31
Nel plesso solare
Era un giorno di sole, una mite giornata di giugno. L'aria era così leggera da sembrare pura e rinfrescante, perfino lì, nel Bronx. Una giornata perfetta, in breve. Sherman se la prese a male. La considerò come un'offesa personale. Una inutile crudeltà! Come poteva la natura, il fato… Dio… confezionare un prodotto tanto sublime nell'ora della sua abiezione? Ovunque cattiveria! Uno spasmo di paura lo percorse fino all'ultimo tratto del colon discendente.
Era sul sedile posteriore di una Buick con Killian. Ed Quigley era davanti, vicino a un autista di pelle scura, capelli neri lisci e lineamenti fini, delicati, quasi effeminati. Un asiatico? Discesero la rampa d'uscita dell'autostrada subito dopo lo Yankee Stadium. Un grande cartellone diceva: STASERA ALLE 19 YANKEES CONTRO KANSAS CITY. Un'altra crudeltà! Decine di migliaia di persone sarebbero arrivate fin qui in ogni caso a bere birra, a seguire una pallina bianca vagare per ore e ore… e lui invece sarebbe finito di nuovo là dentro in un'oscurità che non riusciva a immaginare. E sarebbe cominciata! Poveri sciocchi! Non sapevano qual era la realtà vera! A decine di migliaia nello Yankee Stadium, a guardare un gioco, la mera sciarada, una finzione della guerra, mentre lui era in guerra. Presto, per lui, sarebbe cominciata… la violenza fisica elementare…
Ora la Buick stava risalendo la collina, lungo la Centosessantunesima Strada. Sarebbero arrivati in un attimo.
«Non andiamo allo stesso tribunale» disse Killian. «Andiamo lassù in quel palazzo proprio in cima alla collina, sulla destra.»
Sherman vide un'immensa struttura in calcare. Pareva davvero maestosa, adagiata com'era sulla vetta del Grand Concourse nel sole di un giorno perfetto: maestosa e stupendamente imponente.
Sherman vide gli occhi dell'autista che lo cercavano nello specchietto retrovisore, poi arrivarono a un contatto imbarazzante e schizzarono via. Quigley, di fianco al conducente, portava giacca e cravatta, ma quasi per caso. La giacca, un curioso tweed verde anatra, gli arrivava a coprire la pelle butterata del collo. Sembrava uno di quei duri irrequieti che hanno una gran voglia di menare le mani e di levarsi giacca e cravatta per cominciare a prendere a cazzotti e provocare ematomi o, ancora meglio, per far paura a qualche fifone impreparato ad accettare una sfida pericolosa.
Mentre l'automobile saliva per la collina, Sherman vide una piccola folla per strada vicino alla sommità, davanti al palazzo di pietra.
«Che cosa succede?» disse.
«Pare una manifestazione» disse Quigley.
E Killian: «Be', almeno non sono davanti al tuo palazzo questa volta».
«Una ma-ni-fe-sta-zione? Hahahaha» disse l'autista. Aveva una parlata cantilenante e una risata educata, ma nervosissima. «Per che cosa? Hahahaha.»
«Per noi» disse Quigley con voce cupa.
L'autista guardò Quigley. «Per voooi? Hahahaha.»
«Non conosci il signore che ha noleggiato la macchina? Il signor McCoy?» Quigley fece un cenno con la testa verso il sedile posteriore.
Nello specchietto gli occhi dell'autista si mossero alla ricerca dei suoi ed entrarono di nuovo in contatto. «Hahahaha!» Poi tacque.
«Non preoccuparti» disse Quigley. «Si sta sempre più al sicuro in mezzo a una rivolta che ai margini. È un fatto ben noto.»
L'autista guardò di nuovo Quigley ed emise un altro: «Hahahaha!». Poi si fece molto tranquillo, senza dubbio nel tentativo di decidere da cosa essere più spaventato: dai manifestanti a cui si stava avvicinando per strada, o dal Durissimo che stava lì dentro a pochi centimetri dal suo non ancora torto collo. Poi cercò ancora Sherman con gli occhi, lo trovò e si tuffò nella cavità, poi fuggì battendo le ali, gli occhi sbarrati dal terrore.
«Non succederà niente» disse Killian. «Lassù ci saranno i poliziotti. Pronti ad affrontare quelli là. È sempre la stessa compagnia: Bacon e i suoi. Credi forse che la gente del Bronx se ne freghi davvero? Non farti illusioni. È sempre la solita compagnia, che fa i soliti stupidi numeri. È uno spettacolo. Tieni la bocca chiusa e guarda davanti a te. Questa volta abbiamo una sorpresa per loro.»
Via via che l'auto si avvicinava a Walton Avenue, Sherman cominciava a vedere la folla nella strada. Stava attorno alla base dell'immenso palazzo in cima alla collina. Sentì una voce che veniva da un microfono. La gente rispondeva alla voce con una specie di cantilena ritmica. Chiunque fosse quello che urlava nel microfono, pareva stare sulle scale dal lato della Centosessantunesima Strada. Le troupe televisive alzavano le loro attrezzature sopra il mare di facce.
L'autista disse: «Volete che mi fermi? Hahahahaha!».
«Va' pure avanti» disse Quigley. «Te lo dico io quando devi fermarti.»
«Hahahaha!»
Killian rivolto a Sherman: «Entriamo da un lato». Poi all'autista: «Prendi la prima a destra!».
«Quaanta geeeente! Hahahaha.»
«Su, prendi la prima a destra» ripeté Quigley, «e non aver paura.»
Killian disse a Sherman: «Chinati. Allacciati la scarpa, fa' qualcosa del genere!».
L'automobile svoltò nella strada che correva lungo il lato inferiore del grande palazzo in calcare. Ma Sherman stava impettito sul sedile. Non aveva più importanza. Quando sarebbe cominciata? Vedeva i furgoni blu e arancione con grate ai finestrini. La folla si era riversata giù dal marciapiede. Stavano guardando verso la Centosessantunesima Strada. La voce li aizzava e i cori si levavano dalla gente sulle scale.
«Curva a sinistra» disse Killian. «Proprio là dentro. Vedi il cono rosso? È lì.»
L'automobile si stava dirigendo con un angolo di novanta gradi verso il bordo del marciapiede alla base del palazzo. Un poliziotto là fuori reggeva un cono di gomma a colori vistosi nel centro di un posteggio riservato. Quigley teneva un tesserino con la sinistra davanti al parabrezza, probabilmente a beneficio del poliziotto. Sul marciapiede c'erano quattro o cinque altri poliziotti. Avevano camicie bianche a maniche corte e spaventose pistole sui fianchi.
«Quando apro la portiera» disse Killian, «ti metti tra me ed Ed, e tiri diritto.»
La portiera si aprì e i tre uomini si precipitarono fuori. Quigley stava alla destra di Sherman; Killian alla sinistra. La gente sul marciapiede li fissò, ma non pareva sapere chi fossero. Tre dei poliziotti in camicia bianca procedevano lateralmente tra la folla e Sherman, Killian e Quigley. Killian prese Sherman per il gomito e lo spinse verso una porta. Quigley teneva in mano una custodia pesante. Un poliziotto in camicia bianca stava sulla soglia, poi si fece da parte per lasciarli entrare in un atrio illuminato da fiochi bulbi fluorescenti. Sulla destra c'era una porta che dava su quello che pareva un locale di sgombero. Sherman riuscì a distinguere delle forme umane nere e grigie abbandonate sulle panche.
«Ci hanno fatto un piacere a tenere la loro manifestazione sulla scala» disse Killian. La sua voce era tesa e acuta. Due agenti li condussero verso un ascensore che un terzo poliziotto teneva aperto.
Entrarono nell'ascensore e l'agente li seguì. Poi premette il bottone del nono piano, e cominciarono l'ascesa.
«Grazie, Brucie» disse Killian all'agente.
«Niente, niente. In ogni caso, devi ringraziare Berme.» Killian guardò Sherman, come per dire: "Che cosa ti ho detto?".
Al nono piano, fuori di una stanza contrassegnata aula 60, c'era una folla rumorosa nel corridoio. Una fila di agenti giudiziari la tratteneva.
«Tu!… Eccolo!»
Sherman guardò fisso davanti a sé. Quando comincia? Un uomo balzò davanti a lui… un bianco, con capelli biondi ravviati all'indietro a partire da una punta prominente sulla fronte. Indossava un blazer blu, una cravatta blu e una camicia a strisce sul petto con un colletto bianco rigido. Era il giornalista, Fallow. Sherman l'aveva visto l'ultima volta all'entrata dell'Immatricolazione centrale… in quel posto…
«Signor McCoy!» Quella voce.
Con Killian da un lato e Quigley dall'altro, mentre l'agente, Brucie, apriva la strada, sembravano una formazione volante a cuneo. Spostarono l'inglese e passarono attraverso una porta. Erano in aula. Tanta gente alla sinistra di Sherman… nel settore del pubblico… Facce nere, qualche faccia bianca… In prima fila c'era un uomo nero alto con un orecchino d'oro a un lobo. Si alzò a metà e puntò un braccio lungo e nervoso su Sherman, dicendo con voce gutturale smorzata:
«È lui!» Poi con voce più forte. «Prigione! Niente cauzione!» La voce profonda di una donna: «Dentro! Mettetelo dentro!». Sììììì!… È lui, è lui!… Guardatelo!… In prigione! Niente cauzione!
Adesso? Non ancora. Killian gli teneva il gomito e gli sussurrò all'orecchio: «Ignorali!».
Un falsetto cantilenante: «Sherrrr-maannnn… Sherrrmaannnnn».
«SILENZIO! SEDUTI!»
Era la voce più forte che Sherman avesse mai sentito. Dapprima pensò che l'invito fosse rivolto a lui. Si sentiva tremendamente in colpa, anche se non aveva emesso il minimo suono.
«ALTRI SCHIAMAZZI… E FACCIO SGOMBRARE L'AULA! SONO STATO ABBASTANZA CHIARO?»
Sul banco del giudice, sotto la scritta CONFIDIAMO IN DIO, un ometto sottile, calvo e dal naso a becco, in toga nera, se ne stava con i pugni sopra il tavolo e le braccia tese, come se fosse un velocista pronto a scattare dai blocchi di partenza. Sherman vide il bianco sotto le iridi mentre gli occhi fiammeggianti del giudice incenerivano la folla davanti a lui. I manifestanti borbottarono, ma presto fecero silenzio.
Il giudice, Myron Kovitsky, continuò a fissarli con uno sguardo furioso.
«In quest'aula voi parlate quando la Corte vi chiede di parlare. Esprimete un giudizio su un uomo quando venite scelti a far parte di una giuria e la Corte vi chiede il vostro giudizio. Vi alzate in piedi ed esprimete il vostro parere non vincolante, i vostri obiter dicta, quando la Corte vi chiede di alzarvi in piedi e di esprimere il vostro parere non vincolante. Fino a quel momento… STATE ZITTI E SEDUTI! E IO… SONO LA CORTE! SONO STATO ABBASTANZA CHIARO? C'è qualcuno che contesta quello che ho appena detto e disprezza questa Corte al punto tale da voler passare qualche tempo come ospite dello Stato di New York a riflettere su ciò che ho appena detto? SONO-STATO-ABBASTANZA-CHIARO?»
I suoi occhi fecero una panoramica sulla folla da sinistra a destra, da destra a sinistra e poi di nuovo da sinistra a destra.
«E va bene. Adesso che l'avete capito, forse potrete assistere a questo procedimento come membri responsabili della comunità. Finché lo farete, sarete i benvenuti in quest'aula. Ma nel momento in cui non sarà così… rimpiangerete di non essere rimasti a letto! Sono-stato-abbastanza-chiaro?»
La voce salì improvvisamente a una tale intensità che la folla parve indietreggiare, spaventata all'idea che l'ira di questo collerico ometto discendesse ancora su di loro.
Kovitsky si sedette e allargò le braccia. Le falde della toga si sollevarono come ali d'uccello. Abbassò la testa. Il bianco era ancora visibile sotto le iridi. Ora l'aula era nel silenzio più completo. Sherman, Killian e Quigley stavano in piedi vicino alla barriera che separava il settore per il pubblico dal tribunale vero e proprio. Gli occhi di Kovitsky si appuntarono su Sherman e Killian. Pareva arrabbiato anche con loro. Emise quel che si sarebbe detto un sospiro di disgusto.
Poi si rivolse al cancelliere che sedeva a un grande tavolo di lato. Sherman seguì lo sguardo di Kovitsky, e laggiù, in piedi accanto al tavolo, vide il sostituto procuratore distrettuale: Kramer.
Kovitsky rivolto al cancelliere: «Introduca il caso».
Il cancelliere disse a voce alta: «Procedimento numero 4-7-2-6, il Popolo contro Sherman McCoy. Chi rappresenta in giudizio il signor McCoy?».
Killian si avvicinò al divisorio e disse: «Io».
Il cancelliere: «Prego, declini le sue generalità».
«Thomas Killian, 86 Reade Street.»
Kovitsky disse: «Signor Kramer, ha richieste da fare a questo punto del giudizio?».
L'uomo, Kramer, fece qualche passo in avanti verso il banco. Camminava come un giocatore di football. Si fermò, gettò la testa indietro, tese il collo per qualche misteriosa ragione, e disse: «Vostro Onore, l'imputato, il signor McCoy, è attualmente in libertà provvisoria dietro cauzione di diecimila dollari, una somma insignificante per una persona con i suoi mezzi e le sue particolari risorse nel mondo finanziario».
Sititi!,.. Mettetelo in prigione! Niente cauzione!… Fatelo pagare!
Kovitsky, abbassata la testa, li guardò torvo. Le voci si affievolirono fino al borbottio.
«Come Vostro Onore sa bene» continuò Kramer, «la giuria d'accusa ha ora deciso per un rinvio a giudizio dell'imputato con capi d'accusa molto gravi: comportamento molto pericoloso, omissione di soccorso e omissione di denuncia alle competenti autorità di polizia. Ora, Vostro Onore, visto che la giuria ha già trovato prove sufficienti delle responsabilità dell'imputato per rinviarlo a giudizio, anche il Popolo avverte delle possibilità concrete che l'imputato decida di rinunciare alla sua cauzione, considerata la sua tenue consistenza.»
Sìììì… È giusto… ahh-haah…
«Perciò, Vostro Onore» disse Kramer, «il Popolo ritiene pressoché obbligatorio che la Corte invii un limpido segnale non solo all'imputato ma anche alla comunità che quanto è qui in corso viene trattato con la massima serietà. La vittima, Vostro Onore, è un giovane, un giovane esemplare, il signor Henry Lamb, che è diventato un simbolo per la gente del Bronx sia per le speranze riposte nei suoi figli e nelle sue figlie sia per gli ostacoli impervi e tremendi che essi affrontano. Vostro Onore è già conscio della passione con la quale la comunità segue ogni passo di questo caso. Se quest'aula fosse più grande, la gente di questa comunità sarebbe qui a centinaia, forse a migliaia, quanti sono proprio in questo momento nel corridoio e nelle strade all'esterno.»
Avanti!… In prigione! Niente cauzione!… Digliele chiare! SBANG!
Kovitsky calò il martelletto con una terribile esplosione.
«SILENZIO!»
Il brontolio cupo della folla si fece lieve mormorio.
A testa bassa, le iridi galleggianti in un mare di bianco, Kovitsky disse: «Arrivi al dunque, signor Kramer. Questo non è un raduno di tifosi. È un'udienza in un'aula di tribunale».
Kramer capì che stava di fronte alle solite avvisaglie. Le iridi galleggiavano nel solito mare in tempesta. La testa era bassa. Il naso sporgeva. Non ci voleva più molto per far esplodere Kovitsky. D'altro canto, pensava, io non posso far marcia indietro. Non posso arrendermi. Il comportamento di Kovitsky fino a quel momento - anche se non era per nulla diverso dal solito: le solite urla, la solita ostentazione di autorità - il comportamento di Kovitsky fino a quel momento era intollerante verso i manifestanti. La Procura distrettuale della Contea del Bronx era invece loro favorevole. Abe Weiss era loro amico. Larry Kramer era loro amico. Il Popolo era… davvero il Popolo. Per questo lui era lì presente. Lui doveva rischiare con Kovitsky… con quegli occhi infuriati che ora lo stavano squadrando.
La sua voce gli parve buffa mentre diceva: «Me ne rendo conto, Vostro Onore, ma mi rendo anche conto dell'importanza di questo caso per il Popolo, per tutti gli Henry Lamb, presenti e futuri, di questo paese e di questa città…».
Digliele chiare, fratello!… Subito!… È giusto!
Kramer si affrettò ad andare avanti, con voce ancora più alata, prima che Kovitsky esplodesse: «… e quindi il Popolo fa richiesta formale alla Corte di elevare la cauzione dell'imputato a una somma più adeguata al suo censo e più significativa di… un milione di dollari… al fine di…».
in prigione! Niente cauzione!… In prigione! Niente cauzione!… In prigione! Niente cauzione! I dimostranti eruppero in un canto cadenzato.
Giusto!… Un milione di dollari!… Sììì!… La voce della folla divenne un urlo esultante misto a risate, e poi culminante in un grido ritmato: In prigione! Niente cauzione!… In prigione! Niente cauzione!… In prigione! Niente cauzione!
Il martelletto di Kovitsky si sollevò mezzo metro sopra la testa e Kramer indietreggiò prima che calasse.
SBANG!
Kovitsky rivolse a Kramer un'occhiata furibonda, poi si chinò in avanti e fulminò la folla.
«ORDINE IN AULA!… SILENZIO!… METTETE IN DUBBIO LA MIA PAROLA?» Le iridi volavano di qua e di là, sopra un mare ribollente.
Il canto cadenzato rallentò e calò fino a diventare un borbottio. Ma piccoli scoppi di risate indicavano che la gente era in attesa di nuovi spunti.
«GLI AGENTI ADDETTI FARANNO…»
«Vostro Onore! Vostro Onore!» Era l'avvocato di McCoy, Killian.
«Che cosa c'è, signor Killian?»
L'interruzione colse di sorpresa la folla. La gente si calmò.
«Vostro Onore, posso avvicinarmi?»
«D'accordo, signor Killian.» Kovitsky gli fece segno di avvicinarsi. «Signor Kramer?» Anche Kramer si avvicinò al banco.
Adesso era vicino a Killian: Killian vestito alla moda, al banco, sotto lo sguardo torvo del giudice Kovitsky.
«Bene, signor Killian» disse Kovitsky. «Che cos'ha da dirmi?»
«Giudice» disse Killian, «se non sbaglio, lei è il giudice di controllo della giuria che ha rinviato a giudizio il mio assistito?»
«Esatto!» affermò rivolto a Killian, ma poi riportò la sua attenzione su Kramer. «È duro d'orecchi, signor Kramer?»
Kramer non disse niente. Non doveva rispondere a una simile domanda.
«Si è lasciato esaltare dalle grida di questa gente» Kovitsky accennò agli spettatori, «che la sta acclamando?»
«No, giudice, non è possibile trattare questo caso come un caso qualunque.»
«In quest'aula, signor Kramer, il caso sarà trattato come cazzo dico io. Sono stato abbastanza chiaro?»
«Lei è sempre chiaro, giudice.»
Kovilsky gli lanciò un'occhiata, forse nel tentativo di decidere se ci Tosse una punta d'insolenza in quell'osservazione. «D'accordo, allora lei sa che se susciterà ancora questo stupido comportamento in quest'aula, finirà per rimpiangere di aver mai visto Mike Kovitsky!»
Non poteva beccarsi senza fiatare un trattamento del genere, specie con Killian lì al suo fianco, perciò disse: «Senta, giudice, io ho ogni diritto di…».
Kovitsky lo interruppe: «Ogni diritto di che cosa? Di fare la campagna di Abe Weiss nella mia aula? Stronzate, signor Kramer! Gli dica di affittare una sala, di convocare una conferenza-stampa. Gli dica di andare in televisione, a un talk-show, Cristo!».
Kramer era così arrabbiato che non riusciva a parlare. La faccia era rosso fiamma. Disse tra i denti: «È tutto, giudice?». Senza attendere una risposta, girò sui tacchi e si allontanò.
«Signor Kramer!»
Si fermò e girò di nuovo su se stesso. Con sguardo cupo, Kovitsky lo richiamò con un gesto al banco. «Il signor Killian deve fare una richiesta, credo. Vuole forse che lo stia a sentire da solo?»
Kramer strinse i denti e lo fissò.
«D'accordo! Signor Killian, dica pure.»
Killian disse: «Giudice, sono in possesso di una prova importante non soltanto per quel che riguarda la richiesta del signor Kramer sulla cauzione, ma anche per quel che riguarda la legittimità dello stesso rinvio a giudizio».
«Che tipo di prova?»
«Ho delle registrazioni di conversazioni tra il mio cliente e un teste essenziale in questo caso che fanno ritenere altamente probabile il fatto che siano state presentate false testimonianze alla giuria d'accusa.»
Che cosa cavolo succedeva? Kramer s'intromise. «Giudice, queste sono sciocchezze. Noi abbiamo un rinvio a giudizio pienamente valido da parte della giuria. Se il signor Killian ha da fare lagnanze…»
«Un momento, signor Kramer» disse Kovitsky.
«… se ha da fare lagnanze per il modo di procedere della giuria, ha a disposizione le vie ordinarie…»
«Un momento. Il signor Killian dice di avere una prova…»
«Prove! Questa non è un'udienza probatoria, giudice! Lui non può arrivare qui e mettere in discussione l'operato della giuria, ex post facto! E lei non può…»
«SIGNOR KRAMER!»
La voce di Kovitsky che si levava prepotente suscitò un certo turbamento tra i manifestanti, che d'un tratto avevano ripreso a mormorare.
Con occhi sorvolanti il mare agitato: «Signor Kramer, sa qual è il suo problema? Lei non sta assolutamente a sentire! Lei non è capace di ascoltarvi Cazzo!».
«Giudice…»
«SILENZIO! La Corte ascolterà la prova del signor Killian.»
«Giudice…»
«Lo faremo in camera di consiglio.»
«In camera di consiglio? Perché?»
«Il signor Killian dice di avere delle registrazioni. Noi le ascolteremo in camera di consiglio, prima.»
«Senta, giudice…»
«Lei non vuole venire in camera di consiglio, signor Kramer? Ha paura di perdere il suo pubblico?»
Fremente, Kramer abbassò gli occhi e scosse la testa.
Sherman si era attaccato al divisorio. Quigley era da qualche parte alle sue spalle, con la pesante custodia in mano. Ma in ogni caso… loro lo sostenevano. Quando sarebbe cominciata? Teneva sempre gli occhi fissi sulle tre sagome al banco del giudice. Non osava lasciar correre lo sguardo. Poi cominciarono le voci. Venivano da dietro, in una specie di minacciosa cantilena.
«Sei all'ultimo chilometro, McCoy!»
«All'ultima cena!»
Poi in falsetto: «All'ultimo respiro».
Da una parte e dall'altra della sala c'erano degli agenti. Ma non facevano niente per far cessare le minacce. Sono terrorizzati come me!
Ancora il falsetto: «Ehi, Sherman, perché ti dimeni?».
Ti dimeni! Evidentemente agli altri piacque. Anche loro cominciarono a modulare in falsetto.
«Sherrr-maaaannnn…»
«Sherman che-si-dimenaaa!»
Risatine e risate.
Sherman fissò il banco, laddove risiedeva la sua ultima speranza. Come a rispondere alla supplica, il giudice lo guardò e disse: «Signor McCoy, vuole venire qui un attimo?».
Un mormorio e un coro in falsetto mentre lui si mise a camminare. Mentre si avvicinava al banco, sentì il sostituto procuratore distrettuale, Kramer, dire: «Non capisco, giudice. A quale fine è necessaria la presenza dell'imputato?».
Il giudice disse: «L'istanza è sua, e sua è la prova. E inoltre non mi va che resti qui da solo. È d'accordo, signor Kramer?».
Kramer non disse niente. Guardò con occhio furioso il giudice e poi Sherman.
Il giudice disse: «Signor McCoy, lei verrà con me, il signor Killian e il signor Kramer nel mio ufficio privato».
Poi batté tre volte il martelletto e comunicò all'aula: «La Corte si ritira ora insieme al pubblico ministero e all'avvocato difensore in camera di consiglio. In mia assenza un contegno corretto DEVE ESSERE MANTENUTO in quest'aula. Sono stato abbastanza chiaro?».
Il mormorio dei manifestanti si alzò fino a un ribollire di rabbia, ma Kovitsky preferì ignorarlo, si alzò, scese i gradini del palco. Il cancelliere si alzò dal suo tavolo per unirsi a lui. Killian strizzò l'occhio a Sherman, poi tornò verso la sezione del pubblico. Il giudice, il cancelliere, il segretario del giudice e Kramer si diressero verso una porta che si apriva nella parete a pannelli da un lato del palco. Killian tornò reggendo la pesante custodia. Si fermò e fece cenno a Sherman di seguire Kovitsky. L'agente, con il gran rotolo di grasso sopra il cinturone della pistola, formava la retroguardia.
La porta conduceva in una stanza che smentiva ogni cosa l'aula e il termine "camera di consiglio" avessero suggerito a Sherman. Si trattava, in realtà, di una stanza molto squallida. Era piccola, sporca, disadorna, cadente, dipinta in un colorino crema tipo "anche troppo per un ufficio statale", ma la vernice mancava qua e là e in altri punti si stava scrostando e arricciando indecorosamente. Gli unici aspetti positivi erano il soffitto straordinariamente alto e una finestra alta tre metri che riversava luce abbondante nella stanza. Il giudice si sedette a una scrivania metallica alquanto rovinata. Il cancelliere si sedette a un'altra. Kramer, Killian e Sherman si accomodarono su certe vecchie sedie pesanti di legno dallo schienale tondeggiante, note come sedie da banchiere. Il segretario di Kovitsky e il grasso agente giudiziario rimasero in piedi contro il muro. Un uomo alto entrò con la stenotype portatile usata dagli stenografi di tribunale. Strano! L'uomo era vestito così bene. Indossava una bella giacca di tweed, una camicia bianca impeccabile come quella di Rawlie, una cravatta rosso antico, pantaloni di flanella neri e scarpe leggere. Pareva un professore di Yale con reddito e proprietà personali.
«Signor Sullivan» disse Kovitsky, «è meglio che si porti la sua sedia qui dentro.»
Il signor Sullivan uscì, poi tornò con un seggiolino di legno, si sedette, giocherellò con la sua macchina, guardò Kovitsky e annuì.
Allora Kovitsky disse: «Ora, signor Killian, lei ha affermato di essere in possesso di informazioni d'importanza fondamentale per il procedimento davanti alla giuria d'accusa in questo caso giudiziario».
«Esatto, giudice» disse Killian.
«D'accordo» disse Kovitsky, «voglio sentire quel che lei ha da dire, ma l'avverto, meglio per lei se non si tratta di argomento frivolo o privo d'importanza.»
«Non è frivolo, giudice.»
«Poiché, se lo fosse, la riterrei una cosa poco consona, la vedrei insomma molto male, peggio di come ho visto ogni altra cosa da quando siedo sul banco, e cioè davvero molto male. Sono stato abbastanza chiaro?»
«Senza alcun dubbio, giudice.»
«E va bene. Ora è pronto a fornire l'informazione?»
«Lo sono.»
«Allora proceda.»
«Tre giorni fa, giudice, ricevetti una telefonata da Maria Ruskin, la vedova del signor Arthur Ruskin, che mi chiedeva di poter parlare con il signor McCoy qui presente. Secondo quel che so - e secondo quanto riferito nei notiziari e nei giornali - la signora Ruskin ha prestato testimonianza davanti alla giuria d'accusa in questo caso.»
Kovitsky chiese a Kramer: «È vero?».
Kramer disse: «Ha testimoniato ieri».
Il giudice disse a Killian: «Va bene, continui».
«Perciò organizzai un incontro tra la signora Ruskin e il signor McCoy, e su mia calda raccomandazione il signor McCoy andò all'incontro con un registratore nascosto al fine di avere una documentazione verificabile di quella conversazione. L'incontro avvenne in un appartamento della Settantasettesima Strada Est che la signora Ruskin tiene, a quanto pare, per… ehm, incontri privati… e comunque una registrazione di quell'incontro esiste. Ho il nastro con me e, secondo me, la Corte dovrebbe conoscerne il contenuto.»
«Un momento, giudice» disse Kramer. «Sta dicendo che il suo cliente andò a far visita alla signora Ruskin con un registratore?»
«Immagino di sì» disse il giudice. «Vero, signor Killian?»
«Esatto, giudice» disse Killian.
«Be', intendo muovere un'obiezione, giudice» disse Kramer, «e vorrei che fosse messa a verbale. Non è il momento di prendere in considerazione la richiesta della difesa; inoltre non c'è modo di verificare l'autenticità del nastro che il signor Killian sostiene di avere.»
«Prima sentiremo il nastro, signor Kramer, per sapere cosa c'è dentro. Vedremo se merita ulteriore considerazione, prima facie, e poi ci preoccuperemo delle altre questioni. È d'accordo?»
«No, giudice, non vedo come lei possa…»
Il giudice, piccato: «Faccia andare il nastro, avvocato».
Killian si chinò sulla custodia, estrasse il grosso apparecchio e lo piazzò sulla scrivania di Kovitsky. Poi inserì una cassetta. La cassetta era esageratamente piccola. In qualche modo la segreta cartuccia in miniatura pareva truffaldina e sordida quanto l'impresa in se stessa.
«Quante voci ci sono sul nastro?» chiese Kovitsky.
«Soltanto due, giudice» disse Killian. «Quelle del signor McCoy e della signora Ruskin.»
«Perciò sarà abbastanza chiaro per il signor Sullivan quel che sentiamo?»
«Dovrebbe esserlo» disse Killian. «No, mi scusi, giudice, dimenticavo un dettaglio. Al principio del nastro sentiremo il signor McCoy parlare con l'autista dell'automobile che lo ha portato fino al palazzo dove ha poi incontrato la signora Ruskin. E alla fine lo sentirà parlare di nuovo con l'autista.»
«Chi è l'autista?»
«È un autista dell'autonoleggio di cui si è servito il signor McCoy. Non ho voluto manipolare il nastro in alcun modo.»
«Ah-haa. Be', vada pure.»
Killian mise in moto l'apparecchio e da principio si poté sentire solo rumore di fondo, un suono continuo smorzato con rumori del traffico di tanto in tanto, compresa la sirena rauca di un'autopompa. Poi qualche battuta scambiata a mezza bocca con l'autista. Tutto così ambiguo, no? Un'onda di vergogna investì Sherman. E lo avrebbero fatto andare fino alla fine! Lo stenografo avrebbe registrato tutto, ogni parola piagnucolata mentre cercava di sottrarsi a Maria con quel turpe balletto e negava l'ovvio, ossia che era un bastardo traditore venuto nel suo appartamento con addosso un registratore. Quanta parte di tutto questo sarebbe venuta alla luce con le sole parole? Abbastanza: era un infame.
Ora il registratore fraudolento e occultato trasmetteva il suono del cicalino al portone della casa, il clicclic-clic della serratura elettrica e - o era frutto della sua immaginazione? - il lamento delle scale mentre ci passava sopra. Poi una porta che si apriva… e la voce allegra, priva di sospetti: "Bu!… Spaventato?". E l'infido attore esce in' una risposta con voce che quasi non riconosceva: "Non proprio. Recentemente sono stato spaventato da esperti in materia". Gettò occhiate di qua e di là. Gli altri uomini dentro quella stanza avevano la testa bassa, e fissavano il pavimento o la macchina o la scrivania del giudice. Poi colse l'agente grasso che lo guardava. Che cosa doveva pensare quello? E gli altri con gli occhi lontani dai suoi? Ma chiaro! Non avevano bisogno di guardarlo, perché erano già ben dentro la cavità, grufolando a piacimento, tutti tesi a sentire le parole della sua brutta recita truffaldina. Le lunghe dita dello stenografo danzavano sulla piccola, delicata macchina. Sherman avvertì una tristezza avvilente. Così pesante… che non riusciva a muoversi. In questa triste stanzetta in rovina c'erano altri sette uomini, altri sette organismi, centinaia di chili di ossa e tessuti, che respiravano, pompavano sangue, bruciavano calorie, elaboravano cibi, espellendo agenti contaminanti e tossine, trasmettendo impulsi nervosi; sette animali sgradevoli, sinistri, caldi, grufolanti, dietro compenso, nella cavità totalmente pubblica, un tempo da lui ritenuta la sua anima.
Kramer moriva dalla voglia di guardare McCoy, ma decise di essere freddo e professionale. Che aspetto ha un ratto che ascolta un ratto in una stanza piena di gente che sa che lui è un ratto… un ratto che va a trovare la sua ragazza, munito di registratore? Inconsciamente ma ben in profondità, Kramer si sentì sollevato. Sherman McCoy, Wasp, l'aristocratico di Wall Street, l'uomo di mondo, l'uomo di Yale era un topo di chiavica come ogni spacciatore di droga da lui equipaggiato per tradire la gente della sua specie. No, McCoy era più che un topo di chiavica. Uno spacciatore non si aspetta molto da un altro spacciatore. Ma in quegli ambienti elevati, ai vertici della pulizia e del moralismo, nella stratosfera retta e condotta da Wasp pallidi e dalle labbra sottili, l'onore, presumibilmente, non era una parola su cui scherzare. Eppure, messi con le spalle al muro, diventavano ratti immondi proprio come ogni altra persona bassa e spregevole. Era un bel sollievo, poiché era stato turbato da quanto aveva detto Bernie Fitzgibbon. E se sul caso non si fosse davvero indagato a dovere? Maria Ruskin aveva avallato la versione di Roland Auburn davanti alla giuria, ma dentro di sé lui sapeva di averle dato una bella spinta. L'aveva messa dentro una scatola stretta così alla svelta che forse lei…
Preferì non completare il pensiero.
Il sapere che McCoy alla fin fine non era altro che un topo di chiavica con solo un curriculum un tantino migliore tranquillizzava il suo animo. McCoy si trovava in questo tremendo pasticcio poiché era, in fondo, il suo ambiente naturale, il nido sporco della sua personalità lacunosa.
Rassicurato sulla giustezza della sua causa, Kramer si concesse un certo diffuso risentimento nei confronti di questo pseudoaristocratico alto, ora seduto a un metro da lui, che riempiva la stanza con la sua puzza di ratto. Nell'ascoltare le due voci sul nastro, l'aristocratica nasalità di McCoy e l'eloquio strascicato da ragazza del Sud di Maria Ruskin, non ci voleva troppa immaginazione a stabilire quel che stava avvenendo. Le pause, i respiri, il movimento frusciante… McCoy, il topo di chiavica, aveva preso questa stupenda creatura arrapante tra le braccia… E quell'appartamento nella Settantasettesima Strada Est dove s'incontravano… quella gente dei quartieri alti aveva degli appartamenti solo per i suoi piacerti… mentre lui si logorava il cervello (e le tasche) per trovare un posto dove sistemare la struggente signorina Shelly Thomas. La bella e il ratto continuavano a parlare… Una pausa quando lei era uscita dalla stanza per preparargli qualcosa da bere, e un suono stridente quando probabilmente lui aveva toccato il microfono nascosto. Il ratto. Le voci ripresero e lei disse: «Un sacco di gente vorrebbe sentire questa conversazione».
Neppure Kovitsky a questo punto seppe resistere alla tentazione di guardarsi attorno, ma Kramer si rifiutò di mostrarsi servizievole sorridendo smaccatamente.
La voce di Maria Ruskin continuava a ronzare. Adesso si stava lamentando del suo matrimonio. A cosa diavolo mirava questo nastro? Le lamentele della donna erano noiose. Aveva sposato un vecchio. Che cosa cavolo si aspettava? Lui divagava oziosamente con la fantasia… la vedeva come se fosse proprio lì, nella stanza. Il modo languido di accavallare le gambe, il sorrisetto provocante, il modo di guardarti di tanto in tanto…
All'improvviso fu richiamato alla realtà. "Un tale della Procura distrettuale del Bronx mi è venuto a trovare oggi, insieme a due poliziotti." Poi: "Un piccolo bastardo pieno di arie".
Oooh!… era stordito. Un bruciore tremendo gli invase il collo e la faccia. Per qualche ragione era stato quel piccolo a ferirlo più di tutto. Che modo sprezzante di liquidarlo… lui, con i suoi possenti sternocleidomastoidei… alzò gli occhi per scrutare le facce degli altri, pronto a ridere preventivamente se qualcun altro avesse alzato gli occhi e sorriso a tale frase oltraggiosa. Ma nessuno sollevò lo sguardo, meno che meno McCoy, che avrebbe strozzato con grande piacere.
"Continuava a buttare la testa indietro e a fare cose turche con il collo, così, e a guardarmi con due occhi che parevano fessure oscene. Che verme!"
Ora la faccia di Kramer era rosso scarlatto, in fiamme, ribollente di rabbia e, peggio ancora, di sgomento. Qualcuno nella stanza fece un rumore che poteva essere un colpo di tosse o poteva anche essere una risata soffocata. Non ebbe sufficiente coraggio per indagare. Troia! disse tra sé, in piena coscienza. Ma il suo sistema nervoso disse: Arbitraria e deliberata distruttrice delle mie più tenere speranze! In questa stanzetta piena di gente, egli stava soffrendo i dolori inauditi degli uomini il cui ego aveva perso la verginità… come accade quando essi ascoltano per caso e per la prima volta l'opinione franca e schietta di una bella donna sulla loro mascolinità.
Quel che venne dopo era anche peggio.
"È andato diretto al punto, Sherman" diceva la voce sul nastro. "Ha detto che se io testimonio contro di te e confermo ciò che ha detto l'altro testimone, mi farà dare l'immunità. Se non lo faccio, allora sarò trattata come complice, e mi incrimineranno per quei… delitti."
E poi:
"Mi ha perfino dato le fotocopie degli articoli sui giornali. Praticamente mi ha fatto una specie di mappa della situazione. Da un lato ci sono i fatti veri e dall'altro i fatti come li hai concertati tu. Io dovrei confermare quelli che secondo lui rispondono alla verità. Se invece racconto quello che è successo veramente, finisco in prigione."
Che troia bugiarda! Sì, l'aveva messa nella scatola naturalmente… ma non le aveva fatto alcuna mappa!.. non l'aveva istruita su cosa dire… non l'aveva allontanata a forza dalla verità…
Sbottò: «Giudice!».
Kovitsky alzò una mano, palma in avanti, e il nastro continuò a snodarsi.
Sherman fu scosso dalla voce del sostituto procuratore distrettuale. Il giudice lo aveva subito zittito. Sherman già si preparava a quello che sapeva in arrivo.
La voce di Maria: "Vieni qui".
Riprovava di nuovo le sensazioni di quel momento, quel momento e l'orribile lotta… "Sherman, qualcosa che non va? Che cosa hai sulla schiena?"… Ma non era che l'inizio… La sua voce, la sua voce da lurido bugiardo: "Non sai quanto mi sei mancata, quanto ho avuto bisogno di te". E Maria: "Be'… sono qui". Poi il lungo tramestio rivelatore, ignobile… e lui risentiva il respiro di lei e le sue mani sulla schiena.
"Sherman… Che cos'hai sulla schiena?"
Le parole riempirono la stanza di un fiotto di vergogna. Avrebbe voluto sparire sotto il pavimento. Si lasciò cadere all'indietro, sulla sedia, e fece crollare il mento sul petto. "Sherman, che cos'è?"… La voce di lei che si faceva più alta, i suoi sciagurati spergiuri, la lotta per la stanza, gli urletti e il respiro affannoso di Maria… "È un filo, Sherman!"… "Mi fai… male!"… "Sherman… schifoso, disonesto bastardo!"
Oh, com'è vero, Maria! Com'è spaventosamente vero!
Kramer ascoltava, avvolto in un velo rosso di mortificazione. La troia e il ratto… il loro tète-à-tète era degenerato in una specie di combattimento ratto-troia. Piccolo bastardo pieno di arie. Verme. Cose turche con il collo. Lo aveva disprezzato, umiliato, abbattuto, diffamato… esponendolo a un'imputazione per istigazione a falsa testimonianza.
Sherman era stupito dal rumore dei suoi disperati ansiti alla ricerca di aria che uscivano ritmicamente dalla macchina nera sul tavolo del giudice. Un suono mortificante. Dolore, panico, vigliaccheria, debolezza, inganno, vergogna, indegnità… tutte queste cose insieme… seguite da un rumore di passi pesanti e maldestri. Era il rumore che aveva provocato lui stesso nel fuggire giù per le scale. Sapeva che in qualche modo tutti quelli che erano nella stanza lo vedevano scappare con il registratore e il filo tra le gambe.
Quando il nastro si fu esaurito, Kramer riuscì a venir fuori a fatica dalla sua vanità ferita e a raccogliere i pensieri. «Giudice!» esclamò. «Non so che cosa…»
Kovitsky lo interruppe: «Un attimo. Signor Killian, può riavvolgere il nastro? Voglio sentire lo scambio tra il signor McCoy e la signora Ruskin a proposito della testimonianza di lei».
«Ma, giudice…»
«Lo riascolteremo, signor Kramer.»
Lo riascoltarono.
Le parole veleggiarono sopra Sherman. Era ancora sott'acqua, annegato nell'ignominia. Come faceva a guardare uno di loro in faccia?
Il giudice Kovitsky disse: «Va bene, signor Killian. Secondo lei, quale conclusione la Corte dovrebbe trarre dall'ascolto di questa registrazione?».
«Giudice» disse Killian, «questa donna, la signora Ruskin, o fu indotta a rilasciare certe testimonianze e a ometterne altre per non subire gravi conseguenze, oppure ha pensato di essere in quella situazione, il che ai fini pratici è lo stesso. E…»
«E assurdo!» esclamò il sostituto procuratore distrettuale, Kramer. Si sporse in avanti sulla sedia con un indice carnoso puntato su Killian e una faccia paonazza.
«Lo lasci finire» disse il giudice.
«Inoltre» proseguì Killian, «come abbiamo appena sentito, lei aveva ampi motivi per testimoniare il falso, non solo per proteggere se stessa ma anche per recar danno al signor McCoy che chiama "schifoso, disonesto bastardo".»
Lo schifoso, disonesto bastardo si sentì di nuovo mortificato. Cosa poteva essere mortificante più della nuda verità? Uno scontro verbale esplose tra il sostituto procuratore distrettuale e Killian. Che cosa dicevano? Non significava niente di fronte all'ovvia, umiliante verità.
Il giudice ruggì: «SILENZIO!». Si ammutolirono. «La questione della subornazione non m'interessa in questo momento. Se è di questo che si preoccupa, signor Kramer. Ma penso veramente che sia concreta la possibilità di una testimonianza alterata davanti alla giuria d'accusa.»
«E assurdo!» disse di nuovo Kramer. «La donna ha avuto sempre due avvocati al suo fianco. Chieda a loro che cosa ho detto io!»
«Se necessario, sarà chiesto loro. Ma a me interessa meno quel che ha detto lei, Kramer, che quel che aveva per la testa la donna quando ha reso la sua testimonianza davanti alla giuria d'accusa. Ha capito, signor Kramer?»
«No, non capisco, giudice, e…»
Killian s'intromise: «Giudice, io ho un secondo nastro».
Kovitsky disse: «Va bene. Di che natura è questo nastro?»
«Giudice…»
«Non interrompa, signor Kramer. Avrà la possibilità di essere ascoltato. Vada avanti, signor Killian. Di che tratta quest'altro nastro?»
«È la conversazione con la signora Ruskin che, a quanto mi dice il signor McCoy, lui registrò ventidue giorni fa, dopo che uscì il primo articolo di giornale a proposito delle ferite riportate da Henry Lamb.»
«Dove ebbe luogo questa conversazione?»
«Nello stesso posto dell'altra, giudice. Nell'appartamento della signora Ruskin.»
«Sempre senza che lei lo sapesse?»
«Esatto.»
«E quale importanza può avere in questa udienza?»
«Fornisce il resoconto della signora Ruskin sull'incidente che ha coinvolto Henry Lamb, dove lei parla sinceramente, e di sua spontanea volontà, con il signor McCoy. Il che suscita la domanda se possa avere alterato o no il suo resoconto sincero al momento di testimoniare davanti alla giuria d'accusa.»
«Giudice, è pazzesco! Ora ci viene detto che l'imputato vive con un registratore addosso! Sappiamo già che è un ratto, un topo di fogna, nel gergo della strada, perciò perché dovremmo credere che…»
«Si calmi, signor Kramer. Prima ascolteremo il nastro. Poi lo valuteremo. Per ora niente è andato a verbale. Vada avanti, Killian. Un attimo, signor Killian, prima voglio il giuramento del signor McCoy.»
Quando gli occhi di Kovitsky incontrarono i suoi, riuscì a malapena a reggerne lo sguardo. Con sua sorpresa, si sentiva tremendamente in colpa per quel che stava per fare. Stava per commettere spergiuro.
Kovitsky chiese a Bruzzielli, il cancelliere, di pronunciare la formula del giuramento, poi chiese a Sherman se aveva inciso i due nastri nel modo e nei tempi detti da Killian. Sherman disse di sì, si costrinse a continuare a guardare Kovitsky, e si chiese se la menzogna gli si vedesse in qualche modo sulla faccia.
Il nastro partì: «Lo sapevo. Lo sapevo già allora. Avremmo dovuto far rapporto alla polizia…».
Sherman quasi non riusciva ad ascoltarlo. Sto facendo una cosa illegale! Sì… ma nel nome della verità… È la via sotterranea verso la luce… È proprio la conversazione, il dialogo che c'è stato tra noi… allora sì sarebbe davvero una cosa disonesta… Non è così?… Sì… ma sto facendo una cosa illegale! Così girava in tondo il suo cervello mentre il nastro andava avanti… E Sherman McCoy, che aveva da poco fatto promessa formale di comportarsi come l'animale che era in realtà, scoprì ciò che molti avevano scoperto prima di lui: in ragazzi e ragazze ben educati il senso di colpa e l'istinto di obbedire alle leggi sono riflessi, fantasmi inestirpabili dalla macchina.
Anche prima che il gigante chassidico rotolasse giù dalle scale, e cessassero gli scoppi di risa di Maria, nella stanza slabbrata del Bronx, l'accusatore, Kramer, stava protestando furiosamente.
«Giudice, lei non può permettere questo…»
«Le darò una possibilità di parlare.»
«… imbroglio da quattro soldi…»
«Signor Kramer!»
«… influenzi…»
«SIGNOR KRAMER!»
Kramer tacque.
«Ora, signor Kramer» disse Kovitsky, «sono sicuro che lei conosce la voce della signora Ruskin. È d'accordo che questa è la sua voce?»
«Probabilmente, ma non è questo il punto. Il punto è…»
«Un momento! Assumendo per ipotesi che quello sia il caso, quanto lei ha appena ascoltato differisce da quanto testimoniato dalla signora Ruskin davanti alla giuria d'accusa?»
«Giudice… questo è assurdo! È difficile dire quel che succede in questo nastro!»
«Differisce, signor Kramer?»
«È diverso.»
«"È diverso" è lo stesso che "differisce"?»
«Giudice, non è possibile stabilire in quali condizioni è stata fatta questa registrazione!»
«Prima facie, signor Kramer, differisce?»
«Prima facie differisce. Ma lei non può lasciare che questo trucco da quattro soldi» e indicò sprezzante con la mano McCoy «influenzi…»
«Signor Kramer!»
«… giudizio!» Kramer vide che la testa di Kovitsky si stava abbassando gradatamente. Il bianco stava cominciando ad apparire sotto le iridi. Il mare si stava increspando. Ma Kramer non riuscì a trattenersi. «Il fatto puro e semplice è che la giuria ha emesso un verdetto valido di rinvio a giudizio! Lei non… questa udienza non ha giurisdizione su…»
«Signor Kramer…»
«… sulle delibere emesse secondo diritto da una giuria!»
«GRAZIE PER IL SUO CONSIGLIO E PARERE, SIGNOR KRAMER!»
Kramer s'irrigidì, la bocca ancora aperta.
«Lasci che le ricordi» disse Kovitsky, «che io sono il giudice di controllo sulla giuria di cui parla, e non sono affatto entusiasta all'idea che la testimonianza di un teste chiave di questo caso possa essere stata alterata.»
Sempre schiumando rabbia, Kramer scosse la testa. «Niente di quello che questi due… individui», di nuovo additò Sherman, «dicono nel loro piccolo nido d'amore…» Scosse ancora la testa, troppo adirato per trovare le parole con cui finire la frase.
«A volte è così che viene fuori la verità, signor Kramer.»
«La verità! Due ricchi viziati, uno di loro tutto equipaggiato… provi a dirlo alla gente in aula, giudice!»
Appena le parole furono uscite di bocca, Kramer seppe di aver fatto un errore, ma era troppo tardi per trattenersi.
«… e alle migliaia di persone fuori da quella stanza aggrappate a ogni parola di questo caso giudiziario! Provi a dir loro…»
Si arrestò. Le iridi di Kovitsky scivolavano di nuovo sul mare in tempesta. Si aspettava che esplodesse un'altra volta, e invece egli fece qualcosa di ancora più irritante. Sorrise. A testa bassa, naso proteso, le iridi plananti sull'oceano, sorrideva. «Grazie, signor Kramer. Lo farò.» Nel momento in cui il giudice Kovitsky rientrò in aula, i manifestanti se la stavano scialando mica male, parlando a voce altissima, sghignazzando, gironzolando su e giù, facendo boccacce o altre cose tanto per far vedere al plotone di agenti giudiziari in camicia bianca chi comandava. Si calmarono un poco quando videro Kovitsky, ma più per curiosità che per altro. Si erano caricati al massimo.
Sherman e Killian si diressero al banco della difesa, quasi davanti al banco del giudice, e la cantilena in falsetto riprese.
«Sherrrr-maaaannnn…»
Kramer era al tavolo del cancelliere e stava parlando a un uomo bianco alto con un abito di gabardine di poco prezzo.
«È il più volte menzionato Bernie Fitzgibbon nel quale tu non hai fiducia» disse Killian. Sogghignava. Poi disse, indicando Kramer: «Tieni d'occhio quella faccia di merda».
Sherman fissò l'uomo senza capire.
Kovitsky non era ancora risalito sul suo banco. Era a tre o quattro metri di distanza e parlava con il segretario, l'uomo dai capelli rossi, il rumore nella sede del pubblico stava crescendo d'intensità. Kovitsky salì lentamente i gradini del podio senza guardare in direzione della folla. Si mise in piedi dietro al banco con gli occhi bassi, come se guardasse qualcosa sul pavimento.
All'improvviso… SBANG! Il martelletto! Scoppiò come bomba di carta.
«VOI! ZITTI E SEDUTI!»
I manifestanti si bloccarono per un attimo, colpiti dal volume impressionante della voce dell'ometto.
«COSÌ VOI INSISTETE… NELLO SFIDARE… LA VOLO-O-O.NTÀ… DI QUESTA CORTE?»
Si zittirono e cominciarono a prendere posto. Molto bene. Ora, nel caso del Popolo contro Sherman McCoy, la giuria d'accusa ha emesso un verdetto di rinvio a giudizio. In virtù del mio potere di supervisione e controllo sui procedimenti della giuria d'accusa dichiaro non valido quel verdetto nell'interesse della giustizia, senza pregiudizio e con facoltà di ripresentare il caso da parte del procuratore distrettuale.»
Vostro Onore!» Kramer era balzato in piedi, le braccia per aria!
«Signor Kramer…»
«Il suo atto porterà danno irreparabile non soltanto al caso del Popolo…»
«Signor Kramer…»
«… ma anche alla causa del Popolo. Vostro Onore, in quest'aula oggi…» fece un gesto verso la sezione del pubblico e i contestatori «ci sono molti membri della comunità coinvolti in modo vitale in questo caso, e non si conviene al sistema criminale della giustizia di questa contea…»
«SIGNOR KRAMER! A ME NON CONVENGONO I SUOI NON SI CONVIENE!»
«Vostro Onore…»
«SIGNOR KRAMER! LA CORTE VI ORDINA DI TACERE!»
Kramer alzò lo sguardo su Kovitsky a bocca spalancata, come se gli fosse stato tolto tutto il fiato.
«Adesso, signor Kramer..,»
Ma a Kramer era tornato il fiato. «Vostro Onore, esigo la registrazione per mostrare che la corte ha alzato la voce. Ha urlato, per essere precisi.»
«Signor Kramer… la Corte alzerà… PIÙ CHE LA VOCE! Che cosa le fa pensare di poter venire qui agitando la bandiera della pressione della comunità? La legge non è creatura dei pochi o dei molti. La Corte non è influenzata dalle sue minacce. La Corte conosce la sua condotta davanti al giudice Auerbach del tribunale penale. Lei agitò una petizione, signor Kramer! L'agitò per aria, la sventolò come una bandiera!» Kovitsk alzò la mano destra e l'agitò. «Lei è stato in TELEVISIONE, signor Kramer. Una disegnatrice le ha fatto un ritratto mentre brandiva la sua petizione come Robespierre o Danton, e lei era in TELEVISIONE! Lei ha recitato per la folla, vero? E qui in quest'aula ci sono ADESSO QUELLI CHE HANNO TANTO APPREZZATO la sua esibizione, signor Kramer. Be', ho una NOVITÀ per lei! Quelli che sono venuti in quest'aula agitando bandiere e stendardi… LI LASCINO!… SONO STATO ABBASTANZA CHIARO?»
«Vostro Onore. Io stavo soltanto…»
«SONO STATO ABBASTANZA CHIARO?»
«Sì, Vostro Onore.»
«E va bene. Ora, io dichiaro nullo il verdetto di rinvio a giudizio nel caso del Popolo contro McCoy con facoltà di riproporre giudizio.»
«Vostro Onore! Devo ripetere che tale atto danneggerebbe irreparabilmente l'azione del Popolo!» Kramer mitragliò le parole in modo che Kovitsky non potesse soverchiarle con la sua voce terribile. Kovitsky sembrò sorpreso dalla foga impetuosa della dichiarazione e dalla veemenza. Si irrigidì, e ciò dette ai manifestanti abbastanza coraggio per esplodere.
«Sììììììì!… Basta con la giustizia di Park Avenue!»
Uno schizzò dalla sua sedia, e poi un altro e un altro ancora. Quello alto con l'orecchino era in prima fila con il pugno alzato. «Vernice bianca!» gridò. «Vernice bianca!»
SBANG! Il martelletto esplose di nuovo. Kovitsky si alzò, appoggiò i gomiti sul tavolo e si chinò in avanti. «Gli agenti… PORTINO VIA QUELL'UOMO!» Con ciò, il braccio destro di Kovitsky scattò a indicare l'uomo alto con l'orecchino.
Due agenti in camicia bianca a maniche corte, con le calibro 38 sui fianchi, avanzarono verso di lui.
«Non può cacciare il Popolo!» urlò. «Non può cacciare il Popolo!»
«Già!» ammise Kovitsky. «Ma te sì.»
Gli agenti serrarono sull'uomo da entrambi i lati e presero a spingerlo verso l'uscita. Lui si girò verso i confratelli, ma questi parevano frastornati. Uggiolavano, si agitavano, ma non avevano il coraggio di rivoltarsi in massa contro Kovitsky.
SBANG!
«SILENZIO!» gridò Kovitsky. Quando la folla fu ragionevolmente tranquilla, Kovitsky guardò Fitzgibbon e Kramer. «L'udienza è chiusa.»
Gli spettatori si alzarono, e le vaghe proteste si mutarono in rabbiosa confusione mentre si dirigevano verso la porta d'uscita, lanciando occhiate risentite verso Kovitsky. Nove agenti giudiziari formarono una cintura tra gli spettatori e la sbarra divisoria. Due di loro appoggiavano la mano sul calcio della pistola. Ci furono urletti smorzati, ma Sherman non riuscì a individuarne l'origine. Killian si alzò e prese a camminare verso Kovitsky. Sherman lo seguì.
Un'enorme agitazione sul retro. Sherman piroettò su se stesso. Un uomo di colore alto aveva spezzato il cordone degli agenti. Era quello con l'orecchino d'oro, quello che Kovitsky aveva fatto espellere dall'aula. Evidentemente gli agenti lo avevano portato fuori dall'aula nell'atrio, ma ora lui era rientrato come una furia. Era già oltre la sbarra. Si stava dirigendo verso Kovitsky, con gli occhi fuori dalla testa.
«Ehi, vecchio coglione calvo! Ehi, vecchio coglione calvo!»
Tre agenti lasciarono il cordone che tentava di spingere i dimostranti fuori dall'aula. Uno di loro afferrò l'uomo alto per un braccio, ma lui si scansò.
«Giustizia di Park Avenue!»
I manifestanti presero a infilarsi nella breccia tra il cordone dei poliziotti, borbottando, bofonchiando e tentando di far capire com'erano feroci. Sherman li fissò, atterrito da quanto vedeva. Un senso di terrore… un'intuizione!… Ora comincia. Gli agenti arretrarono, nel tentativo di intromettersi tra la folla e il giudice e gli altri componenti del tribunale. 1 manifestanti si agitarono, urlarono, ringhiarono, si caricarono, tentando di far vedere quanto erano forti e coraggiosi.
«Buuuu!… Sìììììì!… Ehi! Goldberg!… Ehi, vecchio coglione calvo!…»
D'un tratto, proprio alla sua sinistra, Sherman vide la sagoma ossuta di Quigley. Si era unito alla schiera degli agenti. Cercava di ricacciare la folla. Aveva uno sguardo folle in volto.
«Okay, Jack, basta così. È tutto finito. Adesso tutti a casa, Jack.» Li chiama tutti Jack. È armato, ma la sua pistola resta nascosta, chissà dove, sotto la giacca sportiva. Gli agenti arretrano lievemente. Continuano a portare le mani verso la fondina sul fianco. Toccano il calcio della pistola, poi allontanano la mano, quasi spaventati da quel che potrebbe accadere in questa stanza se loro sfoderassero le armi e cominciassero a sparare.
A furia di spinte… un parapiglia terribile… Quigley!… Quigley afferra un manifestante per il polso, gli torce il braccio dietro la schiena e lo alza… Hiii!. lo prende a calci da dietro. Due degli agenti, quello chiamato Brucie e quello grasso con il rotolo di lardo sopra la vita, arretrano oltre Sherman, chini, le mani sulle pistole nelle fondine. Brucie urla sopra le sue spalle a Kovitsky: «Prenda il suo ascensore, giudice! Per l'amor di Dio, prenda l'ascensore!». Ma Kovitsky non si muove. Lancia occhiate di fuoco alla folla.
Quello alto, con l'orecchino d'oro, è sì e no a trenta centimetri dai due agenti. Non cerca neppure di oltrepassarli. Tiene ben alta la testa sul lungo collo e urla a Kovitsky: «Ehi, vecchio coglione calvo!».
«Sherman!» È Killian, al suo fianco. «Vieni, scendiamo con l'ascensore del giudice!» Ora sente Killian che lo spinge per il gomito, ma lui ha messo radici sul posto. Adesso comincia! Perché rimandare?
Una visione confusa. Lui alza lo sguardo. Una sagoma impazzita in tuta blu da lavoro sta arrivando di corsa verso di lui. Un viso contorto. Un enorme dito ossuto: «È finita, Park Avenue!».
Sherman si fa forza. D'un tratto… Quigley. Quigley si va a mettere tra loro due e con un sorriso folle piazza la sua faccia contro quella dell'uomo e dice: «Salve!».
Sorpreso, l'uomo lo fissa e in quel momento, sempre guardandolo direttamente negli occhi e sorridendo, Quigley solleva il suo piede sinistro e lo abbatte sull'alluce dell'uomo. Un urlo spaventoso.
Questo scatena la folla. Sì! Sì!… Prendetelo!… Prendetelo!… Spintona gli agenti. Brucie spinge il nero alto con l'orecchino. Barcollando, questi si sposta di lato. D'un tratto si trova proprio di fronte a Sherman. Lo fissa, stupito. Faccia a faccia! E ora? Lo fissa e basta. Sherman è paralizzato… spaventato a morte… Ora! Si abbassa, si gira su se stesso e mostra la schiena… ora!… ora comincia! Si volta e scaglia il pugno nel plesso solare dell'uomo.
«Ooooo!»
Il gran figlio di puttana sta crollando, con la bocca aperta, gli occhi fuori dalle orbite e il pomo d'Adamo in tumulto. Cade a terra.
«Sherman! Vieni via!» Killian lo spinge per il braccio. Ma Sherman è impietrito. Non riesce a distogliere gli occhi dall'uomo con l'orecchino d'oro. È a terra ripiegato su se stesso, ansimante. L'orecchino pende dal lobo con un'angolazione assurda.
Sherman viene spinto indietro da due sagome in lotta. Quigley. Quigley tiene un ragazzo bianco per il collo con una mano e pare volere fargli cozzare il naso contro il suo cranio. Il ragazzo bianco urla aaaaaaaahhìihhh aaaaahhhhhhh e sanguina tremendamente. Il naso è un budino sanguinante. Quigley grugnisce annnnnh unhnnnh annnnh. Fa cadere a terra il ragazzo bianco, poi gli piazza il tacco della scarpa sul braccio. Uno spaventoso aaaaah. Quigley prende Sherman per un braccio e lo spinge indietro.
«Su, su, Sherm!» Sherm. «Andiamocene via di qui, cazzo!»
Gli ho dato un pugno nello stomaco… ha fatto aaaaaah! ed è finito per terra. Un ultimo sguardo all'orecchino penzolante…
Adesso Quigley lo sta respingendo e Killian l'attira a sé.
«Su, su!» urla Killian. «Sei fuori di testa?»
C'era soltanto un piccolo semicerchio di agenti oltre a Quigley, tra la folla e Sherman, Killian, il giudice, il suo segretario e il cancelliere, che indietreggiavano stringendosi nella stanza del giudice, spalla contro spalla, a furia di spintoni. I manifestanti… ora avevano tanti motivi per essere fuori di sé! Uno di loro sta tentando di spingersi dentro la porta… Brucie non riesce a trattenerlo… Quigley… Ha estratto la sua pistola. La tiene alta in aria. Protende la faccia contro il facinoroso sulla soglia della stanza.
«Okay, frodo! Vuoi un altro buco nel tuo naso del cazzo?»
L'uomo si irrigidisce… come una statua. Non per la pistola. È lo sguardo sulla faccia di Quigley che lo colpisce.
Un colpo… due colpi… È quanto basta. L'agente con la grossa fascia di grasso tiene aperta la porta dell'ascensore del giudice. Stanno spingendo dentro tutti quanti… Kovitsky, il segretario, il robusto cancelliere, Killian. Sherman sta arretrando con Quigley, Brucie e Quigley gli coprono la ritirata. Tre agenti sono ancora nella stanza pronti a estrarre le armi. Ma la folla ha perso forza, ha perso il cuore. Quigley. Che sguardo in volto! Okay, frocio. Vuoi un altro buco nel tuo naso del cazzo?
L'ascensore comincia a scendere. Fa tremendamente caldo lì dentro. Stanno tutti pigiati. Aaaah, aaaaahh, aaaaaaahhhh. Sherman si rende conto che è proprio lui alla ricerca disperata di aria: lui e anche Quigley, e Brucie e l'altro agente, quello grasso. Aaaaaaah, aaaaahhhhhh, aaaaahhhhhhh, aaaaahhhh, aaaaahhhhhhhhh.
«Sherm!» È Quigley che parla tra un rantolo e l'altro. «Hai fatto fuori… quel pezzo di merda… Sherm! Tu… lo hai steso!»
È finito a tetra. Piegato in due. L'orecchino penzolante. Ora!… E io ho trionfato. È consumato da un terrore freddo… mi faranno fuori!… e da un'attesa spasmodica. Di nuovo! Voglio rifarlo!
«Non congratulatevi tra voi.» Era Kovitsky con voce bassa e severa. «È stato un autentico fiasco del cazzo. Non v'immaginate neppure com'è andata male. Non avrei dovuto chiudere l'udienza così in fretta. Avrei dovuto parlare a quella gente. Loro… non sanno. Non sanno neppure che cosa hanno fatto.»
«Giudice» disse Brucie, «non è ancora finita. Ci sono dimostranti nell'atrio e fuori dal palazzo.»
«Dove sono all'esterno?»
«Soprattutto sui gradini della Centosessantunesima Strada, ma ce n'è anche in Walton Avenue. Dov'è la sua auto, giudice?»
«Al solito posto. Nella fossa.»
«Forse qualcuno di noi dovrebbe portargliela all'ingresso del Concourse.»
Kovitsky ci pensò un attimo. «Con il cavolo. Non gli voglio dare questa soddisfazione.»
«Non se ne accorgerebbero neppure, giudice. Non voglio allarmarla, ma sono già anche là fuori… e parlano di lei.. Hanno un sistema per comunicare e tutto quanto.»
«Ah, sì?» disse Kovitsky. «Hanno mai sentito parlare di ostruzione all'amministrazione statale?»
«Non penso che abbiano mai sentito altro che l'idea di far casino, ma quello sanno come farlo.»
«Be', grazie, Brucie» Kovitsky cominciò a sorridere. Si rivolse a Killian. «Si ricorda quando le ho ordinato di lasciare l'ascensore del giudice? Non ricordo neppure come ha fatto a salire.»
Killian sorrise e annuì.
«Lei non usciva, e io dissi che l'avrei condannata per vilipendio. E lei disse: "Vilipendio di cosa? Vilipendio dell'ascensore?". Se ne ricorda?»
«Oh, lei fa bene a credere che io me ne ricordi, giudice, ma io ho sempre sperato che non lo facesse.»
«Sa che cosa mi fece arrabbiare? Lei aveva ragione. Era questo che mi bruciava dentro.»
Ancora prima di essere al primo piano, sentirono il terribile BRAAAANNNNNNG! dell'allarme.
«Cristo! Chi è lo stronzo che l'ha azionato?» disse Brucie. «Chi cavolo pensano di richiamare? Tutti gli agenti del palazzo sono già ai loro posti.»
Kovitsky era di nuovo cupo. Scuoteva la testa. Sembrava così piccolo, un omettino calvo e ossuto in una toga nera voluminosa, rannicchiato in quest'ascensore soffocante. «Non sanno come è grave tutto questo. Non lo sanno proprio, cazzo… Io sono il loro solo amico, il solo…»
Quando la porta dell'ascensore si aprì, il rumore dell'allarme… BRAAAANNNNNNGGGGG!… era insopportabile. Emersero in un piccolo vestibolo. Una porta dava sulla strada. Un'altra clava sull'atrio di pianterreno dell'isola fortezza. Brucie urlò a Sherman: «Come pensa di uscire da qui?».
Quigley rispose: «Abbiamo una macchina, ma Dio solo sa dov'è. Quell'autista del cazzo era terrorizzato quando siamo arrivati qua».
Brucie disse: «Dove dovrebbe essere?».
Quigley rispose: «All'entrata di Walton Avenue, ma se conosco quel finocchio, sarà già quasi a Candy, cazzo».
«Candy?»
«Viene da quella città del cazzo, a Ceylon: Candy. Più ci avviciniamo a questo palazzo del cazzo, più si mette a parlare della città del cazzo da dove viene, Candy. Quella città del cazzo si chiama Candy.»
Gli occhi di Brucie si spalancarono, e urlò: «Ehi, giudice!».
Kovitsky stava dirigendosi verso la porta che conduceva al corridoio interno del palazzo.
«Giudice! Non vada là! Sono dappertutto!»
Ora! Di nuovo! Sherman partì di corsa dietro alla piccola sagoma in nero.
La voce di Killian: «Sherman! Che cosa cavolo fai?».
La voce di Quigley: «Sherm! Gesù Cristo!».
Sherman si trovò in un vasto atrio di marmo riempito dal suono stupendo dell'allarme. Kovitsky era sempre davanti a lui, e camminava così svelto che la toga svolazzava. Sembrava un corvo che cerca di spiccare il volo. Sherman si mise al trotto nel tentativo di raggiungerlo. Una sagoma lo superò. Brucie.
«Giudice! Giudice!»
Brucie raggiunse Kovitsky e cercò di afferrargli il braccio sinistro. Ora Sherman era alle loro spalle. Con un gesto di stizza Kovitsky allontanò il braccio dell'agente.
«Giudice, dove va? Che cosa fa?»
«Devo parlare a quella gente!» disse Kovitsky.
«Giudice, l'ammazzeranno!»
«Devo parlargli!»
Sherman si rese conto che ora gli altri stavano sopraggiungendo su entrambi i lati, di corsa… l'agente grasso… Killian… Quigley. Tutti i volti nel corridoio si fermarono a guardare, tentando di capire che cosa mai stessero vedendo… il piccolo giudice furibondo in toga nera con i suoi battistrada che gli correvano al fianco gridando: «Giudice! Non lo faccia!».
Urla nel corridoio… È lui!… Tu! Figlio di troia! BRAAAANNNNNGGG!… L'allarme investiva tutti con le sue ondate d'urto.
Brucie cercò di nuovo di fermare Kovitsky. «Lascia andare il Mio BRACCIO! CAZZO!» urlò Kovitsky «È UN ORDINE, BRUCIE, CAZZO!»
Sherman si rimise a trottare per stare al passo. Era solo mezzo passo dietro al giudice. Sciolto i volti nel corridoio. Ora!… di nuovo! Fecero una svolta a gomito. Adesso erano nel grande salone che portava al terrazzo dominante la Centosessantunesima Strada. Cinquanta o sessanta spettatori, cinquanta o sessanta facce rapite erano nella sala, e guardavano verso il terrazzo. Attraverso le porte a vetri Shennan vide le sagome di molte persone.
Kovitsky arrivò alle porte e ne aprì una, poi fece una pausa, BRRANNNNGGG! Brucie urlò: «Non vada lì fuori, giudice! La prego!».
In mezzo al terrazzo c'era un microfono sopra un sostegno, di quelli che in genere si trovano su un podio per orchestra. Al microfono c'era un uomo di colore alto con un abito nero e una camicia bianca. Neri e bianchi si accalcavano ai lati. Una donna bianca dai capelli grigio-biondi ispidi gli stava vicino. Una folla compatta, di bianchi e di neri, stava sul terrazzo e sulle scale che portavano al terrazzo dai due lati. A giudicare dal rumore, altre centinaia, forse migliaia di persone erano sulla grandiosa scalinata e il marciapiede sottostante nella Centosessantunesima Strada. Poi Sherman capì chi era l'uomo alto al microfono. Il reverendo Bacon.
Parlava alla folla con voce baritonale e controllata, come se ogni parola fosse un'ulteriore mossa risoluta del fato.
«Noi abbiamo riposto fiducia in questa società… e in questa struttura di potere… e che cosa abbiamo avuto?» Gran vociare e urla di rabbia dalla folla. «Abbiamo creduto alle loro promesse… e che cosa abbiamo avuto?» Urla, grida gutturali, gemiti. «Abbiamo creduto alla loro giustizia. Ci hanno detto che la giustizia è cieca. Ci hanno detto che la giustizia era una donna cieca… una donna imparziale… capite? E che questa donna non conosceva il colore della vostra pelle. E chi risulta essere, alla fine, questa donna? Qual è il suo nome? Quando gioca i suoi menzogneri giochi razzisti, qual è il suo volto?» Urla, buu, ululati, insulti sanguinosi: «.Conosciamo il nome… MY-RON KO-VIT-SKY!». Ululati, urla di scherno; un colossale latrato ritmato si alzò dalla massa, MY-RON KO-VIT-SKY. Il rumore si mutò in ruggito. «Ma noi possiamo attendere, fratelli e sorelle… possiamo attendere… Abbiamo atteso tanto a lungo, e non abbiamo altro posto dove andare, POSSIAMO ATTENDERE!… Possiamo attendere che i tirapiedi della struttura di potere mostrino i loro volti. Lui è qui! Lui è qui!» Bacon teneva il volto rivolto al microfono e alla folla, ma mosse il braccio e l'indice dietro di lui in direzione del palazzo. «E lui sa che la gente è qui, perché… lui… non… è… cieco… Lui vive nella paura su questa isola, nel possente mare di gente, poiché sa che la gente… e la giustizia!… lo attendono. E non c'è via di fuga!» La folla ruggì, e Bacon si chinò da un lato per un attimo mentre la donna dai capelli ispidi grigio-biondi gli mormorava qualcosa all'orecchio.
In quel momento Kovitsky aprì tutt'e due le porte davanti a sé. La toga si aprì sfarfallando in due enormi ali nere.
«Giudice! Per l'amor di Dio!»
Kovitsky si fermò sulla soglia, le braccia in fuori. Il momento si prolungò… si prolungò… Le braccia caddero. Le ali svolazzanti crollarono contro il fragile corpo. Si girò e rientrò nel salone. Aveva gli occhi bassi e borbottava tra sé.
«Il solo amico loro, il solo amico del cazzo.» Guardò l'agente. «Okay, Brucie, andiamo.»
No! Adesso! Sherman urlò: «No, giudice! Lo faccia! Verrò con lei!».
Kovitsky ruotò su se stesso e guardò Sherman. Evidentemente non si era neppure accorto che lui fosse lì. Un fiero cipiglio. «Cosa diavolo…»
«Lo faccia!» disse Sherman. «Lo faccia, giudice!»
Kovitsky lo guardò, e basta. Dietro le pressioni di Brucie, stavano tutti tornando sui loro passi nel corridoio, a un buon ritmo. I corridoi erano molto più affollati… una folla brutta da vedere.
È Kovitsky! E lui! Urla… un tremendo rimbombo… BRRAAANNNGG!… L'allarme colpiva, colpiva e rimbalzava sul pavimento di marmo, raddoppiando, triplicando d'intensità. Un uomo più anziano, non un contestatore, arrivò di fianco, come se volesse affrontare Kovitsky, puntando l'indice e urlando: «Tu…». Sherman gli si avventò contro e urlò: «Leva di torno la tua faccia di merda!». L'uomo fece un salto indietro, la bocca aperta. L'espressione… atterrita! Ora!… Di nuovo!… mollagli un pugno nello stomaco, riducigli il naso in poltiglia, cacciagli un piede negli occhi!… Sherman si voltò a guardare Kovitsky. Kovitsky lo fissava come si guarda un pazzo. Lo stesso faceva Killian. Come pure gli agenti.
«È fuori di testa?» gridò Kovitsky. «Vuole farsi ammazzare?»
«Giudice» disse Sherman, «non m'importa! Non m'importa!»
Sorrise. Percepì il labbro superiore che si tendeva lungo i denti. Lasciò uscire una breve risata sgradevole. Priva di guida, la folla nel corridoio arretrava addirittura, incerta sul da farsi, non sapendo con chi aveva a che fare. Sherman scrutò le loro facce, quasi per annientarle con i soli occhi. Era spaventato… e prontissimo!… di nuovo!
Il piccolo plotone batté in ritirata per l'atrio di marmo.