o il suo passo incerto da sbronza finita male. Fatto stava che Mordraud non era morto al primo colpo, e non aveva neppure urlato. Si era voltato strappandogli di mano il coltello, e lo aveva guardato con puro e semplice stupore.

«Ah! Ma non sei… tu…» aveva esclamato convinto di trovarsi di fronte Adraman in persona.

L’assassino era un vecchio alto e grasso, coperto da una palandrana grigia. Pareva un pezzente qualunque. Il feudo era pieno di anziani senza una rametta o una casa, rimasti orfani di tutta la famiglia. La spada che uscì dalle falde della lunga veste era però troppo bella per essere un cimelio. Mordraud gli fermò il polso prima che potesse alzare la lama e lo colpì con una testata in bocca. La spalla gli faceva un male cane, ma in quel momento la sua massima preoccupazione era di non fare rumore. Se l’avessero visto fuori dalla casa di Adraman a quell’ora, avrebbe perso il lavoro. L’assassino era un problema secondario.

«Chi ti manda?» sibilò a un soffio dalla sua faccia. «Ti manda Dunwich, non è così?!»

Il vecchio tentò di strappare la spada dalla morsa di Mordraud, ma la sua presa era d’acciaio. In preda al panico, annuì tentando anche di parlare, ma aveva i denti e la lingua disfatti dalla testata, e riuscì soltanto a pigolare qualche parola sconclusionata. Mordraud vide una tenue luce accendersi in una finestra della casa di fronte. Non perse tempo. Prese la testa del vecchio con la mano libera e la schiantò contro lo spigolo di marmo dell’ingresso. Uno, due colpi secchi. L’uomo si accasciò come un sacco di patate.

«Mi vuoi morto, allora… non ce la fai proprio ad aspettare un duello sul campo di battaglia!» sbraitò, dopo aver trascinato il cadavere fuori dalla villa, fino a un vicolo stretto e ingombro di immondizia. Un altro vecchio morto nella notte. Nessuno avrebbe chiesto o fatto niente.

“Se hai torto anche solo un capello a Gwern… ti vengo a prendere a casa, nella tua bella Cambria.”

Doveva sbrigarsi. Mancava poco all’adunata mattutina in caserma, e non doveva farsi trovare fuori. Sarebbero fioccate domande a cui non sarebbe stato in grado di dare una risposta, vista la sua scarsissima abilità a mentire. Avrebbe finto di essersi addormentato da qualche parte dopo la sbronza. Dopotutto, cosa poteva fare un militare in congedo se non sfasciarsi con il vino, si chiese.

“Di certo, non intrufolarsi in casa di un generale e scoparsi sua moglie” pensò cupo mentre correva verso i dormitori “domani mi faccio spedire al Terrapieno, a costo di nascondermi in un carretto! Questa deve essere l’ultima volta! Assolutamente!”

Mordraud si rese conto di non saper mentire neanche a se stesso.

 

***

 

La parte difficile era non vergognarsi.

Gwern chiuse gli occhi e respirò lentamente. Allargò le braccia, piantò bene i piedi per terra, e iniziò a cantare a squarciagola un motivetto stupido ma complicato, ricco di salti, note sgraziate, passaggi bruschi. Era in piedi sull’orlo della scala. Le sue volute correvano verso il pavimento lontano in un nauseante gioco di curve.

In basso, Saiden stava mormorando qualcosa. Non sembrava nemmeno muovere le labbra. La torre era sul punto di esplodere per la potenza della sua voce. Era come se la scala, i cubi di porfido in cui erano state scavate le camere, se ogni cosa stesse vibrando in risonanza con il suo canto.

Il compito di Gwern era sovrastarlo.

Impossibile, pensò terrorizzato.

«Più forte!» urlò Saiden. «Magari anche un po’ meglio!»

Gwern stava praticamente urlando senza più articolare le note. Perse totalmente la concentrazione chiedendosi come avesse fatto Saiden a cantare e contemporaneamente a riprenderlo. Ebbe anche il tempo per rendersi conto quanto facesse schifo a cantare. Non aveva ancora imparato niente. Anche perché Saiden non gli aveva insegnato assolutamente niente. Senza concludere la melodia programmata, si accasciò a terra ansimando.

«Domani cerca almeno di arrivare alla fine!» gridò ancora Saiden, mentre il suo canto si spense poco dopo. Un inaspettato effetto dell’eco che causò a Gwern una fitta dolorosa di mal di testa.

Saiden scoppiò a ridere.

Incredibile come all’inizio gli fosse parso simpatico, pensò lugubre Gwern.

Erano otto lunghi giorni che provava, ma sembrava non servire a niente. A parte le prime scarne indicazioni, Saiden non si era fatto vedere se non per umiliarlo. Mangiava sempre da solo. Una volta al giorno, dopo il tramonto. Due bicchieri d’acqua al mattino, uno alla sera. Una galletta rinsecchita. E nient’altro.

“Vuole prendermi per fame!” pensò Gwern mentre ritornava imbarazzato in camera. “E ci sta riuscendo…”

Nessuno poteva sopravvivere molto a lungo mangiando così poco. O almeno, sopravvivere e contemporaneamente cantare tutto il giorno. Aveva la gola sempre secca, la lingua pesante e ruvida, e i denti gli facevano male. Stava iniziando a odiare qualsiasi cosa gli ricordasse la musica, ed erano passati solo quindici giorni.

«Come faccio?!» piagnucolò Gwern gettandosi sulla panca di legno ammorbidita solo da una sottile coperta di lana. «Non so niente di canto, non so niente di come funziona un’armonia… morirò di sete prima di aver capito come cantare quella dannata canzoncina! Sempre che non mi venga voglia di buttarmi di sotto per la vergogna…»

Si sentiva troppo debole per esercitarsi. In cosa poi, pensò depresso. Gwern chiuse gli occhi e si addormentò come un sasso.

La sveglia mattutina era sempre la stessa. Un paio di lievi bussate alla porta di metallo, e due bicchieri d’acqua poggiati sull’esile ponte che collegava la stanza alla scala ellittica. Gwern bevve come se fosse sul punto di morire, ma la gola era troppo secca per trovare un qualsiasi conforto. Stava per intaccare tutta la riserva giornaliera, ma si trattenne a metà del secondo bicchiere, altrimenti quel pomeriggio non avrebbe avuto più un goccio di saliva, neanche per bisbigliare.

Saiden, come ormai aveva capito, non si fece vedere. Gwern ricominciò controvoglia ad allenarsi, sempre con la stessa sensazione fastidiosa sulla pelle, quella di essere un idiota che cantava in una cella. Di progressi, neanche a parlarne. Per sua fortuna aveva provato qualche volta a esercitarsi con Sernio, e anche se lui non sapeva bene come fare, era almeno intonato. Gli aveva spiegato qualcosa, anche se lui non sapeva come mettere in pratica le sue osservazioni. Il problema di Gwern erano le note basse, irraggiungibili per la sua voce ancora infantile. Non che i registri alti gli riuscissero meglio, pensò sarcastico. Sapeva a malapena cosa fosse davvero un registro, usava quella parola solo perché gli piaceva come suonasse. Rendeva bene l’idea. Gwern diede un’occhiata al bicchiere mezzo vuoto, sentì la pancia brontolare atrocemente, e provò la sgradevolissima sensazione di non avere il tempo di arrivare a sera. Doveva darsi una mossa, tirare fuori la voce anche dove non ne aveva. Con la paura che gli mordeva le budella ebbe la prima idea sensata dopo giorni di sfiducia incrollabile.

Non doveva cantare a squarciagola.

«Saiden muove appena le labbra» sussurrò sconvolto dalla sua stessa idiozia. «Come fa?!»

Prima di tutto, doveva capire cosa stesse sbagliando. Gwern si guardò intorno e frugò nella stanza. Non ci volle tanto. Non sembrava una camera da letto, mentre era perfetta come cella di una galera. All’inizio non gli aveva dato quell’impressione. Dopo così poco tempo, già l’odiava a sangue.

“Non c’è altro… farò con questa.”

Prese il bicchiere di vetro vuoto, e pregando di non fare una cosa troppo stupida lo spaccò contro il muro. Scelse il frammento più grande e affilato, incise due righe sbilenche sul legno morbido della panca, e disegnò una linea che saliva e scendeva intorno alle parallele, come un ricamo. Ne aveva vista una simile in un libro di Sernio, l’aveva osservata per giorni chiedendosi cosa rappresentasse, cosa si nascondesse dietro quell’elegante curva sinuosa. Cercò di ricordare la voce di Saiden. La scompose. Era perfetta allo scopo. Saiden cantava con grande precisione, scandendo alla perfezione ogni nota.

Poteva ottenere qualcosa di buono da una linea, se la modellava in base ai toni della voce. Con le due righe parallele a contenere il territorio in cui Gwern sentiva di cantare con più naturalezza.

Sopra, era il registro acuto, dove era piuttosto scarso. Sotto, il registro grave. Dove era parecchio scarso. La zona fra le due linee era il registro medio, l’unica sua debole sicurezza.

“Se proprio devo morire di fame, voglio almeno che Saiden noti un miglioramento. Iniziamo dall’alto.”

Gwern passò tutta la giornata a lavorare solo sui passaggi acuti. Non aveva la minima idea di come fare, lo fece e basta. Ragionandoci sopra divenne meno difficile del previsto, come se ci fosse particolarmente portato. I primi tentativi furono rantoli sconnessi e aspri, senza grazia. Aveva soltanto due righe storte su cui poggiarsi, sostegni traballanti come pali piantati nella polvere.

“No, così non va bene… ho bisogno di un esempio… se solo Saiden mi avesse insegnato una maledetta canzone!”

Non riusciva a replicare la melodia che Saiden lo aveva costretto a eseguire, era troppo articolata. Troppo tecnica. Per allenarsi con profitto avrebbe avuto bisogno di esempi più alla sua portata. Doveva almeno imparare a copiare qualcos’altro prima. Gwern si tirò uno schiaffo sulla fronte. Di canzoni su cui esercitarsi in realtà ne conosceva tantissime.

I mitici cori della taverna di Larois.

Gwern chiuse gli occhi, e intonò in falsetto la sua canzone preferita.

«Dritto correva il sentier… fra i platani in schiera a guardar… la Lancia lanciata a caval, le mani sulla pancia a pensar… che faaamee, che faaamee… un cinghial! Un cinghial! Ecco cosa ci vuol!»

L’aveva cantata decine di volte, ma non l’aveva mai fatto da solo. Non era particolarmente complicata. Il falsetto era sciolto, piacevole. Doveva soltanto immaginare di essere una donna seduta al bancone con un boccale di birra in mano.

«Cinghial! Cinghial! Non farti acciuffare non farti beccar!»

Se restava nell’acuto, Gwern notò con determinazione crescente che la sua voce infantile era perfetta. Bastava non spingere troppo, e prestare attenzione alla melodia. Quando era fastidiosa all’orecchio, allora stava sbagliando qualcosa. Si affidò al gusto, non potendo contare sulla teoria. E si rese definitivamente conto che il suo problema era la pressione di dovercela fare a tutti i costi. Era intonato, l’aveva sempre saputo. Che non sapesse fare era un problema risolvibile.

Doveva soltanto imparare.

Venne infine l’ora della temuta esibizione serale. Dall’immensa vetrata del tetto baluginavano sbiadite stelle offuscate. Sotto di lui, a distanze siderali, Saiden aspettava con le mani dietro la schiena.

«Avanti, vediamo di farla finita.»

Gwern respirò affannosamente un paio di volte. Tutta la sicurezza che aveva accumulato durante il duro giorno di studio, si crepò all’istante di fronte a Saiden. La sua presenza lo intimoriva in modo disumano.

Il suo maestro prese a cantare con voce terrificante. Muoveva appena la bocca. La scala gli stava tremando sotto i piedi. Gwern si sforzò di non ascoltarlo. Aveva trovato il volume giusto, dove la sua voce riusciva a muoversi con più leggerezza, e a costo di farsi cacciare quella sera stessa, avrebbe portato avanti la sua idea. A malapena sentiva se stesso, tale era il boato di Saiden.

«Devi cantare più forte!» urlò lui, cavalcando la sua stessa voce colossale.

Non ascoltarlo, Gwern. Non ascoltarlo. Concentrati solo su questa fottuta canzoncina. Fa schifo, è demente, ma è la tua vita. Morirai se non la impari.

«Se non sai cantare più forte, VATTENE SUBITO!»

Non ascoltarlo, Gwern.

Era sua quella voce?

Gwern riaprì gli occhi, e senza neppure essersene accorto aveva già finito. Non aveva ascoltato nulla di quello che aveva cantato. Senza dire una parola se ne tornò filato in camera. Senza nemmeno dare un’occhiata all’espressione di Saiden.

“Posso anche preparare la mia roba” pensò.

Non aveva fame, e anche la sete lo stava miracolosamente risparmiando. Ma una sensazione di assai peggiore aveva preso il posto del dolore fisico. L’umiliazione di aver fatto qualcosa di buono, ma che nessuno aveva capito.

“Se non mi viene a chiamare prima, domani mattina me ne vado. C’è un ruscello poco lontano, dentro il bosco verso Nord. Forse riesco ad arrivarci prima di crepare.”

Gwern si addormentò sulla panca incisa dal suo affresco di linee e punti, con addosso una strana tranquillità venata da un pizzico di malsana euforia.

“Almeno questo tormento è finito, e io ho provato fino alla fine… non avertene a male, fratello.”

Mentre sprofondava in un sonno schiacciante, Gwern risentì i suoi pensieri riverberargli in testa, come se stesse parlando da solo con se stesso. Avevano lo stesso timbro neutro e senza vita della voce che gli era parso di sentire prima, mentre cantava.

Nessuno venne a prenderlo nel cuore della notte, e come ogni mattina Gwern sentì le due lievi bussate che segnavano l’inizio del tormento. Aprì la porta pronto a dire che ne aveva abbastanza, che non poteva imparare a cantare perché non ne era capace, ma quello che vide ai suoi piedi gli tolse le parole di bocca.

Non trovò soltanto i due soliti bicchieri d’acqua. Al loro fianco, anche due gallette di pane imburrato con il miele, disposte a formare una linea verticale.

«L’acuto ora va bene…» mormorò con un sorriso vagamente isterico «bisogna lavorare di più sul grave.»

 

***

 

Svelate le trappole, raggiunto il primo traguardo, Gwern lavorò con un impegno ai confini della fissazione. Il tono medio era il suo forte, ma mentre lo aggiustava si rese conto che l’acuto poteva essere migliorato, e anche molto. Non voleva esibire soltanto frammenti di miglioramento, così ogni sera cantava come la prima volta, facendo di testa sua. Senza ascoltare il suo maestro. Solo quando sentiva di poter aggiungere qualcosa di importante, si esponeva a Saiden e tentava il colpo. Ma il suo maestro era un muro armonico invalicabile. Spesso Gwern perdeva la concentrazione e sbagliava tutto, così doveva tornarsene in camera senza aver potuto dar prova delle sue fatiche.

La seconda razione di gallette al miele giunse improvvisamente. Gwern non se l’aspettava. Il suo maestro doveva aver colto qualcosa di buono nel duro lavoro che lui stava ostinatamente portando avanti. Si concentrò su quello che aveva mostrato, cosa potesse essere piaciuto a Saiden. Sapendo di non poter cantare grave perché non aveva assolutamente la voce, si ingegnò. Prese a modificare parzialmente l’ipnotica canzoncina con cui, nei piani di Saiden, lui doveva riuscire a coprirgli la voce, in una sorta di gara di volume. Gwern perse il conto dei giorni che passava chiuso nella sua cella. Il buio della torre, il ritaglio tondo di notte al posto del cielo, le prove. L’esecuzione. Era un ritmo in cui Gwern si perse. Ogni suo tentativo era la perfetta ripetizione di mille altri passati. La panca accumulava appunti su appunti, linee, segni che solo lui capiva. Un linguaggio che stava inventando per spiegarsi capacità che già aveva, da qualche parte dentro di lui.

In certi momenti, Gwern si sentiva travolto dall’ansia di non riuscire, di essere incapace di migliorare. Altre volte veniva catturato dall’euforia, dalla sensazione di avere in mano tutta la sua abilità, e di poterla plasmare a piacimento. Ma il registro grave era il suo scoglio mortale. Tante volte si era sentito sul punto di voler mollare. La sete non era più un problema. La fame era svanita. Anche la sua voce era ormai ridotta a un sibilo senza toni, ma ciò che contava era come suonava nella sua mente. Gwern stava lentamente sparendo dentro se stesso.

Finché, un giorno qualunque, riuscì a completare la canzone senza errori. Da solo, nella sua stanza ridotta a un nido caotico.

«Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!» gridò saltellando intorno. «Tutte le note! Anche le più basse! Ho capito, ho capito

Quando quella sera si presentò di fronte a Saiden, Gwern si sentiva diverso. La paura era sparita insieme alla fame e alla sete. Si sentiva in forma, pieno di energie. Carico come una molla schiacciata da secoli.

«Non ce la farai!» gridò il maestro. Era partito subito alla carica. Con ancora più ferocia del solito.

Gwern sorrise, e iniziò.

Il primo passaggio venne a meraviglia. La sua voce scivolava con grazia lungo ogni salto, giocava intorno agli abbellimenti, precipitava come un piombo nel mare a pescare le note più profonde. Aveva voglia di ballare, e forse lo fece senza rendersene conto. La canzoncina non sembrava più così stupida, anzi. Gwern la stava trasformando in un canto di guerra, nel passo dei soldati in marcia, nelle trombe che squillavano prima della carica. La melodia corse fino a evolversi in un mormorio cupo come la notte più nera. Quella era la sua nemesi, e lui la affrontò senza indietreggiare. Il canto di Saiden era ancora sopra il suo, ma di poco. Lui gli stava volteggiando intorno, poggiandosi quando ne aveva bisogno, spiccando il volo quando trovava il passaggio armonico che poteva esaltarlo.

Il finale fu il suo atto di grazia. Con voce sempre più potente e coraggiosa sfidò la velocità, i salti furiosi, il ridicolo passo di marcetta. Saiden passò sotto. Concluse afferrando al volo il nulla con un pugno chiuso.

Fu solo in quel momento che prestò attenzione all’eco della sua voce. Voleva sentirne il riverbero sulla parete.

Ma dalla sua gola non era uscita neppure una nota. Il ventre buio della torre era dominato solo dal canto di Saiden, che stava velocemente scemando nel silenzio. Gwern fu travolto da un orribile sensazione.

Aveva sognato di cantare.

Stordito, stanco e in preda alla confusione più totale, Gwern ciondolò verso la sua stanza e crollò sulla panca. Non pensò nemmeno a Saiden, a quello che forse avrebbe dovuto dirgli. Che stava impazzendo. Stava uscendo di testa. Era uno sforzo inutile e assurdo. Si era convinto di fare chissà cosa, invece non aveva capito niente. La sua memoria lo stava prendendo in giro. Si addormentò mentre ancora cercava di trovare un filo logico a quello che era successo là fuori.

«Sinceramente non credevo che tu potessi migliorare così tanto, da solo.»

Era la voce di Saiden. Gwern aprì gli occhi, e un dolore atroce gli aggredì tutte le ossa del corpo, i muscoli, ogni nervo. Sembrava il solito attacco della sua vecchia malattia, ma era più forte, più doloroso. Gli sembrò di riviverli tutti nello stesso momento. Era la prima volta che ne aveva uno da quando era entrato nella torre, e Gwern si ritrovò a chiedersi il perché. Dopotutto, aveva costretto il suo corpo a ritmi impressionanti, quando di solito era sufficiente una botta di freddo, o una fatica improvvisa a farlo cadere in terra in preda ai tremori.

«Ti sei tenuto in vita da solo. Un’altra curiosità da aggiungere al tuo segreto. Cosa nascondi, Gwern?»

«Do… dove sono?! Ho cantato? Quanti giorni sono passati?» biascicò rischiando di mozzarsi la lingua in bocca. Se quella non era la morte, non doveva comunque mancare molto. Il dolore era insopportabile. I fremiti lo stavano dilaniando dall’interno. Saiden si sedette sulla panca vicino a lui, poggiò una mano sul suo petto, e i tremori svanirono in un istante.

«Volevo vedere se possedevi qualche dote nascosta. Non ho visto quello che più mi interessava, ma sei comunque stato notevole.»

«A fare… cosa?!»

«A improvvisare. Hai una grande capacità di entrare in risonanza con te stesso, davvero degna di nota.»

«Ma io ho… ho veramente…»

«Cantato? Più o meno» lo interruppe Saiden. «Tu l’hai creduto, è questo che conta. L’atto fisico del cantare è secondario.»

«Non capisco, maestro…»

«Oh, per ora non importa. Ci torneremo su» rispose lui. Per quanto si stesse comportando gentilmente, Gwern sentì una vaga freddezza nella sua voce. Come se fosse ancora intento a studiarlo.

Come se vedesse qualcosa nel suo petto che lui non sapeva come vedere.

«Mi sento meglio…» esclamò stupito Gwern sollevandosi a sedere «ma come…»

«Bene, mi fa piacere. A tempo debito dovremo anche lavorare su questo tuo… problema. Ma a tempo debito. Per ora…» Saiden sorrise e si alzò per andarsene.

«Ti sei meritato una cena decente.»

 

***

 

«Spostate il gruppo di Rago più a valle. Mantenete la copertura degli arcieri sulla loro fanteria.»

«Subito signore!»

Dunwich era a fianco di Asaeld nelle retrovie dell’esercito insieme alla sua guardia personale, intento a osservare gli spostamenti delle truppe nemiche. Il comandante delle Lance non aveva schierato il suo battaglione, così non era stato necessario partecipare allo scontro vero e proprio. Dunwich l’aveva presa piuttosto male. Sentiva la mancanza della carica, l’eccitazione della battaglia. Era stanco di aspettare senza fare niente. Erano mesi che non scendeva in campo.

«La cavalleria di Eldain si sta spostando lungo l’argine» fece notare Dunwich ad Asaeld «sfruttano il terreno per penetrare nella nostra zona. Manda un paio di squadre a intercettarli, e magari orienta gli arcieri verso di loro.»

«Ottima idea. AVETE SENTITO COSA HA DETTO DUNWICH? MUOVETEVI!» gridò lui agitando le braccia «VOGLIAMO PIÙ ARCIERI!»

«Hai saputo niente sui progressi di Lungo Inverno?»

«Ci siamo quasi» rispose Asaeld «qualche intoppo non previsto con i primi esploratori, dopo che uno di loro si è fatto scoprire a un passo dal Terrapieno… ma quando arriveranno i primi freddi saremo pronti. Dobbiamo avere una mappa assolutamente perfetta del territorio. Ne va della qualità dell’attacco.»

Dunwich annuì pensando ad altro. Intoppi. Anche la sua spia doveva essere incappata in qualche problema non previsto, dato che stava tardando oltre ogni previsione.

«Cos’è che ti distrae, Dunwich?» chiese Asaeld fissandolo perplesso. «Non devi mai perdere la concentrazione, altrimenti potrebbero sfuggirti i movimenti del nemico… ricordati, niente e nessuno deve distrarti!»

«Tranquillo Asaeld, stavo solo pensando all’ostinazione dei nostri nemici. Certo che i ribelli non mollano un palmo di terra… nemmeno quaggiù, nella periferia del fronte. Siamo a Sud di Ansa dell’Hann, quasi a ridosso di Hannrinn. Sanno che non scenderemmo oltre, per non correre il rischio di trovarci con la schiena scoperta.»

«Eldain non da mai nulla per scontato» rispose Asaeld «sa che basta poco per perdere il controllo. Qui vicino c’è un fiumiciattolo all’apparenza innocuo. Ma dato che confluisce nell’Hann, potrebbe essere usato in svariati modi. Ad esempio, se riuscissimo a prenderlo e tenerlo per almeno un anno, potrebbe essere un’ottima via d’acqua per raggiungere l’entroterra di Eld. E loro non hanno neppure una nave nel loro arsenale.»

«Non ci avevo pensato…» ammise Dunwich.

«Non sei onnipotente, ragazzo mio!» Asaeld rise di gusto. «Altrimenti io a cosa servirei?»

«Hai decisamente ragione! Se dovessimo lasciare tutte le scelte a… tu sai chi, non oso immaginare il disastro…»

«Ben detto, signore!» esclamò una Lancia alle loro spalle. «Avessimo più generali come voi, e meno incapaci al governo…»

Era poco più che un ragazzo, e Dunwich non l’aveva mai notato prima. In realtà, le file delle Lance si erano molto arricchite negli ultimi anni. Giovani promettenti, che avevano completato gli studi in modo eccellente e in tempi assai rapidi. Da quando Asaeld era stato eletto rettore, il corso dell’accademia militare era cambiato notevolmente. Meno anni e molta più pratica. Anche gli insegnanti erano cambiati quasi tutti. Quelli che se ne erano andati per vecchiaia, erano stati sostituiti da uomini scelti da Asaeld in persona.

«Dobbiamo rinforzarci, e con i metodi classici non andiamo da nessuna parte. Abbiamo bisogno di nuova linfa!» era stata la motivazione che aveva portato di fronte all’Imperatore. «Io so come fare!»

Loralon ovviamente non aveva osato aprire bocca, come sempre quando lui parlava.

«Soldato, quello che dici è inaccettabile!» sbraitò Asaeld rosso in volto. «Devi avere il massimo rispetto per il governo!»

«Non esagerare, Asaeld… alla fine ho iniziato io. È solo un novizio, non vedi? Gli bolle il sangue come a tutti i ragazzi…»

«Meriterebbe qualche frustata, invece! Per capire chi comanda!»

La povera Lancia si era fatta piccola al suo cospetto, e guardava a terra nella terribile attesa di una punizione esemplare.

«Lascia stare la frusta, non serve a niente se non a incattivire le persone. Soldato, vero che terrai a freno la lingua, d’ora in poi?» Dunwich fece un passo verso il giovane, che annuì deciso. «Queste cose pensale e basta» gli sussurrò coprendosi la bocca con fare malizioso. La Lancia chinò il capo e se ne andò prima che qualcuno potesse cambiare idea riguardo alla sua punizione. Asaeld sorrise senza farsi vedere da Dunwich. Ogni traccia di rabbia era svanita dal suo volto, come se non fosse mai esistita.

«Signore!»

Dunwich si voltò verso la giovane Lancia, che si era fermata improvvisamente a fissare l’orizzonte. Stava indicando il cielo a bocca aperta. Un’espressione di ridicolo stupore in faccia. Dunwich ebbe solo il tempo di guardare in alto.

Una scarica di frecce stava piombando su tutti loro.

Provò a intonare qualcosa, ma non ne aveva il tempo. Asaeld sembrava non essersi accorto ancora di nulla.

«ASAELD! GIÙ!» gridò disperatamente, mentre il panico si diffondeva fra le Lance assiepate nelle retrovie. Poi, qualcosa lo schiacciò a terra e gli oscurò la vista. Con l’orecchio strizzato al suolo sentì la pioggia d’acciaio cadere su tutti loro. In tanti urlarono di dolore. Anche l’uomo che lo aveva protetto con il proprio corpo.

Il ragazzo di prima aveva fatto da scudo.

«No! Asaeld!» bofonchiò Dunwich con la bocca infilata nel fango. «Coprite lui! Dovete coprire lui!»

La sua supplica non venne ascoltata. La Lancia era già morta.

Quando la pioggia terminò, a terra giacevano otto soldati. Tutte Lance fresche di accademia. Asaeld era rimasto miracolosamente illeso, a parte un lungo e profondo graffio sulla fronte.

«Ma… chi è stato?!»

Il battaglione di arcieri si era spostato dopo il suo ordine. Uno dei sopravvissuti vicino a lui disse di aver visto un gruppetto più piccolo di arcieri voltarsi verso il comando, calibrare il lancio e scoccare. Difficile capire chi fossero e dove si fossero spostati. Impossibile individuarli, proprio mentre una manovra complessa come quella di avvicinamento al letto del fiume. Asaeld urlava selvaggiamente, le Lance ferite gemevano riverse a terra con frecce piantate ovunque. Il caos regnava nelle retrovie.

«Asaeld! Richiama subito quei maledetti arcieri, dobbiamo isolarli subito, prima che si disperdano!»

Il comandante era sbiancato e sembrava incapace di muoversi. Intorno a lui, cinque frecce disegnavano un anello perfetto che solo per un soffio non aveva trovato il bersaglio. Una risonanza, pensò Dunwich. Asaeld era riuscito a proteggersi con una barriera armonica.

«Non servirebbe a niente. Ormai saranno già sfilati negli altri reparti, laggiù stanno combattendo, è impossibile tenerli d’occhio!»

«E allora cosa vuoi fare?!»

Dunwich guardò il ragazzo che era morto per proteggerlo. Pochi istanti prima se ne stava andando per paura della frusta. Una fine tristemente ingiusta.

«Ha preferito proteggere te, hai visto?»

«Solo perché tu l’avevi appena minacciato di chissà quale orribile punizione…» mormorò Dunwich sconsolato. Non si era mai sentito così perso. Vuoto. Si chiese quanto la sua vita potesse valere. Se fosse veramente più preziosa di quella di un altro soldato.

«Non è questo il motivo. Hanno protetto te perché sei un idolo fra le truppe. Iniziano a riconoscerti come un vero capo, una guida! Hai carisma, e dici sempre le cose come stanno. Tu piaci ai tuoi soldati» disse Asaeld. Sembrava ancora scosso, ma allo stesso tempo soddisfatto dalla piega degli eventi. Dunwich invece era sconvolto, e non rispose. Per quei dettagli da politicante non provava il minimo interesse.

«Qui si tratta di un compagno morto al posto mio! Non in mezzo alla mischia, alla confusione della battaglia… lui si è preso queste frecce volontariamente… e non so neppure come si chiamava…»

«Adesso non importa.»

«NON IMPORTA?! Avevi detto che i cospiratori erano stati tutti sistemati! È un disastro… per gli Dei, è un vero disastro…»

«Dobbiamo allontanarci da qui, e continuare a gestire le truppe. Rischiamo di perdere la battaglia se continuiamo a indugiare!»

«Abbiamo già perso, Asaeld» ringhiò Dunwich.

«Abbiamo già perso tutto.»

 

***

 

«Sembri stanco, Adraman. Sei sicuro di voler continuare?»

«Ci mancherebbe! Dormo più del solito, tutto qua. Non sono abituato a starmene a casa a non far niente.»

Eldain aveva invitato l’amico a cena nelle sue stanze private. Erano vuote come piccole celle di una galera. Piatti frugali, pane al farro e affettati, qualche fetta di formaggio, e una caraffa di vino leggero. Adraman era l’unico con cui passava volentieri qualche ora a parlare. Non di guerra, che era l’argomento principe non solo di ogni sua giornata, ma di tutta la sua vita.

«A casa…»

«Tutto a posto, grazie» lo interruppe Adraman. «Deanna sembra stare meglio.»

«Non mi sembri molto felice.»

«Ti sbagli, mi fa un gran piacere…»

«… ma?»

Adraman pressò il braciere della pipa con il fondo di un coltello e distese le gambe sotto il tavolo. Per quanto sembrasse sereno, Eldain poteva leggergli dentro un malessere inestirpabile.

«Ma non so perché stia meglio. Io non ho fatto, né detto nulla di diverso dal solito. I domestici non sanno nulla. Semplicemente… a volte sembra più felice.»

«Pensi che…»

«Non lo so» tagliò corto Adraman.

«Ne abbiamo già parlato una volta… ricordi?»

«Sì, e ci ho riflettuto parecchio.»

Eldain poggiò i piedi su una sedia vuota e inarcò la schiena per liberarla dal torpore. Stare seduto sullo scranno di legno nella sala dei colloqui era una tortura per le sue ossa. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma non poteva. Lo stesso valeva per molte altre cose.

«E cos’hai concluso?»

«Che sei un vecchio idiota a consigliarmi di assecondare un tradimento. Come potrei tornarmene a casa, dormire con mia moglie, sapendo che magari qualche ora prima si è scopata un altro?»

«Sei troppo drammatico… ed è un tuo problema da sempre» rispose Eldain senza il minimo sarcasmo. «Sei mai andato a puttane, Adraman?»

«Mi prendi in giro?! Una volta eravamo anche insieme, a Calhann… ti ricordi? Saranno passati dieci anni ormai. Quando abbiamo tentato di portarli dalla nostra parte…»

«E dopo? Mai più?»

«Ecco… forse una o due volte…» disse Adraman con un lieve imbarazzo «un paio o poco più, penso… non sono stato lì a segnarmelo…»

«E magari eri già sposato con Deanna.»

«Ma che c’entra?! Guarda che a volte sono stato lontano da casa per quattro, cinque mesi di fila! Tutti i giorni a risolvere problemi, a tentare di sopravvivere all’ennesima battaglia… qualche volta ho cercato un po’ di… calore umano, tutto qui.»

Eldain sorrise e si dedicò all’accensione della sua pipa. Adraman lo fissava aspettando una risposta, che però tardava ad arrivare.

«Quindi? Cosa volevi dirmi?»

«Non ci arrivi da solo?»

«Ma non puoi paragonare questo a un tradimento!» esclamò Adraman scandalizzato. «Te l’ho già detto, ero al fronte, rischiavo la vita… capita di sentirsi soli, capita… di…»

Non riuscì a finire la frase. Eldain continuava a fissarlo con un morbido sorriso sulle labbra. «Ce l’hai fatta a farmelo capire, eh vecchiaccio di merda?!»

«A volte sei un po’ troppo cocciuto, ma quando ti ci metti impari in fretta» disse Eldain ridacchiando.

«Non prendermi in giro, stiamo parlando di cose serie…»

«Non mi permetterei mai. Piuttosto… lo so che hai dei sospetti. Dimmeli.»

«No che non te li dico!» rispose Adraman costernato. «E non ho nessun sospetto! Mia moglie non mi sta tradendo!»

«Si tratta di quel ragazzo… Mordraud, non è così? Mi dicono che andate d’accordo… che ti piace, o sbaglio?»

Adraman arrossì e per non darlo a vedere si alzò per prendere qualcos’altro da bere. Che non c’era. Le bottiglie erano tutte sul tavolo.

«Mordraud mi ricorda un po’ la mia adolescenza. Ed è anche un bravo soldato» sbottò Adraman.

«Giovane, pieno di energia… combattivo… pervaso da ideali… dico bene?»

«Più o meno.»

«Ed è anche amico di Deanna, la conosce, e le vuole un gran bene… e magari si somigliano un po’.»

«Dacci un taglio. Quasi non ti riconosco, sembri una zitella.»

«Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Eldain raddrizzandosi sulla sedia. «Non ti sto facendo un processo, Adraman. Si fa così per dire.»

Adraman sospirò e scosse la testa lentamente. «Bah… non ti si può nascondere nulla. Sei sempre il solito. E dato che ci tieni tanto a saperlo… sì, penso che Deanna si veda con Mordraud.»

«E la cosa non ti disturba come ti aspettavi.»

«Esatto. Ma non so il perché.»

«Non è così difficile immaginarlo.»

Eldain poggiò la pipa per prendere un boccone di pane.

«Pensi che con Mordraud, Deanna potrebbe essere felice… e tu le vuoi troppo bene per negarle questa gioia.»

«Per gli Dei, se i tuoi uomini ti sentissero parlare in un modo così sdolcinato…» disse Adraman con un sorriso tirato.

All’improvviso Eldain batté le mani e si alzò di scatto.

«Che ne dici di fare una partita alla Torre di Spade

«Mh? La Torre di Spade? Proprio a quel gioco?!» chiese Adraman in preda alla confusione. Non si aspettava affatto un’idea simile, ed era già molto tardi. «Ma alla Torre sei scarso, non mi batti mai!»

«Quasi mai! E stasera sento di poter vincere facilmente… allora?»

«E sia» rispose Adraman. «Prendi le pedine, ma non barare. Non provare a togliermi un sette dalla squadra!»

«Non so barare, lo sai.»

Eldain preparò il campo di battaglia fischiettando. La Torre di Spade era un gioco molto antico, praticato in ogni angolo del continente. Le pedine numerate, semplici tesserine rettangolari di legno, dovevano essere disposte a formare le linee di un battaglione, e venivano mosse come a simulare una battaglia in miniatura. Ogni regione aveva le sue varianti, ma la struttura di base del gioco era rimasta immutata nei secoli. Dato che era necessario anche contare e sommare il valore di ogni tessera, la Torre di Spade veniva solitamente usata per insegnare ai bambini l’uso dei numeri.

Eldain e Adraman erano appassionati di quel gioco da quando erano giovani, ed entrambi avevano affinato le loro tecniche nelle lunghe notti inquiete al Terrapieno. Come tutti gli altri ragazzi con cui avevano combattuto, anche loro si erano fabbricati personalmente le tessere numerate, intagliandole fra un addestramento e l’altro. Era una delle tante regole non scritte del Terrapieno. Non si era ancora uomini, se non si possedeva il proprio esercito di legno.

Giocare era proprio quello che serviva al suo amico, pensò Eldain. Qualcosa che potesse distrarre Adraman per qualche ora.

Per non dargli modo di riflettere troppo su quello che gli aveva appena confidato.

 

***

 

«Ancora non ci siamo, sei troppo concentrato sul canto.»

«Ma le risonanze…»

«Te lo ripeto, una risonanza non nasce veramente dal canto, ma dalla tua concentrazione. È come un desiderio inespresso. Il canto è solo un veicolo. Un mezzo per raggiungerlo.»

Gwern e Saiden erano seduti a terra, alla base della scalinata. Stavano discutendo sui suoi progressi. Erano passati molti giorni da quando Gwern aveva iniziato a lavorare insieme a lui. Ne aveva perso il conto. Dentro quella torre, il tempo scorreva in modo sfuggente.

«Ti ho spiegato la logica delle armonie» continuò Saiden «non perché tu ti buttassi subito alla ricerca delle risonanze. Non devi pretendere di ottenere qualcosa che tante persone più preparate di te faticano anni a trovare. Ti ho ripetuto troppe volte che una risonanza non è soltanto figlia del canto. Sembra che tu stia dimenticando, invece di imparare.»

«Non è facile!» esclamò Gwern sfiancato dalla frustrazione. «Prima mi avete insegnato a cantare, ora mi dite di fare l’opposto!»

«Usare la voce per pigolare qualche stupida fiammella è una cosa che chiunque può imparare!» tuonò Saiden alzandosi e camminando intorno alla scalinata ellittica. «Se si trattasse soltanto di questo, chiunque potrebbe diventare un cantore, un cercatore di risonanze. E non so esagerando. Proprio chiunque. Io voglio di più! Pretendo di più da te!»

«Ma non so fare nulla di buono!»

«Allora impegnati di più. Ora, ricomincia con gli arpeggi. Ma non devi pensare che la musica ti possa svelare chissà quale segreto. Non immaginare il fuoco, o il freddo. Non devi traslare la tua fantasia nel canto, devi solo cantare.»

Gwern ricominciò. La sua voce era migliorata parecchio, per quanto fosse ancora infantile e acerba. Saiden lo faceva lavorare molto su particolari scale che a lui parevano fastidiosamente stonate. Andavano contro la normale esperienza musicale di Gwern. Non potevano essere abbellite con un testo, non conducevano mai a niente. Resistette al supplizio di ripetere tutto per l’ennesima volta, senza ottenere nulla se non uno stanco fiatone. Saiden non gli aveva tolto gli occhi di dosso, come al solito.

«Vedi Gwern, credimi se ti dico di saper tutto sul canto di Cambria. Tu saresti stato perfetto, come allievo dell’Arcana.»

«Lo dite davvero?!»

«Certamente. Il solito ragazzo che perde dieci anni della sua vita per ammaestrare qualche lucina colorata.»

Gwern si morse la lingua e attese che il maestro finisse di insultarlo. All’inizio, Saiden gli era parso un uomo simpatico. Alla mano. Invece, quando aveva iniziato a studiare con lui, aveva dovuto cambiare opinione. Sapeva essere un vero bastardo, quando voleva.

«Ti stai agitando per niente.»

«Continuate a prendermi in giro, non riesco a concentrarmi.»

«Chiaro che non ci riesci, non sai nemmeno come tenere a bada le tue emozioni.»

«Non è facile, con voi che continuate a ripetere che quello che sto facendo in realtà non serve a niente.»

«A niente?! Allora non hai proprio capito nulla! Pensi davvero che per entrare davvero in risonanza con te stesso, tu debba per forza perdere del gran tempo a canticchiare?! Devi farcela in modo più naturale!»

Saiden non urlava, ma era come se lo stesse facendo. La sua voce era in grado di affilarsi come un coltello, e ammorbidirsi l’istante dopo. «Sintetizza! Astrai! Devi vibrare al suono della perfezione, e farla tua! Non devi aspettare che una maledetta scala o un arpeggio azzeccato sfocino in una tempesta di fuoco! Trova la risonanza con te stesso prima che con il mondo, e devi farlo velocemente! Fino al punto che il canto nemmeno ti servirà più… perché scoprirai da dove esso attinge.»

«Esiste qualcosa di preciso che scatena le risonanze?!»

«Lavora, e forse lo scoprirai» rispose seccamente Saiden, gli occhi fissi in mezzo al suo petto. Cosa stava guardando, pensò turbato Gwern. Cosa stava contemplando, mentre lui si esibiva in quelle ridicole scale senza fine. Voleva chiederglielo, come voleva spiegazioni per tante altre cose che lui aveva solo accennato senza mai approfondire. Ma Gwern si rimangiò tutto quello che stava per dire, aggrappandosi all’ultima forza che gli era rimasta. L’orgoglio di non dargliela vinta. Saiden doveva convincersi che lui avrebbe imparato a cercare quelle stramaledette risonanze. La fatica, la rabbia, il senso di inutilità che provava continuamente erano una pena da sopportare a testa bassa. «Se sapessi almeno cosa sto cercando…»

Saiden, al contrario di tante altre volte, non inveì contro di lui cacciandolo per la sua indolenza. Gli si piantò davanti e gli tamburellò il dito sullo sterno. Come se stesse attirando l’attenzione di un pesce intrappolato in un piccolo acquario. Una mossa inquietante che lo fece rabbrividire.

Accadde qualcosa. Fu istantaneo e silenzioso. Saiden non aveva cantato, non aveva nemmeno mosso le labbra per farlo. Eppure, il suo corpo sembrava essersi trasformato in una sorta di liquido denso. La sua forma, i suoi abiti, erano in continuo e fluttuante mutamento. Un attimo prima era lui. Tempo di un battito di ciglia, e sembrava essere diventato una donna. Poi un vecchio molto simile a lui, come se fosse un suo lontano parente. La sua carne liquida cambiava conformazione a tale velocità, che Gwern non riusciva mai ad afferrare chi stesse emulando.

«Prova a immaginare che il tuo corpo sia in continua risonanza con l’ambiente che ti circonda. E che questa risonanza sia dovuta al fatto che i confini del tuo corpo non si fermano alla tua esperienza, ma che siano molto più… ampi.»

«Non capisco, per gli Dei!» esclamò disperato Gwern.

Saiden sbuffò e alzò una mano. Sembrava davvero a corto di pazienza, e forse aveva ritenuto fosse giunto il momento di dare una spinta al suo unico allievo. Come se anche lui fosse ansioso di scoprire qualcosa.

«Alzala anche tu.»

Gwern piazzò la mano di fronte alla sua. Fece per toccargliela ma Saiden si fece indietro.

«Ora, io e te siamo in contatto o no? Rispondi.»

La risposta ovvia era no. Quella che lui voleva sentire era chiaramente il contrario. Gwern preferì restare nell’ovvio. Non voleva essere infamato ancora, prima che fosse ora di cena. Inutile assecondarlo se poi non aveva argomentazioni a riguardo.

«No, non ci stiamo toccando.»

«Questa è una tua convinzione, viziata dall’esperienza che hai della realtà che ti circonda» rispose Saiden, la mano alta e tesa, gli occhi piantati in mezzo al petto di Gwern. Come se fosse totalmente strabico.

«Le nostre mani sono in contatto. E questo è dovuto a una… forza… che tutti noi abbiamo. Il nostro corpo è un orizzonte molto limitato, Gwern. Esistono tante cose che non possiamo vedere. E tutte derivano dalla stessa energia. Proprio da essa i cantori traggono ispirazione per ottenere le risonanze. Ma il canto è solo un passaggio ridondante. Devi imparare a liberare…» lo sguardo di Saiden sul suo sterno divenne rapace. «Devi sguinzagliare questa forza.»

Il corpo del suo maestro continuava a rimodellarsi incessantemente, e Gwern dovette distogliere lo sguardo per non vomitare. Un breve tremolio alle spalle fu l’avvisaglia che una crisi era vicina. Da quando studiava con Saiden, gli attacchi si erano fatti più rari, ma estremamente più pericolosi. Senza di lui sarebbe già morto dopo i primi giorni di studio.

«Ti faccio un altro esempio. Ci sei?»

«Insomma…» biascicò Gwern trattenendo un conato.

«Bene» rispose Saiden come se non avesse nemmeno ascoltato la sua risposta. «Sei dentro casa tua, apri la porta. Vedi il tuo giardino, o la strada, non importa. Sta piovendo. Cosa pensi?»

«Ma che domanda è?!»

«Non ti preoccupare della domanda. Preoccupati solo della risposta.»

Gwern deglutì a secco e oscillò debole sui piedi. «Penso che sta piovendo.»

«Ottimo. Immagina ora che un gruppo di cantori stia intonando troppo lontano perché tu possa sentirli. Stanno modulando armonie che hanno imparato pedissequamente da altri cantori, e che possono causare la pioggia in una determinata zona. Sfortuna vuole che casa tua sia al centro di questo temporale. Cosa pensi?»

«Che ecco…» balbettò perplesso Gwern «penso che le loro voci siano entrate in risonanza con il cielo e…»

«NO! Maledetti gli Dei, NO!»

Gwern bofonchiò una scusa disarticolata e si coprì la bocca con una mano. Stava per rivoltarsi nel vomito. La forma liquida di Saiden era un pugno continuo alla bocca dello stomaco.

«Penserai lo stesso che stia semplicemente piovendo, no? Non ti chiederai se la pioggia sia o meno il frutto di un canto, altrimenti qualsiasi fenomeno che ti circonda potrebbe essere ricondotto soltanto a una serie infinita di risonanze create da qualcun altro. Invece potresti pensare che sia opera degli Dei. È quello che insegnano di solito, no? Per cui, dato che devi spiegare in qualche modo quella pioggia, e non sai che è solo frutto di un branco di cantori nascosti chissà dove, ti appelli a una volontà divina. Altrimenti, chi potrebbe portare in risonanza il mondo intero plasmando le piogge, i venti e la siccità? Tu credi agli Dei, Gwern?»

Per un momento, Gwern ebbe la netta sensazione che quelle domande fossero soltanto tranelli che Saiden gli stava tendendo per studiare le sue reazioni. In effetti, qualcosa si smosse dentro di lui. E non era solo il vomito.

Era un dubbio strano.

«Gli Dei? Ecco, non so… insomma, loro hanno creato il mondo, per cui possono anche essere la fonte delle risonanze…»

«Dici che hanno creato il mondo?»

«Beh, è opinione comune…»

«E come hanno fatto?»

«Mh, ecco…» bofonchiò perplesso Gwern. Gli morì la voce in gola. Un altro piccolo dubbio improvviso. Gwern però non riuscì a sviscerarlo. Non riuscì neppure a concentrarsi su di esso.

«Allora i cantori non dovrebbero cantare, ma innalzare preghiere. Oppure pensi che il canto sia solo una forma di adorazione rivolta agli Dei?»

«No, non credo che un essere divino apprezzerebbe che una sua creatura abbia il potere di modificare il mondo da lui creato…»

Saiden sorrise e gli batté di nuovo lo sterno con il dito.

«Bene. Quindi, se tu aprendo la porta vedi che sta piovendo, cosa pensi?»

Gwern cercò di darsi un contegno e distolse gli occhi dal corpo liquido di Saiden. «Non posso pensare che sia il frutto di una risonanza, perché non la sto sentendo… posso però credere che sia opera degli Dei. Quando ho un dubbio su qualcosa, gli Dei sono una buona spiegazione.»

«Però, arriva il momento che senti gli uomini cantare…» continuò Saiden avvicinandosi pericolosamente. Il senso di nausea crebbe alle stelle.

«E allora dovrei pensare che gli uomini posseggano poteri divini…»

La sua affermazione cadde in un silenzio pesante, senza riverberi. Come se non ci fosse una stilla d’aria nella stanza.

«Tu credi che gli uomini siano Dei?»

Gwern negò imbarazzato da una tale assurdità.

«Quindi, da dove derivano le risonanze? Dagli uomini, o dagli Dei? Mi sai dire come sono nati gli Dei?»

Gwern aveva esaurito ogni resistenza. Una crisi era alle porte. Si stava indebolendo a vista d’occhio. Saiden lo assillava con domande che continuavano a ritorcersi su se stesse.

«Maestro, non mi sento… bene…»

«Non mi interessa» rispose lui. Finalmente il suo corpo smise di mutare. «Oggi devi imparare una lezione, una lezione importante! Vediamo se un po’ d’aria fresca aiuterà a schiarirti le idee.»

Saiden prese a salire la scala a spirale, seguito a rilento da Gwern.

«Dove andiamo?»

«Fuori.»

«Di sopra?!»

«Sì. È un po’ troppo che non guardi fuori dalla porta, non credi?»

Raggiunsero i ballatoi che conducevano alle stanze protese nel vuoto della torre, e proseguirono fino all’enorme cupola di vetro. Una delle grandi placche incorniciate era incardinata con la struttura di metallo che reggeva il tetto.

«Apri quella botola ed esci, forza!»

Gwern spinse la pesante lastra di cristallo e subito una zaffata di aria gelida lo colpì in faccia accecandolo. Il clima era orrido, una sorta di tempesta di acqua, ghiaccio e neve mischiate insieme. Tutto era bianco, i boschi, i prati, le montagne. Gwern si strinse nella casacca grigia che Saiden gli aveva dato per cambiarsi, e si guardò intorno nella speranza di trovare un boccone d’aria commestibile. Era talmente freddo che sarebbe potuto morire semplicemente respirando.

«Che brutto inverno, è spaventoso! Mai vista una cosa simile a Eld… sembra di essere in una landa del profondo Nord!»

«Guarda bene» disse Saiden senza battere ciglio per il freddo. Indossava una camicia azzurrina. Doveva essere un colore a cui era molto affezionato, glielo vedeva spesso addosso. I suoi capelli neri sciabordavano furiosamente travolti dal vento. Sembravano troppo pesanti. Schioccavano come se fossero fatti di piombo. Gwern invece stava rattrappendo dentro la tunica, alla ricerca di un tepore inesistente. Era un freddo assolutamente innaturale. Come se qualcosa di invisibile gli stesse succhiando via tutto il calore dal corpo.

Senza saperne il motivo, Gwern si chiese se fosse colpa di Saiden.

«Cosa?»

«Laggiù.»

Saiden puntò il dito verso il basso, verso quello che doveva essere il teatro delle rovine su cui sorgeva la torre, ma che era deformato da enormi cumuli di neve. Cumuli che somigliavano a case soffocate, tanto erano alti.

«Ma dove siamo?»

«Un paesino poco fuori Eld. Verso Nord, a un paio di giorni di distanza dal feudo.»

«Ma… prima eravamo…»

«Non siamo veramente qui» rispose Saiden vagamente stizzito. «Falla finita con le domande, e guardati intorno.»

Gwern scrutò le strade invisibili, si immaginò i quartieri e le case, ma la neve rendeva tutto indistinto. Nessun uomo, nessun albero. Un deserto bianco e puro. Era davvero un paesaggio diverso da quello che doveva in realtà essere. Eppure, sotto i suoi piedi svettava la torre. Non aveva alcun senso.

«Non è possibile.»

«Ti sto donando la mia vista, in questo momento» esclamò Saiden vagamente stizzito. «Ora smettila e concentrati.»

«Dove sono tutti?» chiese smarrito Gwern.

«Morti di freddo. I più furbi hanno raggiunto Eld nella speranza di trovare qualcosa da mangiare o da bruciare.»

«Che inverno terrificante…»

«Mh… forse non hai ancora capito.»

Saiden puntò di nuovo il dito verso la landa ghiacciata. «Guarda meglio.»

Gwern si concentrò sul punto che il suo maestro stava indicando, ma non vide niente. Solo aguzzando gli occhi notò una macchia scura vibrare sullo sfondo bianco.

«Ma è un orso?! Con un freddo così non dovrebbe neppure svegliarsi, cosa ci fa un orso fuori dal letargo? E così vicino a Eld?!»

Gwern strinse gli occhi per spezzare la patina di ghiaccio, e trattenne un secondo brivido che gli squassò le budella. «Sembra molto magro, forse non è un orso… magari è un grosso cane randagio…»

«Non è un cane, è proprio un orso. E non si è svegliato per fare uno spuntino. Per lui il letargo doveva essere già finito.»

«Eh?!»

«Sai che giorno è oggi?» chiese Saiden senza rispondergli.

«No, ho perso il conto… non so quanto tempo sia passato. Direi poco dopo il rito d’inverno, quando di solito la guerra si ferma… anche se non pensavo fosse già passato un anno da quando sono qui.»

«Infatti non è un anno che vivi qui. Un po’ di più.»

«Davvero?!» esclamò sbalordito Gwern. «Eppure sembra passato così poco… ma… aspettate, maestro… era autunno inoltrato quando sono arrivato alla vostra torre…»

«Infatti.»

«Quindi… come può essere…»

«Te lo chiedo di nuovo: secondo te, che giorno è oggi?»

Saiden sorrideva come se trovasse quel freddo assassino un gran spasso.

«Non lo so… non lo so proprio…» rispose Gwern.

«La festa dei ciliegi ti dice niente?»

«Ma è a primavera inoltrata!» Gwern faticò a trovare fiato e parole. «È impossibile!»

«Oh, sì che ce l’ha un senso. Allora… sei fuori dalla porta di casa, vedi questa tempesta di neve… non dovrebbe essere ancora inverno, bensì primavera inoltrata. Qualcuno, da qualche parte lontano da qui, sta cantando. E lo sta facendo molto bene. Però tu ancora non lo sai. Non puoi fare altro che appellarti a una maledizione divina, no?»

Gwern si guardò intorno in preda alla confusione più totale.

«Ma allora, se è solo un canto a scatenare un simile inverno, significa che gli uomini possono surclassare il potere di un Dio?!»

«Quindi?»

«Non ci capisco niente…»

«Su, sforzati.»

«Ma non so nemmeno come facciamo a esserci spostati qui!»

«Troppo complicato» tagliò corto Saiden. I suoi occhi brillavano curiosamente, una miscela omogenea di bianco neve e di azzurro pastello.

«E poi come può essere già primavera, con tutta questa neve?! Dev’esserci un errore!» ribadì Gwern.

«Rispondi alla mia domanda.»

Gwern si rattrappì sul cristallo del tetto e prese a tremare incontrollabilmente. Era troppo freddo. Lo scenario era depressivo in modo allucinante. Era tutto morto e congelato. Il mondo intero sotterrato da una immane calotta di neve candida.

Diede un’occhiata a Saiden, nella speranza che lui gli tendesse una mano in soccorso. Ma lui stava contemplando il suo dolore senza il minimo senso di pietà. L’aria gli vorticava intorno tagliata bizzarramente in bave di brina vorticante. Come se il suo corpo fosse circondato da fili di energia invisibile.

Sembrava quasi che il suo maestro fosse scisso dalla realtà, intoccato dalla bufera.

«Se attraverso il canto tu puoi essere più potente di un Dio» sussurrò malignamente Saiden «ora, davanti a questa bufera impossibile che ricopre ogni cosa, tu puoi dire con certezza chi sia l’uomo, e cosa lo separi da un Dio? Basta un semplice canto? Qualche linea vocale perfettamente intrecciata, una melodia sostenuta da un coro mirabilmente in sintonia… può davvero sconvolgere tanto a fondo la realtà? Oppure deve esserci una forza a cui attingere, che travalica qualsiasi forma divina e mortale?»

Un fremito tolse il fiato a Gwern. La crisi tanto attesa finalmente arrivò con la violenza di un pugno in bocca, accompagnata da un pianto nervoso e isterico.

«Come possono esistere gli Dei, anche uno soltanto, amico mio… quando noi possiamo essere molto più potenti di lui?»

Saiden lo raccolse da terra e lo portò di nuovo dentro la torre. Gwern era svenuto a metà del suo discorso.

«Dev’essere un Dio piuttosto banale, non credi?» concluse ridacchiando sommessamente.

Mordraud, Libro Primo
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