XXII
«Il signor Adraman sta partendo.»
«Lo so, Adrina. Cosa vuoi?»
«Non volete scendere a salutarlo?»
«L’ho già salutato abbastanza stanotte.»
Deanna sentì i passi della domestica che si allontanavano, e poté così tornare a dedicarsi all’ago e al filo. Uno dei suoi abiti più belli, un lungo vestito avvolgente di lana porpora bordato di pelliccia, aveva perso tre bottoni. Deanna sentì un brivido attraversarle le gambe, risalire le cosce e diffondersi mollemente nella schiena al pensiero di come fossero saltati via.
“Non posso darlo alla sarta… sarebbe il terzo che le porto nel giro di una settimana.”
Era piuttosto brava a cucire. Sua madre le aveva insegnato diversi punti quando era ancora una bambina, e non li aveva mai dimenticati. Ma era troppo distratta per manovrare con cura l’ago. Si era già punta diverse volte, e doveva succhiarsi il dito spesso per pulirsi dal sangue. Sapeva di ferro liquido.
Lei e Mordraud erano diventati piuttosto abili ad appartarsi senza farsi notare. Di notte nella legnaia, o nello stanzino degli attrezzi accanto alle stalle, quando il freddo condensava il loro fiato in nuvole bianche e dense, e nel buio potevano dar fondo a tutte le loro fantasie. Oppure nel suo salotto di lettura, o addirittura in cucina, quando tutta la casa dormiva e dovevano fare piano, in silenzio. Si erano esposti a rischi incredibili in pieno giorno, nascosti in qualche piccolo cortile abbandonato che Mordraud aveva scovato nelle sue passeggiate solitarie. La brutale violenza dei loro primi incontri si era ammorbidita e sfaccettata. A volte Mordraud era dolce, altre aggressivo. Dominava, ma capitava che volesse farsi dominare da lei, che era in assoluto la cosa che più le piaceva. Erano due amanti alle prime armi, e si studiavano come in un duello. Parlavano poco, ma non ne sentivano il bisogno.
“Prima o poi ci mangeremo come bestie” pensò mentre finiva il secondo bottone. “Perché è quello che siamo… bestie affamate.”
Adraman non sospettava nulla. Essere un marito tradito aveva i suoi inconsapevoli vantaggi. Poteva prendersi sua moglie quando voleva, senza litigi, senza urla. Deanna non lo scacciava più dal letto come aveva fatto tante altre volte. Il suo era molto simile a un lavoro, ma evitava di pensarci troppo spesso. I sensi di colpa erano sempre dietro l’angolo, pronti a saltarle alla gola. Qualche volta, mentre aspettava di sentire il respiro di Adraman appesantirsi nel sonno, si era sentita una puttana. Altre volte una brava moglie, quando lo vedeva sorridere a occhi chiusi, soddisfatto sotto le coperte, al sicuro nella sua casa.
Una goccia di sangue era le era sfuggita dalle labbra e si stava allargando sul tessuto porpora del suo vestito. Deanna osservò rapita il disegno rosso che si evolveva sotto i suoi occhi, una macchia che un tempo avrebbe trovato orrenda, ma che in quel momento invece le sembrava bella, a suo modo affascinante. I gangli di sangue si allargavano conquistando le nervature della lana, e la perfezione del cerchio si stava sgretolando sotto la spinta del caos. Somigliava alla corolla di un fiore fantastico.
“Sembra un fiocco di neve.”
Forse stava sbagliando tutto.
Non si era mai sentita così viva.
***
«DIETRO DI TE!»
«DOVE?!»
Mordraud vide la lancia spuntare dalla nebbia congelata, prendere in pieno la schiena del compagno e trascinarlo sul ghiaccio come un giocattolo spezzato. La terra era marmo ruvido. Non si vedeva niente, non si sentiva niente. Solo il suono degli zoccoli, qualche spada che cozzava sul ferro, e ogni tanto un urlo di dolore. Era mattina, ma era come se il sole si fosse dimenticato di sorgere.
«Mordraud!»
«ADRAMAN?!»
Nemici tutt’intorno. Cadaveri e feriti accatastati sulla neve fradicia di sangue.
«Adraman? DOVE SEI?!»
«Qui…»
Mordraud sentì nelle budella il sibilo di una lancia abbassata verso il petto. La foschia si scostò come un drappo, e apparve un cavaliere. Provò a scansarsi, ma aveva le gambe congelate. Una patina bianca e scintillante lo ricopriva dalla testa ai piedi, e gli impediva di tenere bene aperti gli occhi. Mordraud attese. La lancia era a un soffio dalla sua faccia ma lui ne afferrò la punta. Con uno strattone fece crollare a terra il cavaliere, che sbatté duramente sulla neve compatta. Non voleva saperne di mollare la presa sulla sua cara lancia, così Mordraud gli spaccò i denti con il manico. Pochi movimenti controllati. Era come combattere dentro un lago ghiacciato.
«Mordraud…»
«Adraman!» gridò, ma la voce sembrava cristallizzarsi poco oltre la sua bocca, piovendo a terra ridotta in frattaglie di ghiaccio. «Continua a parlare! Parlami!»
«Il mio cavallo… gli è scoppiato il cuore…»
Mordraud non sapeva come stesse andando la battaglia. Impossibile vedere, impossibile capire. Era il ventesimo giorno consecutivo che Cambria attaccava. Incursioni mirate, con molta fanteria pesante e gente sempre fresca. In tempi normali, l’impero non avrebbe mai potuto nemmeno sognare di prendere il Terrapieno con quei pizzicotti. In tempi normali.
«Adraman, mi senti?!»
«Sì…»
«Dimmi qualcosa!»
«Maledetti Dei bastardi…»
«Così va bene, Adraman.»
Mordraud scivolò con un piede sopra il petto congelato di un cadavere che la neve aveva parzialmente nascosto. Un ragazzo che aveva visto qualche volta, forse era passato anche nella sua compagnia. Aveva la faccia nera e avvizzita come un pezzo di carbone.
«Continua!»
Era Rosso. Si ricordò di lui mentre bevevano insieme. Mentre giocavano a dadi. L’ultima volta che l’aveva visto era stato quattro, cinque giorni prima, al suo fianco mentre avanzavano oltre il Terrapieno.
Non si era neppure accorto che non era tornato a casa quella notte. Da quanto tempo non dormiva, si chiese angosciato.
«Da quanto dura, Mordraud?»
Nebbia densa come latte. La voce di Adraman era sempre più vicina. Una luce bianca e morbida avvolgeva ogni cosa, riflessa dal cielo metallico e dalla terra ricoperta di ghiaccio.
«Dieci mesi, più o meno.»
«Dieci… mesi…»
Tre soldati apparvero come spettri a un passo da lui. Difficile capire se fossero amici o nemici. Il mondo era bianco. I lineamenti, i capelli, gli occhi. Le armature sembravano tutte uguali. Mordraud strinse l’elsa della spada, ma dovette guardarsi la mano per essere sicuro di avercela ancora. Le dita erano diventate insensibili. Il naso era un sasso piantato negli zigomi pesti.
«Cambria?» gracchiò ai tre sconosciuti. In tutta risposta, le loro spade si alzarono minacciose. Sembravano riposati, appena una buffa spolverata di neve fresca sulle spalle e sugli elmi. Mordraud schivò il primo affondo e le sue ossa scricchiolarono di brina. Aveva ormai imparato a combattere immerso nell’acqua ghiacciata.
Pochi.
Movimenti.
Controllati.
La punta della spada fra le due placche sul petto, alla ricerca della carne scoperta. Parare sarebbe equivalso a farsi staccare un braccio. I suoi nervi non potevano reggere alla vibrazione dell’acciaio, all’urto di due lame che si scontravano. Non aveva mai notato quanti varchi potesse offrire un’armatura. Sotto l’ascella, oppure nell’incavo delle gambe. Mordraud li usava tutti meticolosamente. L’ultimo fu il più ostico. Prima di crepare, il fante di Cambria gli assestò un pugno in piena faccia. I denti gli ballarono in bocca, e la pelle della sua guancia si spezzò come carta bagnata.
«Adraman!»
Aveva la bocca piena di sangue, ma almeno era caldo. Caldissimo. Se non avesse fatto un male cane, sarebbe stata persino una sensazione piacevole.
«Quanti sono?! Non riesco… a liberarmi…»
«Ho fatto, non ti preoccupare. La battaglia dev’essere finita. Non se ne vedono più tanti in giro.»
«Non sento più le gambe…»
Mordraud arrancò su un cumulo di neve e scivolò dall’altra parte. Una lastra di ghiaccio costellata di corpi. Molti nemici, molti amici. Gli uomini di Eldain non mollavano, ma le forze erano ormai finite. Si combatteva con i nervi, i tendini, le ossa.
«Eccomi Adraman.»
Dalla nebbia Mordraud vide spuntare il corpo di un cavallo accasciato, quattro o cinque soldati riversi a terra nelle pozze del loro sangue ancora fumante, e Adraman. La maledetta neve non accennava a smettere di cadere. Il suo amico era ormai quasi sepolto sotto la bestia morta e i fiocchi grossi come noci.
«Aiutami, tirami fuori!»
Adraman era messo male. Un graffio profondo sulla fronte, una spalla malridotta, ma respirava ancora. Non aveva il torace schiacciato, e il freddo non l’aveva ancora ucciso.
Mordraud puntò una gamba sotto la schiena del cavallo, si piegò e iniziò a spingere. Adraman cercò di tirarsi fuori ma gli mancavano le forze.
«Dai Adraman, datti una mossa! Questa bestia pesa!»
«Non riesco a muoverle…» il volto di Adraman si contrasse nel panico più assoluto. «Le mie gambe… ATTENTO!»
Mordraud diede un’occhiata alle sue spalle e lo vide. Un’armatura nera e d’oro. Il cavallo bardato con gli stessi colori. Una Lancia Imperiale.
Non poteva mollare la presa sulla carcassa. Avrebbe rischiato di spezzare le gambe di Adraman, sempre che non lo fossero già. La sua spada era a terra, irraggiungibile. La Lancia non lo caricò, ma fece di peggio. Li aggirò, si fermò di fronte a loro e prese a cantare sommessamente. La sua voce giocava con la neve, un fiocco nero in un mare di fiocchi bianchi.
«Vai Mordraud, scappa! Vattene!»
«Non ci penso nemmeno!»
Mordraud affondò i piedi nella neve e si spinse più a fondo che poté sotto il corpo del cavallo. Con la schiena e un braccio riuscì a puntellare la bestia e a tenere libere le gambe di Adraman. La Lancia alzò le mani verso di lui e una luce prese a danzare fra le sue dita, una luce verde che aveva già visto tante altre volte.
«MORDRAUD!» gridò disperatamente Adraman, ma lui rispose solo con un mezzo sorriso. Tre lampi balenarono nella nebbia e si schiantarono uno dopo l’altro sul suo petto. Tre schiaffi di una potenza allucinante. Mordraud sentì il suo corpo spaccarsi in mille pezzi sotto il peso di un dolore insopportabile. Sentì il puzzo dei suoi capelli, della sua carne bruciata. Fili di fumo si alzavano dall’armatura di cuoio carbonizzato.
Ma la sua mano aveva già raggiunto il pugnale che teneva legato alla coscia. L’unica mano libera.
Uno scatto del polso. La mira presa al volo, con gli occhi totalmente annebbiati. Il tiro.
Il pugnale si conficcò nel collo scoperto della Lancia, che crollò a terra senza un gemito.
«Grazie Pietà…» biascicò mentre riprendeva a spingere via la carcassa. Era stato lui a insegnargli a lanciare i coltelli da cucina. Finalmente le gambe di Adraman erano fuori dal cavallo, così Mordraud poté accasciarsi a terra. Aveva tutto il petto bruciacchiato. L’aria non voleva saperne di entrargli nei polmoni. I lampi gli avevano lasciato un fastidioso riverbero verde stampato negli occhi.
«Sei un idiota, un fottuto idiota!»
Adraman si era trascinato con le braccia al suo fianco, e dopo avergli mollato un paio di deboli pugni sulla spalla crollò su di lui senza forze.
«Ti avevo detto di andartene, perché non mi hai dato retta?! Guarda come ti hanno ridotto…»
“Ehi, non sono ancora morto!” tentò di dire Mordraud, ma la sua voce non uscì come avrebbe dovuto. Era più un rantolo, un raschio disarticolato.
“Non mi ha ammazzato, sono ancora vivo!”
«Figliolo, perché l’hai fatto?!»
Adraman stava piangendo. Le lacrime si congelavano fra i peli ispidi della sua barba. Mordraud trovò la cosa stranamente buffa.
«Perché ti sei fatto ammazzare?»
“Ma non sono morto!” avrebbe voluto urlare, ma non poteva farlo. Forse era il freddo, o la stanchezza. Oppure i tre lampi che si era preso in pieno petto. Non lo sapeva. Il suo corpo aveva smesso di prendere ordini da lui. Adraman singhiozzava in modo vergognoso. Se i suoi amici lo avessero visto in quel momento, l’avrebbero sfottuto a sangue.
“Non… sono… morto!”
Un dubbio iniziò a farsi largo.
“È così che si muore? È questo ciò che si vede?”
«Mordraud…»
***
Il vento freddo faceva prudere la cicatrice che gli attraversava frastagliata la guancia. La neve era così densa che impediva di vedere qualsiasi cosa. Un altro attacco senza successo. L’ennesimo.
«Non credevo che i cantori sarebbero riusciti a fare tanto» commentò Asaeld al suo fianco, coperto da un pesante mantello nero bordato di pelliccia bianca e soffice.
«Anche troppo. È un modo vile per vincere.»
«Ma stiamo vincendo, non ti pare?»
Un branco di barellieri stava portando i cadaveri e i feriti via dal campo, anche se fra le due categorie non si riusciva a notare una gran differenza. A decine avevano gli arti congelati, amputati, maciullati. Un clima così perverso era controproducente anche per loro. Non si vedeva niente oltre quella maledetta nebbia gelata e perenne.
«No, non mi pare. Vedo solo i nostri ragazzi morire. Non abbiamo ancora valicato il Terrapieno, e sono passati mesi dall’inizio di Lungo Inverno.»
«Dai tempo al tempo, Dunwich» disse Asaeld con la solita pacatezza. «Vedrai che ne usciremo vincitori, non manca molto. Eldain non ha quasi più uomini.»
«A me non sembra.»
«Sai chi devi ringraziare, vero?» chiese maliziosamente il comandante.
«Non è stata un’idea mia» rispose disgustato Dunwich «sono stati quei dementi dei consiglieri. Il mio piano era tutt’altro.»
«E cosa proponi di fare ora?! Sentiamo!»
«Cambiare punto, maledizione! Che senso ha attaccare qui?! Anche l’Hann è ormai una striscia di ghiaccio! Attraversiamolo, puntiamo a Nord, e siamo dentro!»
«Non siamo noi a decidere» rispose lapidario Asaeld.
«E invece dovremmo.» Dunwich si diede un’occhiata intorno. Molte Lance erano dietro di loro, fastidiosamente concentrate sulle sue parole. Abbassò il tono per non farsi sentire da nessuno. «Se continua così, Loralon farà fallire anche questo piano!»
«Mi ricorderò di farglielo presente la prossima volta che lo incontrerò.»
«Mi stai prendendo in giro?!» ringhiò Dunwich.
«Direi proprio di no. È che non possiamo farci niente.»
«Bah… torniamo nelle tende. Per oggi qui abbiamo finito.» Dunwich strattonò il cavallo e puntò versò l’accampamento. Quella sera avrebbe dovuto presenziare ad almeno due diverse riunioni, e bastò quel pensiero per fargli venire voglia di mollare tutto e tutti per dedicarsi a un paio di bottiglie, da solo. Era un freddo assassino, e nessuna coperta sembrava in grado di tenerlo lontano.
«Dovresti andare dall’erborista del campo» disse improvvisamente Asaeld mentre tornavano indietro insieme. «La cicatrice ti si arrossa con tutta questa neve. Non vorrai certo che ti si rovini il profilo? Dicono che sia molto ambito a Cambria.»
«Con tutto il rispetto… fatti fottere, Asaeld.»
«Vedrò cosa riesco a fare.»
***
«Signore, il nemico si sta ritirando.»
Eldain uscì dalla tenda avviluppato in una coperta di lana rattoppata e usurata. Non gli piacquero per niente le facce che vide aleggiare fra gli scarni fuochi del campo.
“Spettri affamati…” pensò scuotendo la testa. “Morti che camminano.”
«Quanti soldati abbiamo perso?»
«Non lo sappiamo ancora con certezza… dicono un centinaio, forse qualcuno di più» rispose il suo scudiero, un ragazzo che aveva una certa esperienza di guerra. Era stato costretto a mandare molte delle nuove reclute su fronti meno roventi. Non reggevano alla pressione della prima linea. E al gelo. La maggior parte tentava di fuggire da quell’incubo, oppure cadeva nella paranoia e nella depressione più nera. I suicidi erano aumentati in modo impressionante. Nessuno era pronto a quella che sembrava la maledizione di un Dio vendicativo.
Un inverno eterno.
Doveva ormai essere passata la primavera e quasi tutta l’estate, ma la neve continuava a cadere imperturbabile. Il ghiaccio non si scioglieva. Le piante tentavano di nascere e appassivano senza frutti, ma più spesso non germogliavano nemmeno. Gli animali morivano come mosche nelle stalle. Di cuccioli, neanche l’ombra. Era più frequente trovare un soldato morto di freddo nella sua tenda che vivo vicino ai fuochi. Anche la legna era ormai agli sgoccioli.
Ma il vero problema era il morale. Omicidi, pestaggi, risse furiose erano all’ordine del giorno, ovunque. Al feudo come al fronte. Senza la calda luce del sole gli uomini stavano perdendo la testa. E con essa, la guerra.
«Signore, c’è Adraman nella tenda dei feriti…» disse timidamente lo scudiero.
«Cosa?!» gridò Eldain « e come sta?»
«Non male, così almeno dicono…» il ragazzo deglutì nervosamente e incespicò sulle parole. Eldain al fronte era una novità assoluta, e parlare con lui non era affatto facile. Il grande capo, la leggenda vivente, che si aggirava nella nebbia ghiacciata per portare un po’ di coraggio ai suoi uomini.
«Ehm… anche Mordraud è stato ferito e… non sta proprio… bene…»
«Andiamo, SUBITO!»
Eldain afferrò il braccio del soldato e se lo trascinò dietro borbottando imprecazioni a profusione, intervallate da ordini perentori ai suoi uomini, che ciondolavano in catalessi con le mani tese sulle fiamme dei fuochi.
«C’è da fare altra legna! I cavalli hanno bisogno di qualche coperta! Spaccate i carretti inutili e bruciateli!»
I nervi di tutti erano sfibrati, finiti. Ma i suoi ancora reggevano. Eldain era l’ultimo a potersi permettere il lusso di abbandonare ogni speranza.
Arrivarono di gran lena alla tenda dei feriti. Mentre armeggiava con i lacci delle pellicce che erano state accatastate all’ingresso per fermare, senza grandi risultati, il vento ghiacciato, lo scudiero vide il volto di Eldain diventare terreo, gli occhi spalancarsi, e una mano cercare il petto, e stringere forte. Ma fu solo un breve momento. Prima ancora di aver finito con i nodi, il vecchio comandante sembrava tornato alla severa compostezza di sempre. A grandi falcate Eldain attraversò le lunghe file di giacigli, fermandosi di tanto in tanto a salutare i soldati svegli. Non erano tanti. Adraman era sdraiato su uno dei pochi letti imbottiti della sala. Aveva una gamba fasciata e l’altra steccata con un manico di badile. Alla vista dei potenti mezzi dell’alleanza, Eldain bestemmiò ferocemente.
«Vecchio mio, ti hanno conciato proprio male eh?»
«Nah… mi è successo di peggio» rispose il cavaliere sorridendo faticosamente. Era bianco come un morto, con gli occhi lividi e pesti, i capelli scarmigliati e devastato da graffi più o meno profondi, ma sembrava fuori pericolo. «Una gamba rotta, l’altra quasi… il guaritore dice che riuscirò a camminare di nuovo, ne ha l’assoluta certezza.»
«Lo dicono spesso, sai? Per non far preoccupare i feriti importanti come te» disse Eldain con voce ansiosa.
«Vorrà dire che cavalcherò soltanto…» Adraman fece l’occhiolino e si portò le braccia dietro la testa «non ho di certo finito di fare il mio lavoro.»
«Com’è successo?! Perché eri in prima linea?» Eldain si sedette al suo fianco e gli mollò un leggero ceffone in testa. Pensava che i suoi ordini fossero stati chiari. Niente capitani nella mischia.
«Infatti Ghiaccio e Berg non mi hanno seguito, ligi al dovere. Ma io l’ho fatto lo stesso.»
«E perché, per gli Dei?!»
«Il gruppo di Mordraud era rimasto tagliato fuori dal resto della truppa. Non si vedeva niente là fuori, amico mio…» Adraman sogghignò amaramente «almeno, noi non potevamo vedere, ma anche quei figli di puttana hanno avuto i loro problemi…»
«Allora sei andato a salvarlo?!»
Eldain non riuscì a trattenere un’espressione divertita. Adraman scrollò la testa e lo guardò in cagnesco.
«Cosa ti aspetti? Sono i miei ragazzi, se non ci penso io… e poi, in realtà, è stato lui a salvare me.»
«E come?»
«I miei cavalieri hanno spezzato l’accerchiamento, ma il mio cavallo è morto per il freddo. Gli è esploso il cuore, e dire che ne avevamo fatte di battaglie insieme… povera bestia.»
«E Mordraud?!»
«Mi ha trovato in mezzo alla bufera e ha sollevato la carcassa per liberarmi ma…» Adraman si toccò le cosce frustrato «ma non potevo muovermi. Gli ho detto di andare via, ma lui non ha voluto ascoltarmi. Non c’è una volta in cui faccia quello che gli si dice di fare!»
«Perché, cos’è successo?»
«Una Lancia… e tre dardi in pieno petto.»
Eldain fischiò senza volerlo. Di solito, un solo lampo bastava e avanzava per ammazzare un uomo. Due potevano stroncare un cavallo, tre non erano nemmeno contemplati.
«Mordraud è…»
«No, è vivo. Ha una pellaccia quel ragazzo… ma è messo male. Là in fondo» Adraman indicò una delle brande, l’unica coperta da un baldacchino di tela. «Non sanno però se riuscirà a passare la notte.»
Adraman strinse i denti fin quasi a spaccarseli. Eldain lo consolò con una pacca sulla spalla, ma non disse nulla. Tre lampi. Non doveva esserci rimasto molto di integro dentro il suo corpo. I polmoni liquefatti. Lo stomaco bollito. Se il canto era entrato in risonanza con i suoi organi interni, Mordraud non era altro che una giara di confettura.
«E il bello è che ha ammazzato quella dannata Lancia, ha spostato il cavallo e mi ha liberato! Ed era già praticamente morto!»
«Non è colpa tua, Adraman… lui ha fatto quello che sentiva di dover fare…»
«Doveva andarsene, quell’idiota.»
Adraman deglutì rumorosamente, e aveva gli occhi umidi. Eldain si alzò e si allontanò in fretta per non farlo sentire in imbarazzo. Uno dei guaritori dell’accampamento stava proprio armeggiando dentro il baldacchino chiuso. Eldain si avvicinò e scostò il lembo di tela bianco.
Lo richiuse subito dopo. Con la mano destra si cercò disperatamente il petto, e strinse forte.
«Avresti dovuto ascoltare Adraman, ragazzo mio» mormorò alla tenda bianca pietosamente richiusa.
***
Gwern era chiuso nella sua stanza ad esercitarsi. Una candela solitaria brillava sullo scrittoio di pietra. Saiden era fuori a caccia di qualcosa da mangiare. La torre era immersa nel riverbero del suo canto. Smise e si versò un bicchiere d’acqua. Sorseggiandolo pensieroso, Gwern aprì la porta e aspettò che gli occhi si abituassero al buio. La vetrata del tetto era sommersa da spanne di neve fresca. Avevano smesso di pulirla da un po’. Non serviva a nulla, continuava incessantemente a riempirsi.
“Da quanto tempo sono qui?”
Se lo chiese, ma non si stupì di non conoscere la risposta. Ormai si era abituato a quella stranezza, una delle tante con cui aveva a che fare da quando viveva con Saiden. Il tempo scorreva in modo imprevisto, standogli vicino. Come se la sua presenza attraesse al punto la sua attenzione, da fargli perdere completamente il filo della sua vita. Probabilmente passava giorni interi a cantare senza nemmeno rendersene conto.
“Chissà come sta Larois.”
Fuori era il delirio. L’inverno non finiva mai. Impensabile uscire da soli e tentare il viaggio verso Eld. Saiden non lo avrebbe mai accompagnato. Doveva restare lì, e aspettare che il freddo passasse.
Un’attesa che sembrava sempre più vana.
Gwern tornò nella sua stanza e si sedette allo scrittoio. Prese la penna e il calamaio e disegnò tre linee perfette su una pergamena. Mettere per iscritto gli esercizi che faceva lo aiutava a pensare. Era ancora fermo a una discussione che aveva avuto con Saiden, riguardo agli Dei. Mentre segnava le note sulla pergamena, Gwern continuò a interrogarsi su di essi.
Era stato Saiden a dargli l’imbeccata. Se gli uomini attraverso il canto assurgevano a divinità, cosa restava agli Dei di speciale, di particolare? Cosa rappresentavano?
“Sono molto ignorante. Papà e mamma non sono mai stati credenti di nulla.”
Era un fatto davvero incomprensibile. Per spiegare ogni mistero, chiunque era pronto a additare gli Dei come i soli responsabili. Ma in pochi credevano davvero in loro. La fede sembrava più una scelta di comodo. La gente si permetteva di bestemmiare perché, in fondo, nessuno temeva forze divine che spesso non avevano nemmeno un nome. Forse qualche sporadico disperato si appassionava a quella possibilità e rivolgeva il proprio cuore al cielo, ma lui non ne aveva mai conosciuto uno.
Gwern si chiese cosa sapesse dell’inizio del mondo. Nulla, si rispose. Com’era giusto che fosse. Gli Dei avevano creato tutto, non era necessario spingersi più oltre nel tentativo di comprendere quale fosse stata la causa scatenante della vita. Eppure, lui non sapeva nulla di Dei. Non conosceva quanti ne esistessero, che caratteristiche avessero e come fossero schierati. Esisteva il concetto di bene e male fra le divinità, era un’opinione risaputa. Ma come si applicasse alle logiche divine, Gwern non ne aveva la minima idea.
“Sembra quasi che l’unico motivo dell’esistenza degli Dei, sia quello di essere Dei per noi. Per darci la possibilità di concepirli come tali.”
Gwern si strinse la tempia e smise di disegnare note e scale. Spesso le persone bestemmiavano, pochi ci facevano davvero caso. Quando ancora viveva a Eld, non ricordava di aver mai conosciuto qualcuno che temesse l’ira divina, che si aspettasse qualche loro concreta manifestazione nel dipanarsi della storia mortale. Però, a ogni quesito irrisolvibile come quel mostruoso inverno eterno, ecco che gli Dei riprendevano le vesti dell’onnipotenza. Chi fossero, cosa volessero. Come fossero fatti. Domande che non avevano alcuna importanza.
Semplicemente, nessuno se le poneva mai. Gli Dei erano dati per scontati. Come concetto in sé, e non come esempi o modelli da seguire.
Lui non aveva alcuna cultura alle spalle. Non aveva mai studiato altro che le poche cose che Eglade e Mordraud avevano avuto il tempo di insegnargli. Ma se gli avessero chiesto improvvisamente chi avesse creato tutto, il tempo, gli uomini e il mondo, Gwern avrebbe risposto d’istinto gli Dei. Era una scorciatoia mentale. Una soluzione veloce per le persone svogliate. Ma lui era diverso, si disse. Non era obbligato a seguire la via più breve, per trovare le risposte che cercava. Gli Dei certo esistevano, pensò imbarazzato dalla piega che stavano prendendo i suoi ragionamenti. Ma non potevano essere loro la spiegazione a tutto.
“Gli Aelian cosa pensano? Hanno idee differenti da noi?” si chiese incuriosito da quell’aspetto. Non ci aveva mai pensato.
“Ma chi sono veramente gli Dei?”
Gwern restò un momento immobile a soppesare quella domanda, poi riprese a scrivere note sulla pergamena. Inutile girare troppo intorno a quei pensieri, si disse. Tanto non avrebbe mai ottenuto alcuna risposta utile.
Era più interessante chiedersi chi fosse Saiden.
Grazie a lui, stava sviluppando un’abilità notevole nel canto, ma di risonanze ancora neanche l’ombra. Non aveva ottenuto nulla di quello che si era immaginato prima di partire. Si era aspettato di studiare tante cose che ancora non avevano approcciato. La storia, ad esempio. Passava il tempo ad allenarsi sulle melodie che Saiden preparava per lui. Gwern non riusciva a dedicarsi ad altro, era troppo assorbito dal canto.
Qualche volta aveva l’impressione che il suo maestro fosse più interessato a osservare le sue reazioni quando cantava, piuttosto che a insegnargli davvero come cercare risonanze. Lo fissava di continuo in mezzo al petto, come se si aspettasse che il suo sterno si schiudesse da un momento all’altro per mostrargli cosa nascondesse di tanto prezioso. Insisteva con l’idea che lui dovesse cercare solo di entrare in risonanza con se stesso, non con l’ambiente che lo circondava. Ma quell’approccio non produceva assolutamente nulla di arcano. Sembrava non servire proprio a niente.
Chi era Saiden, si chiese di nuovo. Un’altra domanda senza risposta, come tutte quelle sugli Dei e sul loro operato insondabile.
Un accostamento di dubbi che lo fece rabbrividire.
***
«Come procede l’assedio al Terrapieno?»
«Ottimamente, signori miei.»
Asaeld poggiò il fodero della sua spada al pilone che reggeva la struttura dell’enorme tenda da campo. Era il centro nevralgico di tutto l’accampamento, il luogo da cui tutti i capitani, i corrieri, gli strateghi passavano diverse volte al giorno. Sul lungo tavolo di legno lucido e scuro erano stese decine di mappe, righe di legno, miniature di cavalli e soldati, bicchieri ancora sporchi dall’ultima riunione. Una gigantesca stufa di ghisa pompava fiamme e aria rovente in una lotta impari contro il gelo.
“I soliti burocrati…”
Non aveva mai un momento per stare in pace, per chiudersi nei suoi pensieri e ragionare. E ne avrebbe avuto un gran bisogno. I nodi si stavano stringendo inesorabilmente, e lui non poteva permettersi di restarne intrappolato.
«L’Imperatore chiede con insistenza i risultati che gli sono stati promessi.»
Asaeld annuì distrattamente mentre preparava una tazza di vino caldo arricchito da una manciata di spezie piccanti. I consiglieri di Loralon sembravano tutti uguali. Alti e magri, con capelli scuri tagliati corti. Eleganti livree grigie della stessa tonalità di una pelliccia di topo. Ma non quella dei topolini di campagna. Il ratto di fogna aveva proprio il pelo giusto.
«Stiamo continuando con le incursioni, e i nostri esploratori hanno già notato i primi segni di cedimento. Eld è stretta sotto la morsa della carestia. L’alleanza cigola ogni giorno di più. Gli altri nobili, sfiorati soltanto da Lungo Inverno, si rifiutano di aiutare Eldain e rimpinguano le loro riserve. Non lo sapevate? La paura è più utile della neve.»
«L’Imperatore vuole che il Terrapieno sia caduto prima della fine dell’anno» continuò imperterrito uno dei tre. O dei quattro. Asaeld non li aveva ancora degnati di uno sguardo, ma sapeva che i burocrati imperiali non si muovevano mai da soli. E avevano tutti la stessa voce.
«Stolido bue, hai sentito cosa ho appena detto?! STANNO MORENDO DI FAME!» avrebbe voluto urlare. Ma non poteva. Loralon non avrebbe colto il messaggio. Per lui contavano solo i morti lasciati sul campo di battaglia, e i palmi di terra conquistati. «Mancano ancora due mesi alla tregua. Vedremo cosa possiamo fare.»
«Loralon non vuole che quest’anno venga rispettata la tregua.»
Asaeld buttò giù la prima sorsata e la trovò saporita al punto giusto. Né troppo forte, né troppo calda. Assaporò quel breve momento di piacere, si gustò il senso di tepore che gli scioglieva i muscoli intirizziti. Per i ribelli era dura, certo. Ma gli uomini di Cambria non se la passavano molto meglio. Combattere in quel delirio di ghiaccio era difficile, molto più pericoloso che in qualunque altra condizione. Gli stessi soldati non potevano affrontare molti giorni di fila al fronte, così lui era costretto a programmare difficili rotazioni dei reparti, che però non sapevano nulla di come si erano evoluti gli scontri. Morale: caos in terra, caos nelle teste.
«La tregua è essenziale. Non per i ribelli, ma per noi. Non possiamo restare tanto a lungo al fronte, non abbiamo le risorse. Dite all’Imperatore che saremo di ritorno per i riti di fine autunno, come al solito.»
Ai primi freddi, pensò sarcastico.
«L’Imperatore insiste…»
«L’Imperatore riceverà le mie motivazioni a breve. Partirò oggi stesso per parlare con lui» tagliò corto Asaeld. La sua pazienza stava finendo molto rapidamente. Quasi quanto l’agognato bicchiere di vino.
«Gli strateghi di corte chiedono anche una vostra relazione sugli ultimi avvenimenti. Devono aggiornare i piani d’attacco.»
«Mh… un lavoro che ora non posso proprio fare. Usciamo un momento? Chiedo a un mio sottoposto se può prendersi lui quest’incarico.»
Asaeld scolò il vino e varcò la tenda. Fuori, il clima era orrendo. Nevicava a violente secchiate, il cielo era nero come la pece. Niente sole. Intorno a un vasto fuoco si stavano scaldando le mani le Lance Imperiali, in attesa di ordini. Dunwich era con loro, impegnato in un’accesa discussione con un paio di compagni. Quando Asaeld riuscì a sentire qualche parola dispersa nel ruggito della bufera, sorrise e si fermò. Non era una discussione. Era più un’arringa avvincente.
«Dico che non dovremmo vomitare gente sul terrapieno e basta! Lungo Inverno è solo controproducente! Siamo finiti dalla padella alla brace. Noi più di tutti conosciamo il pericolo di perdere il controllo di un canto, no?! Abbiamo tutti studiato per diventare Lance. Io dico di smettere questa pagliacciata e attaccare! Ma non come vogliono i nostri strateghi, no… un colpo mirato. Solo i nostri migliori, tutti verso Eld. Prendiamo il feudo, vinciamo la guerra!»
Le Lance annuivano senza rispondere, mentre quelle più lontane parlottavano a testa china. Dunwich stava iniziando a riscuotere una grande popolarità.
«Ragazzo, ho bisogno di te» lo chiamò Asaeld. Dunwich si scusò con i compagni e si avvicinò al gruppetto di burocrati che tremavano di freddo dentro i loro mantelli foderati di pelliccia.
«Dimmi Asaeld, cosa ti serve?»
«I nostri illustri strateghi di corte» esclamò a voce alta, tanto da attrarre l’attenzione di tutti i presenti, Lance e soldati semplici, cavalieri e manovali compresi «chiedono una relazione ben scritta sugli ultimi scontri. Vogliono sapere com’è andata, cosa abbiamo conquistato, quanti morti, e così via. Puoi occupartene tu?»
«Una… relazione?!» rispose Dunwich indignato. «Devo mettermi a contare tutti i nostri ragazzi morti, cosa hanno fatto, e quanti passi di terra ghiacciata abbiamo conquistato?»
«Esatto. Proprio così.»
«È una vergogna!» sbottò Dunwich, e il brusio alle sue spalle crebbe a tono con le sue parole. «Lo faccio perché sei tu a chiedermelo, ma altrimenti… per gli Dei, venite qua a chiedere numeri e cifre, quando anche oggi abbiamo perso più di cento soldati, e ben otto Lance! Altre otto, Asaeld. Lo sapevi? Me l’hanno detto poco fa!»
«Dunwich, capisco che la cosa ti abbia infastidito, ma abbiamo dei compiti precisi da svolgere…» disse Asaeld tentando di tranquillizzarlo con una tiepida pacca sulla spalla. Proprio il gesto che sapeva sarebbe servito a farlo infuriare ancora di più.
«Infastidito?! Ragazzi!» urlò Dunwich ai suoi compagni radunati intorno al fuoco «siamo infastiditi, per caso? O siamo INFEROCITI?!»
Un boato fu la risposta. I burocrati si erano fatti piccoli, a malapena visibili in mezzo alla neve battente. Asaeld non disse nulla, né rimproverò nessuno. Fu Dunwich stesso a stemperare gli animi richiamando tutti alla calma.
«Lo farò, ma aggiungerò anche qualche riga di critica per le scelte dei nostri amati strateghi. Va bene, Asaeld?»
«Come vuoi, Dunwich.»
«Avrete tutto entro sera» concluse lui ritornando vicino al fuoco. Lo accolsero con strette di mano e complimenti a profusione. Dunwich annuiva e parlava con tutti, cavalcando la protesta. Asaeld riaccompagnò in tenda i messaggeri impauriti e li fece accomodare. «Come avete sentito, avrete tutto quello che volete entro sera… ma la prossima volta vi consiglio di non parlare così apertamente di fronte ai miei uomini. Sapete, combattono tutto il giorno… sono sensibili.»
«Ma noi… avete detto tutto voi…» tentò di rispondere uno di loro. Ad Asaeld non interessava affatto chi fosse di preciso. I burocrati erano tutti uguali ai suoi occhi.
«Non vi preoccupate, questa volta è andata così… l’importante è che Loralon riceva tutto ciò che ha richiesto» concluse sorridendo. «Volete un bicchiere di vino? Ne ho di ottimo da fare caldo con le spezie… vi aiuterà a scaldarvi.»
«Dev’essere così dura, per voi… che non siete abituati al nostro Lungo Inverno…» concluse Asaeld con un sorriso piacione.
***
«Avete sentito capitano? Ne hanno appesi altri due.»
«Come?» chiese distrattamente Dunwich. Era sera, la sua compagnia stava cenando nella tenda comune. Il cibo era scadente, il vino annacquato e tutto sapeva di neve insipida. La stufa era troppo lontana e non arrivava a scaldare ogni angolo del salone. Per tutto il pomeriggio aveva bevuto e discusso con i compagni, infervorato dalla notizia che tutti ormai si aspettavano da un momento all’altro. L’Imperatore pretendeva un attacco massiccio, senza se e senza ma. Le Lance erano costernate, sia per quella richiesta, ma soprattutto per gli ennesimi caduti di quel tremendo Lungo Inverno. Tre ragazzi morti di febbri atroci, quattro avevano perso un braccio o una gamba per il gelo, e ben otto caduti nell’ultima sortita. Una situazione intollerabile.
Fra le fila dei soldati regolari andava molto peggio. Gli ammalati, i feriti ormai spacciati, le defezioni non si contavano più. Ogni mattina era necessario setacciare i reparti e controllare quanti soldati avevano abbandonato il campo dandosi alla macchia. Quelli che venivano ripresi non subivano alcun trattamento di favore.
Impiccati.
Senza processo, senza giudizio. Un monito per quelli che restavano e fantasticavano di rivedere i prati verdi e i campi rigogliosi.
«Hanno trovato due disertori nascosti in un carro che stava tornando a Cambria. Li hanno appesi alla forca seduta stante, nudi. Ormai sono due statue di ghiaccio.»
«Chi ha dato l’ordine di far fuori così la nostra gente?!» sbottò inferocita una Lancia poco lontana. «Asaeld!» rispose un altro.
«Ti sbagli» lo corresse Dunwich «è stato Loralon a imporlo ad Asaeld, non è una sua idea. Me l’ha confidato l’altra sera, il nostro comandante ha le mani legate.»
«Loralon di qua… Loralon di là… è sempre colpa sua!» esclamò qualcun altro seduto al tavolo. Dunwich non conosceva quasi nessuna delle nuove Lance, tutti ragazzi appena usciti dall’accademia. La vecchia guardia era stata piazzata a Cambria, sotto veemente richiesta di Loralon. E per l’ennesima volta, Asaeld aveva dovuto sottostare ai suoi capricci. In quel modo, il fronte era coperto soltanto da novellini.
«Dicono che non ci sarà la tregua, quest’anno.»
“Le voci corrono” pensò Dunwich. Aveva finito di stilare la relazione per i messaggeri solo un paio d’ore prima, e chissà come, già tutti conoscevano in dettaglio le informazioni che Asaeld gli aveva riferito. Il malumore si tagliava con l’accetta. Quella che per gli strateghi di corte era una tattica di indebolimento del fronte, per chi doveva attuarla era più un andate al macello. Punzecchiare una bestia ferita era un passatempo pericoloso. Con il freddo, i ribelli si erano incattiviti, erano diventati più duri e spietati del solito. Quando gli scontri terminavano, era ormai tristemente abituale cogliere le grida disperate di chi era rimasto ferito e veniva soppresso dagli uomini di Eldain. Urla che spuntavano dalla nebbia ghiacciata come moniti dell’idiozia imperiale.
«Impossibile. Asaeld riuscirà a convincere il Consiglio, vedrete. Ci serve una pausa, non abbiamo abbastanza uomini per dare il cambio alle prime linee!» rispose Dunwich con sicurezza tracimante.
Tre giorni prima era uscito con gli altri in un’incursione. Di solito seguiva soltanto le truppe e comandava gli spostamenti, ma in quell’occasione mancava una guida per il reparto di cavalleria, così si era fatto avanti. Era stanco di mandare uomini a morire. Voleva dare un segno forte ai soldati, dimostrare che anche gli ufficiali erano dalla loro parte, che si sporcavano le mani come tutti. Avrebbe fatto meglio a starsene nella sua tenda.
Non aveva mai visto una carneficina simile.
Era sopravvissuto a battaglie campali, mattatoi indicibili, addirittura alla notte dei Fuochi che era costata la vita a migliaia di suoi compagni. Ma dentro quella nebbia irrespirabile, quel gelo vaporoso che si insinuava nei polmoni e li spaccava, penetrava nella pelle, macerava i muscoli e i nervi, si era sentito veramente in pericolo per la prima volta.
Il nemico non si vedeva. Appariva. Come spettri da una nuvola. La terra era così dura che era quasi impossibile non scivolare. Pezzi di armatura, spade, corpi rigidi ovunque. I cavalli impazzivano, quasi quanto gli uomini. Aveva visto due Lance vomitare un canto corale contro un gruppo di fanti, per poi scoprire solo alla fine che erano uomini di Cambria. La neve rendeva tutti uguali. Alleati e nemici insieme.
«Tutta la regione è allo sbando. Dicono che alcuni alleati storici di Eldain abbiano mollato. I civili non hanno più cibo, e per bere possono solo sciogliere il ghiaccio. La legna inizia a scarseggiare perché è tutta marcia» disse sghignazzando una delle Lance senza nome.
«Cosa ci trovi di tanto divertente?»
«Beh, capitano…» rispose il ragazzo tentennando «sono i nostri nemici, ogni loro cedimento è un nostro vantaggio…»
«Non è questo il modo con cui una città come Cambria deve vincere una guerra!» ringhiò Dunwich. «Annientare il popolo serve solo a farlo diventare più dedito alla causa. È una vergogna vincere così.»
«E non abbiamo ancora vinto…» mormorò un altro compagno.
La discussione venne interrotta da uno dei servitori delle cucine. Giovanissimo, con le guance arrossate dai brufoli e le braccia troppo magre. Sicuramente uno scartato dalle selezioni, pensò Dunwich. Portava a fatica un grande vassoio colmo di boccali di peltro.
«Questi sono per voi, signori» disse lui timidamente. «L’ultimo barile di birra dell’Ovest. La migliore.»
«Non mi sembra corretto» tentò di dire Dunwich «ce n’è anche per gli ufficiali regolari?»
«No, era un barile piccolo. I cuochi mi hanno detto di portarla solo a voi Lance.»
«Almeno abbiamo qualcosa di decente per pulirci la bocca da questo schifo!» esultò uno dei soldati. Non si fecero di certo pregare. In un attimo il vassoio fu svuotato, e rimase soltanto il boccale più grosso, chiuso da un coperchio d’argento.
«Capitano, quello dev’essere il vostro!»
Dunwich lo prese controvoglia e rispose al brindisi chiamato dagli altri.
«All’impero! Alle Lance!»
Decisamente ottima, constatò Dunwich con piacere. La migliore che avesse bevuto negli ultimi mesi. Invece di scolarla, come tutti, la sorseggiò lentamente, ripensando alle primavere di Cambria, ai viali alberati, ai colossali cancelli d’oro della cerchia interna. Al sole caldo sulla pelle. Poteva quasi sentire il tepore dei suoi raggi, il senso di placido torpore dell’aria profumata.
Finché non si accorse che la sua pelle scottava veramente. Non era una sua fantasia.
«Ma cosa…» provò a dire, ma aveva la bocca secca e amara. Come se avesse bevuto ruggine fusa. Il servitore lo stava fissando con aria sbigottita. Dunwich si guardò intorno. Le Lance si stavano dimenando sul tavolo, boccheggiavano, si contorcevano stringendosi la pancia. Non riusciva a sentire alcun suono.
«Maledetto!» balbettò mentre il mondo vorticava intorno a lui.
Veleno.
Il corpo lo stava abbandonando. La sua schiena si inarcò fin quasi a spezzarsi, le braccia erano sempre più rigide e insensibili, anche le gambe erano fuori controllo. Le dita si contrassero accavallandosi fra loro, e Dunwich sentì nitido lo schiocco delle ossa che si spezzavano. Si stava accartocciando.
Dunwich provò a cantare, ma non aveva più la voce. La sua bocca non voleva aprirsi. I denti gli facevano un gran male. Sull’orlo della disperazione, si ricordò di un canto che aveva letto nei primi anni di studi, una risonanza usata anche dai guaritori per spurgare ferite infette. Trovare la voce giusta era praticamente impossibile. Lo intonò solo nella sua mente.
Dunwich sentì la gola dilatarsi e si buttò a terra. Un fiotto di vomito lo squassò dalla testa ai piedi, un rigurgito anomalo, rosso e brillante come le fiamme di un incendio. Tutto il veleno che aveva in corpo sgorgò fuori, ma non senza dolore. Dunwich non aveva mai provato nulla di simile. Era come se tutto il sangue che aveva in corpo avesse deciso nello stesso momento di sprizzargli fuori dalle vene. La sua pelle trasudava sangue luminoso. E così gli occhi, la bocca e il naso. Finché anche la più piccola stilla di veleno non fu purgata dal suo corpo in risonanza.
Il mondo smise di piroettare. I suoni ritornarono come un’onda di marea, e lo travolsero. Stavano urlando tutti. Qualcuno piangeva, altri inveivano, molti stavano scappando. Regnava il panico più totale. Le ombre proiettate dalle fiamme della stufa contro il telone danzavano in modo grottesco.
Sul tavolo, a terra, riverse sulle panche, dieci Lance erano morte stecchite. Il loro collo tirato indietro in pose innaturali, le schiene spezzettate in più punti come bastoncini di legna secca, le bocche spalancate e zuppe di sangue. Una fine orrenda.
Il servitore era in piedi con ancora il vassoio vuoto in mano. Stava fissando i corpi tremando come una foglia.
«Fermi…» provò a dire Dunwich, ma non aveva abbastanza voce per sovrastare il boato della folla «non è stato lui… dobbiamo scoprire chi…»
Troppo tardi.
Un branco di belve terrorizzate si avventò sul ragazzo, lacerandolo, sbranandolo.
«Traditore! TRADITORE!»
Dunwich arrancò fino a raggiungere il bordo del tavolo. Non si reggeva in piedi. Due dita della mano destra si erano attorcigliate e spezzate in modo stupido, come se fossero state usate per comporre un nodo fatto ad arte. Tentò ancora di urlare, ma era tutto inutile.
Dunwich vide la testa del giovane schiantarsi a un soffio dalla sua faccia. Lesse nei suoi occhi tutta la sua innocenza. Il suo terrore.
Finché un coltello da cucina non gli staccò il collo di netto.
***
«Inammissibile! Voglio i colpevoli, SUBITO!»
Asaeld tirò un pugno contro il palo di legno della tenda, rischiando di far crollare tutto. Dunwich era accasciato su una barella. Si era addormentato dopo essere stato visitato da un guaritore.
«Per un pelo. Se non avesse fermato il veleno con quel canto, sarebbe morto come tutti gli altri» aveva commentato il vecchio erborista. «Non ho molto da dargli, se non qualcosa per farlo riposare profondamente. E mi permetto di consigliare… tenete qualcuno a guardia della tenda. Non si sa mai.»
Asaeld aveva radunato seduta stante tutti i responsabili di reparto dell’esercito. Nessuno sapeva cosa dire o cosa fare. Dopo l’ultima, colossale serie di impiccagioni a Cambria, i fantomatici traditori dell’impero non si erano più fatti vivi. Fino a quel giorno.
«Dieci Lance morte sotto gli occhi di tutti! E uno dei miei migliori uomini per poco non faceva la stessa fine! ORA DITEMI COSA DOVREI FARE!»
Parlare con Asaeld era difficile. Seguire i suoi ragionamenti a volte era impossibile, e le conclusioni spesso inaspettate. Anche se in quella tenda erano radunate le figure più influenti di tutto l’esercito imperiale, nessuno azzardò la benché minima idea. I cuochi erano stati tutti passati a fil di spada, compresi i servitori che erano di turno quella sera. Erano state messe sotto sopra le cucine, i sospetti torchiati fino ad ammazzarli, torturati, picchiati, incarcerati e poi torturati di nuovo, ma nessuno aveva visto niente. Sentito niente. Fatto niente. Si stava insinuando il dubbio fra gli uomini che se esistevano davvero dei traditori, dovevano per forza essere dei refoli di vento.
«Cercate ancora! Ci sarà pure un colpevole! Siete stati abbastanza duri con i cuochi? Avete tentato di farli parlare?!»
«Certo, ma loro non sapevano nulla… e quello che gli abbiamo fatto avrebbe fatto cantare un muto!» disse preoccupato il responsabile degli approvvigionamenti. Cioè il più esposto di tutti. Sudava freddo, sembrava appena uscito da un bagno. Asaeld aveva la faccia paonazza, sputacchiava a ogni urlo, agitava le braccia come un ossesso. Uno spettacolo sconvolgente, rispetto al solito distacco composto del grande comandante.
«Tornate nelle cucine, chiamate tutti gli esperti del continente per far studiare quel veleno, resuscitate il servo che ha servito da bere e interrogatelo! POI AMMAZZATELO DI NUOVO!»
«Ma non si può resuscitare un morto…»
«Sono circondato da un branco di idioti! DECEREBRATI! Fate qualcosa, e non provate a tornare da me senza un colpevole altrimenti… prendo il primo di voi che mi capita a tiro!»
La tenda si svuotò in un istante. Asaeld ansimò ancora a lungo, con gli occhi fissi sulla tenda che oscillava al vento freddo che penetrava dall’apertura. Il rossore sulle sue guance si spense, i fremiti calarono, e finalmente ritrovò la calma dopo un grande sforzo di nervi. Il primo nodo si era stretto prima del previsto. Ecco perché desiderava tanto un po’ di pace. Per poter ragionare, e prevenire, fatti come quelli.
«Questa volta, ragazzo mio, mi hai fatto prendere un colpo.»
Asaeld si sedette a fianco di Dunwich sulla branda e lo fissò intensamente. Non aveva la solita voglia di sorridere, non quella sera.
«Stavi per mandare a monte tutto. E ora devo trovare un modo per sistemare questo casino.»
Lance morte mentre cenavano tranquillamente. Sobillatori, traditori nascosti fra gli uomini che più avrebbero dovuto rappresentare la magnificenza dell’impero. Il suo esercito. Il braccio armato dell’Imperatore. E nessun colpevole.
Un evento che sfiorava la punizione divina. Ma uno, e solo uno, era sopravvissuto. Proprio Dunwich. Un segno. Una premonizione di grandezza.
Alla fine, Asaeld ebbe l’idea giusta. Poteva sfruttare la cosa. Tutto filava liscio quando poteva permettersi il lusso di pensare in silenzio.
E il sorriso ritornò, come sempre.