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Il re della giungla

Thumpatliumpatlutmpathumpathumpatumpathumpa: il rumore degli aerei al decollo era così martellante che. quasi se lo sentiva piombare addosso. L'aria era satura di gas di scarico. L'odore violento lo prendeva allo stomaco. Le auto balzavano continuamente fuori dalla bocca di una rampa e si facevano strada a fatica tra la folla che sciamava nella penombra, alla ricerca di ascensori, della propria auto e dell'auto altrui - al ladro! al ladro! al ladro! - e, in questo campo, la sua auto sarebbe stata la candidata con il maggior numero di preferenze, vero? Sherman stava in piedi, con una mano appoggiata alla portiera, e si chiedeva se avrebbe osato lasciarla in quel luogo. L'auto era una Mercedes sportiva nera a due posti, costata quarantottomila dollari o centoventimila, secondo i punti di vista, a seconda, cioè, di come si valutava il suo guadagno. Nella categoria fiscale di un Padrone dell'Universo, tra tasse federali, tasse dello Stato di New York e tasse della città di New York, Sherman doveva guadagnare centoventimila dollari perché gliene restassero quarantottomila da spendere per una macchina sportiva a due posti. Che spiegazione avrebbe mai dato a Judy se l'automobile fosse stata rubata quassù, in un terminal dell'aeroporto Kennedy?

Be', perché avrebbe dovuto darle una spiegazione, dopotutto? Aveva cenato a casa tutte le sere per un'intera settimana. Era la prima volta che succedeva da quando lavorava per la Pierce & Pierce. Si era occupato intensamente di Campbell, e una sera aveva passato insieme a lei più di quarantacinque minuti, cosa del tutto insolita, anche se si sarebbe stupito e offeso se qualcuno gliel'avesse fatto notare. Aveva aggiustato l'impianto elettrico della biblioteca senza sbuffare e sospirare. Dopo tre giorni di comportamento esemplare da parte sua, Judy aveva abbandonato la dormeuse nello spogliatoio per far ritorno alla stanza da letto comune. Per la verità, ora il Muro di Berlino correva lungo il centro del letto, e lei non gli concedeva neppure una parvenza di chiacchiere confidenziali. Ma era sempre gentile e civile con lui, quando c'era Campbell insieme a loro. E, per lui, questa era la cosa più importante.

Due ore prima, quando aveva telefonato a Judy per dirle che avrebbe lavorato fino a tardi, lei non se l'era presa affatto. Be', se l'era meritato! Lanciò un ultimo sguardo alla Mercedes e si avviò verso l'area degli arrivi internazionali.

Era nelle viscere dell'edificio, in quello che in origine doveva essere stato progettato come un deposito bagagli. Luci fluorescenti lottavano contro lo squallore dell'ambiente. La gente si accalcava dietro uno sbarramento metallico, in attesa che i passeggeri provenienti dall'estero emergessero dalla dogana. E se ci fosse stato qualcuno, lì, che conosceva lui e Judy? Studiò la folla. Pantaloni corti, scarpe da tennis, jeans, maglie da football… Cristo, ma chi era questa gente? A uno a uno i passeggeri si liberavano dalla dogana. Tute sportive, magliette, giacche a vento, calzettoni, giacconi foderati, berretti da baseball e canottiere. Appena arrivati da Roma, Milano, Parigi, Bruxelles, Monaco e Londra: i giramondo, i cosmopoliti. Sherman protese il suo mento Yale contro la corrente.

Quando finalmente comparve Maria, non fu difficile individuarla. In mezzo a quella folla pareva un essere proveniente da un'altra galassia. Indossava una gonna e una giacca dalle spalle larghe di un blu mare che era di moda in Francia, una camicetta a strisce azzurre e bianche, scarpe scollate di lucertola blu elettrico con le punte di vitello bianche. Il solo costo della camicetta e delle scarpe sarebbe bastato a coprire la spesa per gli indumenti di una ventina di donne tra quelle presenti nel salone. Camminava naso all'aria, fianchi flessuosi e passo lungo da indossatrice, appositamente studiato per provocare invidia e risentimento massimi. La gente la fissava. Di fianco a lei incedeva un facchino con un carrello d'alluminio sovraccarico di bagaglio, una quantità davvero prodigiosa: un set completo di valigie e borse in pelle color panna con guarnizioni color cioccolato ai bordi. Volgare, ma non come le Vuitton, pensò Sherman. Era stata soltanto per una settimana in Italia a cercare una casa sul lago di Como per l'estate. Non riusciva a capire perché si fosse portata tanto bagaglio. (Inconsciamente associava un tale atteggiamento a un'educazione permissiva e trascurata.) Si domandò come avrebbe fatto a caricare tutto sulla Mercedes.

Aggirò lo sbarramento e le si avvicinò. Raddrizzò le spalle.

«Ciao, bambina» disse.

«Bambina?» rispose Maria. Sorrise, come se non fosse proprio seccata, ma, ovviamente, lo era. Per la verità non l'aveva mai chiamata "bambina" prima. Aveva voluto apparire confidenziale e disinvolto, come un Padrone dell'Universo che incontra la sua ragazza in un aeroporto.

La prese per un braccio e si mise al passo con lei, poi decise di riprovarci: «Com'è andato il volo?».

«È stato stupendo» disse Maria, «se non t'importa di essere scocciata da un inglese per sei ore.» Guardò fisso in lontananza, come se riflettesse sulla tenibile prova cui era stata sottoposta.

Fuori, la Mercedes era sopravvissuta alla moltitudine di ladri. Il facchino non riuscì a sistemare molte valigie nel piccolo baule dell'auto sportiva. Ne dovette accatastare una buona metà, dunque, sul sedile posteriore, che non era molto più vasto di una mensola imbottita. Grandioso, pensò Sherman, se mi tocca frenare di botto, verrò colpito alla base del cranio da una serie omogenea di valigie color panna e cioccolato.

Quando furono usciti dall'aeroporto ed entrati nella Van Wyck Express Way in direzione di Manhattan, soltanto l'ultimo fioco chiarore della luce del sole era visibile oltre gli edifici e gli alberi del South Ozone Park. Era l'ora del crepuscolo in cui si accendono i lampioni e i fari, ma non fanno grande differenza. Un fiume di luci posteriori rosse procedeva davanti a loro. Su un lato della strada, subito dopo il Rockaway Boulevard, Sherman vide un'enorme bellina a due porte, un tipo d'auto che si faceva negli anni Settanta, finita contro un muro di sostegno. Un uomo disteso a braccia e gambe aperte sull'autostrada! No, quando furono più vicini, si accorse che non era affatto un uomo. Era il cofano di una vettura. L'intero cofano era stato scardinato e giaceva ora sull'asfalto. Ruote, sedili e volante erano spariti. L'enorme relitto faceva ormai parte del paesaggio. Sherman, Maria, il bagaglio e la Mercedes continuarono a marciare.

Lui tentò un'altra volta. «Be', com'era Milano? Cosa succede sul lago di Como?»

«Sherman, chi è Christopher Marlowe?»

Christopher Marlowe? «Non so. Lo conosco?»

«Io parlo di uno scrittore.»

«Vuoi dire il commediografo?»

«Penso di sì. Chi era?» Maria continuava a guardare fisso davanti a sé. Pareva che fosse morto il suo ultimo amico.

«Christopher Marlowe… Era un autore di teatro inglese, più o meno al tempo di Shakespeare, penso. Forse un po' prima. Perché?»

«E cioè quando?» Lei pareva affranta, infelice.

«Vediamo un po'. Non so. Nel XVI secolo… o qualcosa di simile. Perché?»

«Che cosa ha scritto?»

«Oh, Dio! Chi lo sa. Senti, mi sembrava già abbastanza ricordare chi era. Perché?»

«Sì, ma almeno sai chi era.»

«Appena appena. Perché?»

«E cosa sai del dottor Faustus?»

«Il dottor Faustus?»

«Ha scritto qualcosa sul dottor Faustus?»

«Mmmmmmmmm!» Un breve lampo di memoria che subito si spense. «Forse, forse. Il dottor Faustus… L'ebreo di Malta! Ha scritto un dramma intitolato L'ebreo di Malta. Ne sono quasi sicuro, sì. L'ebreo di Malta. Non so neppure come faccio a ricordarmelo: L'ebreo di Malta. Sono certo di non averlo mai letto.»

«Ma tu sai chi era. È una di quelle cose che uno dovrebbe sapere, no?»

E qui lei aveva messo il dito nella piaga. L'unica nozione rimasta ben piantata nel cervello di Sherman su Christopher Marlowe, dopo nove anni a Buckley, quattro anni a St. Paul's, e quattro anni a Yale, era che sinceramente uno dovrebbe sapere chi è Christopher Marlowe. Ma non lo disse.

Chiese, invece: «Chi dovrebbe saperlo?».

«Tutti» mormorò Maria. «Io.»

Si stava facendo buio. Gli stupendi quadranti della Mercedes ora erano illuminati come quelli di un caccia. Stavano avvicinandosi al sovrappasso di Atlantic Avenue. A lato della strada c'era un'altra carcassa di auto abbandonata. Le ruote erano sparite, il cofano era aperto, e due ombre, una reggeva una torcia, erano immerse nell'abitacolo del motore.

Maria continuava a fissare il vuoto davanti a sé quando si unirono al traffico della Grand Central Parkway. Una galassia di luci di testa e di coda fluenti all'infinito riempì il loro campo visivo, come se l'energia della città si fosse adesso trasformata in milioni di sfere di luci orbitanti nel buio. Lì, dentro la Mercedes, con i finestrini serrati, l'intero magnifico spettacolo veniva incontro planando, senza suono.

«Sai una cosa, Sherman?» Shahman. «Odio gli inglesi. Li odio.»

«Odi Christopher Marlowe?»

«Grazie tante, intelligentone» disse Maria. «Parli proprio come il rompiballe che mi stava seduto vicino.»

Ora guardava Sherman sorridendo. Un sorriso di quelli che si accennano, coraggiosamente, in presenza di una grande sofferenza. I suoi occhi parevano sul punto di far sgorgare le lacrime.

«Quale rompiballe?» chiese lui.

«Sull'aereo. Quell'inglese.» Sinonimo di verme. «Si è messo a parlare con me. Io stavo guardando il catalogo della mostra di Reiner Fetting che ho visto a Milano.» A Sherman dette fastidio che usasse l'italiano Milano, al posto dell'inglese Milan, soprattutto perché lui non aveva mai sentito parlare di Reiner Fetting. «Quello incomincia a parlare di Reiner Fetting. Aveva un Rolex d'oro, uno di quegli orologi enormi. È un miracolo se chi lo porta riesce ad alzare il braccio, no?» Aveva il vezzo delle ragazze del Sud di mutare frasi esclamative in frasi interrogative.

«Pensi che facesse scena?»

Maria sorrise, questa volta con piacere. «Ma certo!»

Il sorriso provocò in Sherman un grande sollievo. L'incantesimo si era rotto. Anche se non ne sapeva il perché. Non si rendeva conto che esistevano delle donne che pensavano alle attrattive sessuali nello stesso modo in cui lui pensava al mercato obbligazionario. Sapeva soltanto che l'incantesimo malefico si era rotto e che un gran peso era stato tolto di mezzo. Non avevano più molta importanza le sue chiacchiere. E di chiacchiere ne fece tante seguitando a rimuginare sugli oltraggi patiti in volo.

«Non ha potuto fare a meno di dirmi subito che era un produttore cinematografico. Stava facendo un film basato su quella commedia là: Doctor Faustus, di Christopher Marlowe, o Marlowe e basta, sì forse ha detto così, Marlowe e basta, e non so neanche perché ho parlato, ma, insomma, mi è venuto in mente che un certo Marlowe scriveva per il cinema. Anzi, credo proprio di aver ricordato un film dove c'era un personaggio che si chiamava Marlowe. E c'era Robert Mitchum.»

«Esatto. Era un romanzo di Raymond Chandler.»

Maria lo guardò con occhi lontanissimi e assenti. Lui lasciò perdere Raymond Chandler. «Insomma, che cosa gli hai detto?»

«Gli ho detto: "Oh, Christopher Marlowe. Non ha scritto un film?". E sai cosa mi ha risposto quel… bastardo? Mi ha detto: "Penso proprio di no. È morto nel 1593". Penso proprio di no.»

Al ricordo, gli occhi di Maria fiammeggiarono. Sherman attese un attimo. «E allora?»

«E allora? Avrei voluto strangolarlo. Era… umiliante… Penso proprio di no. Che arroganza tremenda, no?»

«Che cosa gli hai detto tu?»

«Niente. Sono arrossita. Non sono riuscita a dire una parola.»

«Ed è per questo che sei di questo umore?»

«Sherman, dimmi la verità vera. Se non sai chi è Christopher Marlowe, sei uno stupido?»

«Oh, per l'amor di Dio, Maria! Non mi pare possibile che questa sciocchezza ti abbia messo di un umore simile.»

«Quale umore?»

«L'umore depresso che hai.»

«Non mi hai risposto. Sherman. Non saperlo fa di te uno stupido?»

«Non dire sciocchezze. Sono appena riuscito a ricordarmi chi era, e probabilmente solo perché me l'hanno fatto studiare a scuola.»

«Be', questo è il punto. Tu almeno l'hai studiato a scuola. Io no, per niente. È questo che mi fa sentire così… Tu non capisci nemmeno di che cosa sto parlando, vero?»

«No di certo.» Le sorrise, e lei gli restituì il sorriso. Stavano passando davanti all'aeroporto La Guardia illuminato da centinaia di luci al vapore di sodio. Non aveva l'aspetto di un grande portone verso il cielo. Pareva piuttosto una fabbrica. Sherman si portò all'esterno, pigiò sull'acceleratore e spinse la Mercedes a tutta velocità sotto il cavalcavia della Trentunesima Strada e poi sulla rampa che porta al Ponte di Triborough. Lei non era più depressa. Si sentì di nuovo contento di sé. Aveva tirato su di morale Maria. La Mercedes risaliva la grande arcata del ponte, e sulla sinistra si vedeva l'isola di Manhattan. I grattacieli erano raggruppati così strettamente che se ne poteva percepire la massa compatta e il peso stupendo. Pensate soltanto ai milioni sparsi in tutto il globo che aspirano a stare su quest'isola, in questi grattacieli, in queste strade strette! Eccola lì: la Roma, la Parigi, la Londra del XX secolo, la città dell'ambizione, la roccia densa e magnetica, l'irresistibile destinazione di tutti quelli che insistono per essere dove le cose che contano avvengono… e lui, Sherman, era tra i vincitori! Abitava in Park Avenue, la strada dei sogni! Lavorava a Wall Street, al cinquantesimo piano, per la leggendaria Pierce & Pierce, e dominava il mondo! Era al volante di un'auto sportiva da quarantottomila dollari insieme a una delle più belle donne di New York… forse non coltissima in letteratura, ma splendida veramente! Un giovane animale scalpitante! Faceva parte, lui, di quella razza il cui destino naturale era di ottenere quel che voleva!

Levò una mano dal volante e fece un ampio gesto verso la possente isola.

«Eccola là, bambina!»

«Siamo tornati alla bambina, eh?»

«Mi va di chiamarti bambina, bambina. New York City. Eccola là.»

«Ti sembro davvero un tipo "bambina"?»

«Come no, bambinissima, Maria. Dove vorresti cenare? È tutta tua. New York City.»

«Sherman! Ma non dovresti svoltare qui?»

Lui guardò a destra. Era vero. Era due corsie a sinistra di quelle che portavano all'uscita per Manhattan, e non era possibile tagliare. Ormai quella corsia, la corsia vicina, la corsia subito dopo… ogni corsia… era una fila continua di auto e autocarri, paraurti contro paraurti, che avanzavano lentissimi verso una barriera di esazione cento metri più avanti. Sopra la barriera c'era un grande cartello verde, illuminato da fari gialli, che diceva BRONX NORD N.Y. NEW ENGLAND.

«Sherman, sono sicura che quella era l'uscita per Manhattan.»

«Hai ragione, tesoro, ma non c'è alcuna possibilità di andarci, ormai.»

«E questa dove porta?»

«Al Bronx.»

Le file di auto si avvicinavano sempre più lentamente, in una nuvola di particelle di carbonio e di zolfo, alle uscite a pagamento.

La Mercedes era così bassa che Sherman dovette sollevarsi dal sedile per porgere due dollari verso la cabina. Un nero dall'aria stanca lo fissò dal finestrino di un'altissima gruccia. Qualche cosa aveva prodotto uno sfregio sul fianco della cabina.

Un vago senso di spiacevole disagio s'insinuò nella testa di Sherman. Era nato e cresciuto a New York e si faceva vanto virile di conoscere la città. Io conosco la città. Ma in realtà la sua familiarità con il Bronx, nel corso dei suoi trentotto anni, derivava da cinque o sei gite allo zoo del Bronx, due ai giardini botanici, e forse una dozzina di spedizioni allo Yankee Stadium, l'ultima nel 1977 per un incontro delle World Series. Sapeva che il Bronx aveva strade numerate, in pratica una continuazione di quelle di Manhattan. Non poteva essere un guaio tanto grande. Non doveva far altro che… Be', doveva prendere una strada traversa e seguirla verso ovest fino a raggiungere una delle arterie che riportavano a Manhattan. No, non doveva essere un'impresa impossibile.

La marea delle luci rosse di coda fluiva davanti a loro, ma ora gli dava fastidio. Nell'oscurità, in mezzo allo sciamare delle luci rosse, non riusciva a ritrovarsi. Il suo senso dell'orientamento era in pericolo. Forse stava ancora dirigendosi verso nord. La parte in discesa del ponte non si era abbassata di molto. Ma ora erano rimasti soltanto cartelli e segnaletica orizzontale da seguire. Tutti i suoi riferimenti personali erano spariti, dimenticati. Alla fine del ponte l'autostrada si divideva a Y. MAJOR DEEGAN GEO. WASHINGTON BRIDGE BRUCKNER NEW ENGLAND. La Major Deegan andava a nord. No! Girare a destra… All'improvviso un'altra Y… EAST BRONX NEW ENGLAND EAST 138TH BRUCKNER BOULEVARD. Scegli, cretino! Uno di qua, due di là… uno, due… Voltò ancora a destra: EAST 138TH: una rampa d'uscita… All'improvviso non c'era più un raccordo, un'autostrada delimitata con chiarezza. Si trovava a un livello più basso. Come se fosse caduto in un deposito di rottami. Forse era sotto l'autostrada urbana. In piena oscurità intravide una barriera anticiclonica sulla sinistra: qualcosa era imprigionato là dentro. Una testa di donna! No, era una sedia con tre gambe e un fondo bruciato con l'imbottitura carbonizzata fuoriuscente in grossi batuffoli. Ma chi diavolo poteva incastrare una sedia nella rete di una barriera anticiclone? E perché?

«Dove siamo, Sherman?»

Dal tono della voce di lei, Sherman fu certo che non ci sarebbero state altre discussioni su Christopher Marlowe o sul locale dove cenare.

«Siamo nel Bronx.»

«Sai come uscire di qui?»

«Certo. Se solo riesco a trovare una traversa. Vediamo, vediamo, vediamo… Centotrentottesima Strada…»

Stavano viaggiando sempre sotto l'autostrada. Ma quale? Due corsie, tutte e due dirette a nord. Sulla sinistra un muro di sostegno e protezioni anticicloniche ai piloni di cemento armato che sostenevano l'autostrada. Si doveva andare verso ovest per trovare una strada che li riportasse a Manhattan… girare a sinistra… ma lui non poteva girare a sinistra per via del muro. Vediamo, vediamo… Centotrentottesima Strada… Dov'è? Eccola! Il cartello: CENTOTRENTOTTESIMA STRADA. Si portò sulla sinistra, per svoltare… C'era un'ampia apertura nel muro.. Centotrentottesima Strada… Ma non era possibile girare a sinistra! Alla sua sinistra c'erano ancora quattro o cinque corsie di traffico sotto l'autostrada, due dirette a nord, due a sud, e un'altra ancora al di là, auto e camion a tutta velocità nelle due direzioni. Impossibile aprirsi un varco nel traffico. E così continuò ad andare avanti nel Bronx. Si profilò un'altra breccia nel muro. Procedette lungo la corsia di destra. Stessa situazione! Impossibile girare a sinistra! Cominciò a sentirsi intrappolato lì, nella desolazione e nello squallore, sotto l'autostrada. Ma che pericolo poteva esserci? Un sacco di traffico…

«Che cosa stiamo facendo, Sherman?»

«Sto cercando di girare a sinistra, ma è impossibile in questa strada schifosa. Dovrò girare a destra un po' più su e fare una svolta a U o qualcosa del genere, e tornare indietro.»

Maria non fece commenti. Sherman le diede un'occhiata. Lei guardava davanti a sé, con espressione triste. Sulla destra, sopra alcune case decrepite, vide un cartellone che diceva

IL MIGLIORE NEL BRONX

GROSSISTA DI CARNI

Grossista di carne nel Bronx! Un'altra apertura nel muro un po' più in là. Questa volta cominciò a spostarsi sulla destra. Un potente colpo di clacson! Un autocarro lo sorpassò sulla destra, lui scartò sulla sinistra.

«Sherman!»

«Mi spiace, bambina.»

Troppo tardi per girare a destra. Proseguì diritto, tenendosi sulla destra della corsia di destra, pronto a svoltare. Un'altra apertura, svoltò a destra… una strada larga. E all'improvviso una marea di gente: una buona metà sembrava passeggiare in mezzo alla strada. Erano di pelle scura ma sembravano latini: portoricani forse? Più in là un lungo edificio basso con abbaini a pettine come uno chalet svizzero da racconti di fiaba, ma tremendamente annerito. Più in là un bar… lo vedeva… semichiuso da saracinesche metalliche. Un sacco di gente per strada… Rallentò. Case d'abitazione basse, mancanti qua e là di finestre, i telai in rovina. Un semaforo rosso. Si fermò. Vide Maria girare la testa da una parte e dall'altra. «Oooooaaaaaff!» Un urlo tremendo a sinistra. Un giovanotto con baffi arruffati e camicia sportiva camminava in mezzo alla strada. Una ragazza gli correva dietro gridando. «Oooooaaaf!» Faccia scura, capelli biondi crespi. Gli mise le mani attorno al collo, ma al rallentatole, come se fosse ubriaca. «Oooooooaaaaff!» Cercava di strozzarlo! Lui neppure la guardava. Le piazzò solo un gomito nello stomaco. Lei si allontanò da lui barcollando. Era a terra carponi. Lui continuava a camminare. Non guardava mai indietro. Lei si alzò. Si scagliò di nuovo su di lui. «Oooooaaaff!» Adesso erano proprio davanti all'auto. Sherman e Maria dai loro sedili di pelle scura li fissavano. La ragazza aveva preso di nuovo per il collo il suo uomo. Lui le diede un altro colpo di gomito alla vita. Il semaforo diventò verde, ma Sherman non poteva muoversi. Si era raccolta gente intorno ai due per seguire il litigio. Molti ridevano. Si divertivano e gridavano, erano allegri. Lei gli tirò i capelli. Lui fece una smorfia e la spinse all'indietro con entrambi i gomiti. C'era gente dappertutto. Sherman guardò Maria. Nessuno dei due aveva da dire una parola. Due bianchi, di cui uno era una giovane donna abbigliata con una giacca blu scuro dell'Avenue Foch, a spalle larghe e imbottite, bagaglio adeguato sul sedile posteriore in quantità sufficiente per un viaggio in Cina, una Mercedes sport da quarantottomila dollari nel bel mezzo del Bronx meridionale. Miracoloso! Nessuno prestava attenzione a loro. Un'auto come un'altra, ferma al semaforo. I due litiganti pian piano scivolarono verso l'altro lato della strada. Ora si tenevano come lottatori di sumo, affrontandosi. Barcollarono, si mossero a zig-zag. Erano stanchi morti. Boccheggiarono. Erano alla fine. A questo punto avrebbero potuto anche ballare. La folla stava perdendo interesse alla cosa, se ne andava.

Sherman disse a Maria: «Amore vero, bambina». Voleva farle credere di non essere preoccupato.

Adesso davanti all'automobile non c'era più nessuno, ma il semaforo era di nuovo rosso. Aspettò il verde, poi proseguì dritto. Ora non c'era molta gente: la strada era larga. Fece una inversione a U, ripercorse in senso contrario la strada da cui erano venuti.

«Che cosa facciamo, Sherman?»

«Siamo a posto, penso. Questa è una traversa importante. Stiamo andando nella direzione giusta. Verso ovest.»

Ma quando ebbero attraversato la grande strada principale sotto l'autostrada, si trovarono a un incrocio caotico. Diverse strade convergevano lì con angolazioni irregolari. C'era gente che attraversava in ogni direzione. Facce scure. Di qua un'entrata della sotterranea. Di là edifici bassi, negozi. Cibo cinese da asporto. Non sapeva decidere quale delle strade conducesse a ovest. Quella - la più probabile - larga: con auto parcheggiate su entrambi i lati. Più in su in doppia fila… in tripla fila… una folla… Sarebbe riuscito a passarci attraverso? Così voltò da quella parte. C'era un cartello stradale, ma i nomi delle strade non erano più paralleli alle strade stesse. East qualcosa pareva essere… in quella direzione. Perciò prese quella strada che però sfociò in una stretta via laterale che correva tra case basse. Le case parevano abbandonate. All'angolo seguente svoltò - verso ovest, così immaginò - e seguì quella strada per alcuni isolati. C'erano ancora case basse. Forse erano autorimesse, e forse capannoni. C'erano recinzioni con spirali di filo spinato in cima. Le strade erano deserte: benissimo, disse tra sé, eppure sentiva che il cuore gli batteva nervosamente. Poi voltò di nuovo. Una strada stretta fiancheggiata da palazzi di abitazione alti sette o otto piani; nessun segno di vita; neanche una finestra illuminata. L'isolato seguente: la stessa cosa. Svoltò ancora, e mentre girava l'angolo… stupefacente. Il vuoto completo: un vasto spazio libero. Isolato dopo isolato… quanti? - sei? otto? una dozzina? - interi isolati della città senza una casa. C'erano strade, cordoli, marciapiedi, lampioni e niente altro. La spaventosa ingordigia di una città si apriva davanti a lui, illuminata dal giallo livido dei lampioni. Qua e là c'erano tracce di macerie e scorie varie. Il terreno sembrava fatto di calcestruzzo, andava su e giù, colline e valli nel Bronx, ridotte ad asfalto, calcestruzzo e cenere, in uno spettrale crepuscolo giallastro.

Sherman dovette concentrarsi per essere certo di trovarsi davvero alla guida di una macchina in una strada di New York. La strada si alzava in salita per tre isolati, per quattro isolati: difficile stabilirlo davanti a quell'enorme estensione non edificata. Poi apparve, un unico palazzo, in fondo, sull'angolo, alto tre o quattro piani. Pareva essere sul punto di sprofondare a ogni istante. Al livello stradale c'erano luci: forse un negozio o un bar. Sul marciapiede: tre o quattro persone. Sherman le vide sotto il lampione sull'angolo.

«Dove siamo, Sherman?» Maria lo guardava fisso.

«Sud-est del Bronx, direi.»

«Insomma, vuoi dire che non sai dove siamo?»

«So più o meno dove siamo. Finché continuiamo in direzione ovest, andiamo bene.»

«Cosa ti fa pensare che andiamo verso ovest?»

«Oh, non aver paura, stiamo andando verso ovest. Solo che, ehm…»

«Solo che?»

«Guarda un po' se vedi un cartello. Cerco una strada numerata.»

Per la verità Sherman non era più in grado di dire in quale direzione stesse andando. Avvicinandosi alla casa, sentì un thung thung thung thung thung thung. Poté sentirlo anche se i finestrini dell'auto erano chiusi. Un basso. Un filo dell'elettricità pendeva dal lampione sull'angolo e s'infilava nel portone aperto. Sul marciapiede all'esterno c'erano una donna con addosso quella che pareva una maglia da pallacanestro e pantaloni corti, e due uomini in camicia sportiva a maniche corte. La donna stava china, le mani sulle ginocchia: rideva e roteava la testa in un ampio giro. I due uomini ridevano. Erano portoricani? Impossibile saperlo. Dentro il portone, il portone dove entrava il filo elettrico, Sherman intravide una luce debole e delle figure. Thung thung thung thung thung… il basso… poi le note più alte di una cornetta. Musica latina? La testa della donna continuava a vorticare.

Sherman gettò un'occhiata a Maria. Stava seduta, immobile, nella sua stupenda giacca blu. I folti capelli scuri e lucenti incorniciavano un viso gelido e immoto, come quello di una fotografia. Sherman accelerò e lasciò il sinistro avamposto nel deserto.

Voltò in direzione di alcune case. Passò davanti ad abitazioni senza infissi alle finestre.

Arrivarono a un piccolo parco con una recinzione in ferro. Lì si poteva girare a destra o a sinistra. Le strade avevano tracciati irregolari. Sherman aveva perso del tutto l'orientamento; ormai la città non pareva neanche più New York, ma piuttosto una piccola città del New England in disfacimento. Girò a sinistra.

«Sherman, comincio a non essere tranquilla. Non mi piace.»

«Non preoccuparti, bimba.»

«Adesso è bimba?»

«Bambina non ti è piaciuto.» Desiderava sembrare disinvolto. Lungo la strada c'erano ora delle automobili parcheggiate. Tre giovani stavano sotto un lampione: tre facce scure. Indossavano giacconi imbottiti. Fissarono la Mercedes. Sherman svoltò di nuovo.

Davanti, lontano, vedeva il chiarore giallastro, confuso di quella che sembrava una strada più ampia e meglio illuminata. Più ci si avvicinava e più gente c'era sui marciapiedi, sulle soglie delle porte, sulla sede stradale. Quante facce scure! Più lontano, c'era qualcosa sulla strada. 1 suoi fari erano annegali nel buio. Poi riuscì a vedere. Un'auto ferma in mezzo alla strada, lontano dal marciapiede… un gruppo di ragazzi in piedi tutt'intorno. Altre facce scure. Era in grado di aggirarli? Premette il pulsante che bloccava le portiere. Il clic elettronico lo fece sobbalzare, quasi fosse il rullo di un tamburo. Rallentò. I ragazzi si chinarono a guardare dentro i finestrini della Mercedes.

Con la coda dell'occhio vide uno di loro sorridere. Ma non disse una parola. Guardava fisso con un sorrisetto maligno. Grazie a Dio, c'era spazio sufficiente. Sherman proseguì lentamente. E se gli si bucava uno pneumatico? O s'ingolfava il motore? Sarebbe stato un bel guaio. Ma non si sentì sconcertato. Era ancora in sella. Continua a marciare e basta. È quel che conta. Una Mercedes da quarantottomila dollari. Avanti, tedeschi del cavolo, Panzer, inventori di macchine dal cervello d'acciaio. Fate il vostro dovere. Superò l'auto ferma. Più in là una strada importante. Il traffico era abbastanza sostenuto in entrambi i sensi all'intersezione. Si rilassò. Ce l'aveva fatta! A destra! A sinistra! Non aveva importanza. Arrivò all'incrocio. Il semaforo era rosso. Be', al diavolo! Proseguì lo stesso.

«Sherman, stai attraversando con il rosso!»

«Meglio. Forse verranno i poliziotti. Non mi scoccerebbe mica tanto.»

Maria non aggiunse altro. Le preoccupazioni della sua vita lussuosa si erano ora esclusivamente polarizzate su un punto. Tutta la sua esistenza aveva un solo obiettivo: uscire dal Bronx.

Più in là il chiarore nebuloso color senape dell'illuminazione stradale era un po' più vivido e diffuso. Forse un incrocio di notevole importanza. Un attimo… Lassù, un'entrata della sotterranea. Laggiù negozi, rivendite di cibo economico: pollo fritto alla texana… cibo cinese da asporto… cibo cinese da asporto!

Maria pensò la stessa cosa. «Gesù, Sherman, siamo tornati dove eravamo partiti. Hai girato in circolo!»

«Lo so. Lo so. Ma aspetta un secondo. Adesso ti dico cosa farò. Volto a destra e torno sotto l'autostrada. Adesso…»

«Non tornare sotto quella cosa, Sherman.»

L'autostrada era lassù, proprio davanti a loro. Il semaforo era verde. Sherman non sapeva cosa fare. Dietro di lui qualcuno suonava il clacson.

«Sherman! Guarda lassù! C'è scritto GEORGE WASHINGTON BRIDGE

Dove? Il clacson continuava a suonare. Poi lo vide. Era lontano, sotto l'autostrada, nel grigiore dell'oscurità, un cartello sopra un sostegno di cemento: 95. 895 EAST GEO. WASH, BRIDGE.

… Ci dev'essere una rampa di entrata…

«Ma non dobbiamo andare in quella direzione! È verso nord!»

«E allora, Sherman? Almeno sappiamo che cos'è! Almeno è la civiltà! Andiamocene da qui!»

Il clacson strombettava. C'era qualcuno, dietro, che strillava. Sherman partì a tutta velocità, quando il semaforo era ancora verde. Tagliò le cinque corsie in direzione del piccolo cartello. Erano di nuovo sotto l'autostrada.

«È proprio là, Sherman.»

«Okay, okay, la vedo.»

La rampa pareva uno scivolo nero tra i sostegni di cemento. La Mercedes prese una buca e sobbalzò.

«Cristo!» disse Sherman. «Non l'avevo neppure vista.»

Si protese sul volante. I fari passavano freneticamente da un pilastro di cemento all'altro. Sherman scalò in seconda. Girò a sinistra attorno a una spalla e si lanciò sulla rampa. Dei corpi! Cadaveri sulla strada! Due corpi acciambellati! No, non erano corpi: sagome strane… No, contenitori, contenitori di qualche genere, bidoni della spazzatura. Doveva stringere a sinistra per evitarli. Rimise la prima e si spostò a sinistra. Una specie di macchia confusa nella luce dei fari. Per un attimo pensò che qualcuno avesse scavalcato il guardrail della rampa. No, era abbastanza grosso. Era un animale. Ora stava sulla strada, immobile, e gli bloccava il passaggio. Sherman pigiò il freno. Una valigia lo colpì alla nuca… due valigie…

Un urlo di Maria. Una valigia incombeva sul suo poggiatesta. L'auto si era fermata. Sherman mise il freno a mano, scostò la valigia dall'incomoda posizione e la respinse sul sedile posteriore.

«Tutto a posto?»

Lei non lo guardava. Stava fissando qualcosa attraverso il parabrezza. «Cos'è quella cosa?»

Quel che bloccava la strada non era un animale, ma una ruota. Per prima cosa pensò che fosse una ruota persa da una macchina sull'autostrada rotolata giù, fino alla rampa. D'un tratto l'auto tacque: il motore si era fermato. Sherman riaccese il motore. Si accertò che il freno fosse a posto. Poi aprì la portiera.

«Che cosa fai, Sherman?»

«Vado a togliere quell'affare di mezzo.»

«Sta' attento. E se arriva una macchina?»

«Be'…» scrollò le spalle e uscì.

Ebbe una strana sensazione appena messo piede sulla rampa. Sopra la testa il tremendo rumore metallico di veicoli che passavano su giunti o lamiere dell'autostrada. Ora lui fissava la nera superficie inferiore del nastro d'asfalto. Non riusciva a vedere le automobili. Poteva soltanto sentirle far pressione sulla strada, a grande velocità, producendo un intenso fragore e un largo campo di vibrazioni che avvolgevano la grande struttura nera e corrosa in un ronzio continuo. Ma nello stesso tempo udiva le scarpe, le sue New & Lingwood da seicentocinquanta dollari, New & Lingwood di Jermyn Street, Londra, con le loro suole e i loro tacchi di cuoio, che facevano piccoli rumori e stropiccii mentre camminava sul piano inclinato verso la ruota. I piccoli scalpiccii prodotti dalle sue scarpe gli parevano più acuti e penetranti di tutti i rumori mai sentiti prima. Si chinò. Non si trattava di una ruota, dopotutto, ma soltanto di uno pneumatico. Immagina un'automobile che perde uno pneumatico! Lo raccolse.

«Sherman!»

Si girò verso la Mercedes. Due sagome! Due giovani neri sulla rampa, salivano dietro di lui. Boston Celtics! Quello più vicino aveva una giacca da basket argentea, con una grande scritta CELTICS di traverso. Era a soli quattro o cinque passi. Molto ben piantato. La giacca era aperta: una maglietta bianca, enormi muscoli pettorali, una faccia quadrata, mascella larga, bocca larga… E quello sguardo? Da predatore! Il ragazzo fissava Sherman negli occhi, camminando lentamente. L'altro era alto ma molto magro, con un lungo naso e una faccia stretta, delicata… occhi spalancati, spaventati. Pareva atterrito. Aveva addosso un maglione largo. Stava un passo o due dietro a quello grosso.

«Ehi!» disse il grosso. «Hai bisogno di aiuto?»

Sherman rimase fermo, reggendo lo pneumatico e guardando davanti a sé.

«Cos'è successo, uomo? Hai bisogno di aiuto?»

Il tono di voce era cordiale. Mi sta imbrogliando! Ha una mano nella tasca della giacca! Ma la voce sembra sincera. È un trucco idiota! Ma se per caso vuole solo aiutare? Che cosa ci fanno sulla rampa? Non hanno fatto niente. Non ci hanno minacciato. Ma lo faranno! Basta essere gentile. Sei pazzo? Fa' qualcosa! Agisci! Un rumore gli riempì la testa, il rumore di fumi di scarico. Si portò lo pneumatico davanti al petto. Adesso! Pam! Si lanciò verso quello grosso e gli tirò addosso lo pneumatico. Ma gli stava, tornando contro! Lo pneumatico stava per colpire lui! Alzò di scatto le braccia. Lo pneumatico rimbalzò su un braccio. Un movimento scomposto: il bruto inciampò nello pneumatico. L'argentea giacca dei CELTICS era a terra. L'impeto portò Sherman a sbilanciarsi in avanti. Scivolò e slittò sulle sue eleganti scarpe New & Lingwood. Ruotò su se stesso.

«Sherman!»

Maria era al volante della macchina. Il motore rombava. La portiera dalla parte del passeggero era aperta.

«Entra!»

L'altro, il magro, stava tra lui e la macchina: lo sguardo pieno di paura in faccia, gli occhi stralunati. Sherman era frenetico. Doveva arrivare all'auto! Si mise a correre. Abbassò la testa. Rovinò addosso al ragazzo che piroettò all'indietro per finire contro il paraurti posteriore, ma non cadde.

«Henry!»

Il grosso si stava alzando! Sherman si catapultò dentro la macchina.

Il volto di Maria era livido. «Presto! Presto!»

Il motore era su di giri, rombava. La Mercedes testa di Panzer fremeva. Una figura confusa fuori dell'auto. Sherman afferrò la maniglia della portiera e con immenso dispendio di adrenalina la chiuse con grande fragore. Con la coda dell'occhio vide il grosso, vicinissimo alla portiera di Maria. Sherman fece scattare il meccanismo di chiusura. Tap! L'altro stava dando strattoni violenti alla maniglia esterna della portiera di Maria. CELTICS a una spanna dalla testa di Maria e solo il vetro tra loro. Maria mise la Mercedes in prima e scattò in avanti. Il ragazzo scartò sulla sinistra. L'auto stava andando diritto verso i bidoni della spazzatura. Maria frenò di botto. Sherman venne gettato contro il cruscotto. Il beauty-case cadde sul cambio. Sherman lo tolse e se lo mise in grembo. Maria innestò la retromarcia. L'auto arretrò di schianto. Sherman guardò sulla sua destra. Quello magro… Il ragazzo magro era lì in piedi e lo guardava fisso, il tenore sulla faccia delicata. Maria innestò di nuovo la prima. Respirava a fatica, ansimava, come se stesse per annegare.

Sherman urlò. «Attenzione!»

Quello grosso stava avanzando verso l'auto. Teneva lo pneumatico sopra la testa. Maria lanciò la macchina verso di lui. Lo pneumatico colpì il parabrezza e rimbalzò lontano, senza rompere il vetro. Ah! Tedeschi del cavolo! Maria sterzò a sinistra, per evitare i bidoni. Il magro stava lì impalato. Le ruote posteriori sbandarono: tok! Il ragazzo magro non era più lì, in piedi. Maria si affannò sul volante. Una breccia tra il guardrail e i bidoni della spazzatura. La infilò. Un furioso stridere di gomme. La Mercedes volò sulla rampa. La strada si alzò sotto di lui. Sherman si aggrappò. La lunga striscia dell'autostrada, luci vorticanti. Maria frenò. Sherman e il beauty-case vennero gettati contro il cruscotto! Hahhh hahhhh hahhh hahhh… Da principio pensò che lei stesse ridendo. Cercava soltanto di riprendere fiato.

«Okay?»

Lei partì a razzo. Un rabbioso suono di clacson…

«Per l'amor di Dio, Maria!»

Il clacson impazzito, una violenta sterzata, e poi furono sull'autostrada.

Gli occhi di Sherman bruciavano per la traspirazione. Tolse una mano dal beauty-case per fregarsi gli occhi, ma la mano si mise a tremare tanto che la riappoggiò sulla borsa. Sentiva il cuore battergli in gola. Era bagnato fradicio. La giacca stava andando a pezzi. Lo sentiva. Le cuciture della schiena erano saltate. I polmoni lottavano disperatamente alla ricerca di ossigeno.

Correvano sull'autostrada, a velocità troppo elevata.

«Rallenta, Maria! Cristo!»

«Dove vado, Sherman? Dove?»

«Segui i cartelli che indicano il ponte George Washington. E, per l'amor di Dio, rallenta.»

Maria tolse una mano dal volante per scostare i capelli dalla fronte. Il braccio, la mano, tremavano. Sherman si chiese se fosse in grado di controllare l'auto, ma non volle disturbare la sua concentrazione. Il cuore pareva battere con tonfi sordi e profondi come se fosse privo di sostegno dentro la cassa toracica.

«Oh, merda, mi tremano le braccia!» disse Maria. Non l'aveva mai sentita usare la parola "merda".

«Sta' calma» disse Sherman. «Adesso siamo a posto, siamo a posto.»

«Ma dove stiamo andando?»

«Sta' calma e basta! E segui i cartelli: GEORGE WASHINGTON BRIDGE

«Oh merda, Sherman, questo l'abbiamo già fatto!»

«Sta' calma, per l'amor di Dio. Ti dico io dove andare.»

«Questa volta non far casino, Sherman.»

Sherman si sorprese con le mani aggrappate al beauty-case, come se fosse un secondo volante. Tentò di concentrarsi sulla strada. Poi fissò un cartello in alto: CROSS BRONX GEO. WASH. BRIDGE.

«Cross Bronx! Cos'è?»

«Prendilo e basta!»

«Merda, Sherman!»

«Resta in autostrada. Andiamo bene così.» Il navigatore.

Fissò la linea bianca sul fondo stradale. Fissava con tale intensità che presero a separarsi in lui: le linee, i cartelli, le luci di coda. Non riusciva più a pensare. Si concentrava su frammenti, molecole, atomi! Cristo! Ho perso la facoltà di ragionare! Il cuore si mise a palpitare: poi, un grande… snap!… e tornò a un ritmo regolare.

Poi, in alto: MAJOR DEEGAN TRIBORO. BRIDGE.

«Lo vedi, Maria? Triborough Bridge! Prendilo!»

«Gesù Cristo, Sherman! George Washington Bridge!»

«No! Meglio il Triborough, Maria! Ci riporterà direttamente a Manhattan!»

Perciò presero quel troncone dell'autostrada. Ora in alto c'era: WILLIS AVE.

«Dov'è Willis Avenue?»

«Nel Bronx, credo.»

«Merda!»

«Tienti sulla sinistra! Andiamo bene!»

«Merda! Sherman!»

Sull'autostrada un grande cartello: TRIBORO.

«Eccoci! Lo vedi!»

«Sììì.»

«Prendi a destra là. L'uscita è sulla destra!» Adesso Sherman si aggrappava al beauty-case, mimando una curva a destra. Sì, stava aggrappato a un beauty-case e mimava una curva a destra. Maria indossava una giacca blu con spalle imbottite comperata in Avenue Foch, ma là, invece, era solo un animale teso fino allo spasimo che si contorceva sotto l'imbottitura parigina. E loro due in una Mercedes da quarantottomila dollari con lucenti quadranti da aeroplano, nel tentativo disperato di fuggire dal Bronx.

Arrivarono all'uscita. Trattenne il fiato, temendo che un tornado si formasse all'improvviso, li sbalzasse dal solco giusto e… via, di nuovo nel Bronx!

Ce l'avevano fatta. Erano finalmente sul lungo piano inclinato che portava al ponte e a Manhattan.

Hahhhh hahhhhhh hahhhhh hahhhhh «Sherman!»

La guardò. Sospirava e respirava a grandi boccate.

«Va tutto bene, tesoro.»

«Sherman, me l'ha buttata contro!»

«Che cosa?»

«Quella ruota, Sherman!»

Lo pneumatico aveva colpito il parabrezza davanti ai suoi occhi. Ma nella mente di Sherman balenò un altro rumore… tok! Quello del paraurti posteriore che colpiva qualcosa e il ragazzo magro che spariva dalla vista. Maria si lasciò sfuggire un singhiozzo.

«Su, fatti forza! Non è successo niente. O quasi!»

Lei ricacciò le lacrime. «Dio!»

Sherman le si avvicinò e le massaggiò la nuca con la mano sinistra.

«Tutto a posto, tesoro. Te la cavi benissimo.»

«Oh, Sherman!»

Una sensazione strana - e proprio in quel momento ne colse la stranezza -, aveva voglia di sorridere. L'aveva salvata! Sono il suo difensore! Continuava a massaggiarle la nuca.

«Era soltanto uno pneumatico» disse il difensore, assaporando il ghiotto piacere di tranquillizzare la debole creatura. «Altrimenti avrebbe spaccato il parabrezza.»

«Me l'ha tirato contro!»

«Lo so, lo so. Va tutto bene. È finita.»

Ma adesso lo sentiva di nuovo. Quel piccolo tok. E quel ragazzo magro era scomparso.

«Maria, credo che tu… credo che noi abbiamo urtato uno di loro.»

Tu… noi… già un istinto profondo prendeva il sopravvento sull'equivoco patriarca: vergogna.

Maria non parlò.

«Sai, quando abbiamo sbandato. C'è stato una specie di… una specie di rumore soffocato, come un piccolo tonfo.»

Maria restò in silenzio. Sherman la fissò. Alla fine lei disse: «Sììì… io… io non so. Non me ne frega niente, Sherman. A me importa solo di essere uscita da laggiù».

«Be', è la cosa più importante, ma…»

«Oh, Dio, Sherman, è stato come un incubo tremendo!» Cominciò a soffocare i singhiozzi, sempre curva in avanti e guardando fisso davanti a sé, attraverso il parabrezza, concentrata sul traffico.

«Va tutto bene, tesoro. Adesso siamo okay.» Massaggiò un altro poco la nuca di lei. Il ragazzo magro era là in piedi. Toh. Non c'era più.

Il traffico si faceva più intenso. Il fiume delle luci posteriori rosse s'infilò sotto un cavalcavia e poi risalì lungo un piano inclinato. Non erano lontani dal ponte. Maria rallentò. Nell'oscurità, la barriera per il pagamento del pedaggio pareva una grande macchia giallastra a causa delle luci che la sovrastavano. Davanti, invece, le luci rosse diventavano uno sciame che convergeva sulle cabine. Lontano, Sherman vedeva il nero compatto di Manhattan.

Quale solennità! Quante luci! Quanta gente! Quante anime che si trovavano insieme a lui in quella grande macchia gialla. Eppure tutti erano ignari di quel che lui aveva appena passato.

Sherman attese fino a quando non cominciarono a scendere per il Franklin Delano Roosevelt Drive, lungo l'East River, nella Manhattan bianca - attese che Maria fosse più tranquilla - prima di riprendere l'argomento.

«Cosa ne pensi, Maria? Secondo me, dovremmo avvertire la polizia.»

Lei non disse niente. Sherman la guardò. Lei fissava arcigna la strada.

«Cosa ne pensi?»

«Di cosa?»

«Be', credo che…»

«Sherman, sta' zitto!» Ma lo disse con dolcezza e in tono gentile. «Lasciami guidare questa maledetta auto.»

Le familiari palizzate gotiche stile anni Venti del New York Hospital erano molto vicine. La Manhattan bianca! Presero l'uscita del grande viale della Settantunesima Strada.

Maria parcheggiò davanti al suo nascondiglio-rifugio del quarto piano, dall'altra parte della strada. Sherman uscì ed esaminò immediatamente il paraurti posteriore di destra. Con suo grande sollievo, niente ammaccature; nessun segno visibile, almeno in quell'oscurità. Poiché Maria aveva detto al marito che sarebbe tornata dall'Italia il giorno dopo, volle portare di sopra il bagaglio nel suo appartamentino. Tre volte Sherman si arrampicò per la scala scricchiolante, alla luce fioca e triste dell'Alone del Padrone, trascinando il bagaglio.

Maria si tolse la giacca blu scuro dalle spalle parigine e la mise sul letto. Sherman si tolse a sua volta la giacca. Era conciata male, sulla schiena e sui fianchi le cuciture si erano lacerate. Huntsman, Savile Row, Londra. Costata un'autentica fortuna. La gettò sul letto. La camicia era fradicia. Maria lanciò lontano le scarpe, si accomodò in una delle sedie di legno ricurvo vicino al tavolo dal piede di quercia, appoggiò un gomito sul tavolo e abbandonò la testa sull'avambraccio. Il vecchio tavolo cedette un poco, alla sua triste maniera. Poi lei si raddrizzò e guardò Sherman.

«Voglio qualcosa da bere» disse. «E tu?»

«Sì, sì. Vuoi che ci pensi io?»

«Ah-hah. Voglio un bel po' di vodka, con un po' di succo d'arancia, e del ghiaccio. La vodka è in cucina, nell'armadietto.»

Andò nel brutto cucinino e accese la luce. Uno scarafaggio era appollaiato sul bordo di una padella sporca. Be', chi se ne frega. Preparò la vodka col succo d'arancia per Maria e si versò un bicchiere abbondante di scotch con un po' di ghiaccio e pochissima acqua. Si sistemò su una delle sedie di legno ricurvo vicino al tavolo e di fronte a lei. Scoprì che aveva un gran bisogno di whisky. Non vedeva l'ora che ogni sorso ghiacciato gli bruciasse lo stomaco. L'auto aveva sbandato. Quello alto e dall'aspetto fragile non più lì, in piedi.

Maria aveva già vuotato metà del bicchiere che le aveva portato. Chiuse gli occhi, gettò la testa all'indietro, poi guardò Sherman e sorrise stancamente. «Giuro» disse, «ho pensato che sarebbe finita… molto male.»

«Be', adesso che cosa facciamo?» disse Sherman.

«Cosa vuoi dire?»

«Immagino che dovremmo…. immagino che dovremmo andare alla polizia.»

«L'hai già detto. Okay. Dimmi per cosa.»

«Be', hanno cercato di rapinarci… e penso che tu forse… penso che sia possibile che tu abbia urtato uno di loro.»

Lei lo guardò, e basta.

«È stato quando tu sei partita a tutta velocità: abbiamo sbandato.»

«Vuoi proprio sapere una cosa? Spero di averlo fatto. Ma se l'ho fatto, non è stata una gran botta, di sicuro. Io non ho sentito quasi niente.»

«È stato solo un piccolo tok. E poi non era più lì, in piedi.»

Maria si strinse nelle spalle.

«Be', sto solamente pensando a voce alta» disse Sherman. «Secondo me, dovremmo andarci. Così saremmo a posto, tranquilli.»

Maria soffiò fuori dell'aria dalle labbra, come si fa quando si sta per perdere la pazienza, e distolse lo sguardo.

«Supponi che il ragazzo sia ferito.»

Lo guardò e ridacchiò. «Francamente, non me ne importa niente.»

«Ma supponi che…»

«Senti, ce la siamo cavata, no? Come, non ha importanza.»

«Ma supponi…»

«Supponi un cazzo, Sherman. Dove vai a dirlo alla polizia? E cosa vai a dire?»

«Non lo so. Vado a dire quello che è successo, e stop.»

«Sherman, adesso sono io che ti dico quello che è successo. Io vengo dalla Carolina del Sud e te lo dirò in un inglese molto chiaro. Due negri hanno cercato di ucciderci, e noi siamo scappati. Due negri hanno cercato di ucciderci in mezzo alla giungla, e noi siamo riusciti a uscire dalla giungla, e stiamo ancora respirando: tutto qui.»

«Sì, ma supponi che…»

«Supponi tu! Supponi di andare alla polizia. Che cosa gli dirai? Cosa gli dici che stavamo facendo noi due, nel Bronx? Tu dici che gli vai a raccontare quel che è successo e stop. Be', dillo a mi, Sherman. Cos'è successo?»

Ma ecco quello che lei gli stava in effetti dicendo sotto sotto: "Racconterai alla polizia che la signora Ruskin, moglie di Arthur Ruskin, della Quinta Avenue, e Sherman McCoy di Park Avenue stavano avviandosi verso un tète-à-tète notturno quando si sono sbagliati e non hanno preso la rampa di uscita per Manhattan al Triborough Bridge. Poi, giunti nel Bronx, si sono trovati nei guai". Esaminò mentalmente quella loro eventuale deposizione. Be', avrebbe potuto dire a Judy… no, era del tutto impossibile parlare a Judy di una passeggiata in macchina con una certa Maria. Ma se loro… se Maria aveva urtato e ferito il ragazzo, in quel caso sarebbe stato meglio stringere i denti e raccontare quello che era successo. E cioè? Be'! Due ragazzi avevano tentato di rapinarli. Avevano bloccato il passaggio. Si erano avvicinati a lui. Avevano detto… Una scossa gli attraversò il plesso solare. Ehi! Hai bisogno di aiuto? Questo soltanto aveva detto il ragazzo grande e grosso. Non aveva estratto un'arma. Nessuno dei due aveva fatto un gesto minaccioso fino a quando lui non aveva scagliato lo pneumatico. E se invece… un momento! Era pazzesco! Cos'altro potevano fare su una rampa d'accesso all'autostrada accanto a un ostacolo che ostruiva il passaggio, al buio… a parte che… Maria avrebbe sostenuto la sua interpretazione… interpretazione!… un animale selvatico sgambettante… d'un tratto si rese conto che la conosceva appena.

«Non so» disse. «Forse hai ragione. Pensiamoci su. In fondo sto solo ragionando ad alta voce.»

«Io non ho bisogno di pensarci su, Sherman. Certe cose le capisco meglio di te. Non tante, ma certe sì. A loro piacerebbe un sacco mettere le mani addosso a te e a me.»

«Loro chi?»

«La polizia. E comunque, che cosa ne verrebbe fuori di buono? Quei ragazzi non li prenderanno mai.»

«Cosa vuoi dire: metterci le mani addosso?»

«Ti prego, lascia perdere la polizia.»

«Di che cosa stai parlando?»

«Di te, tanto per cominciare. Sei uno della buona società.»

«Io non sono uno della buona società.» I Padroni dell'Universo stavano su un piano molto più alto che quelli della buona società.

«Ah, no? Il tuo appartamento era su "AD". C'è stata la tua foto su "w". Tuo padre era… è… be', quello che è. Non lo sai?»

«È stata mia moglie a far pubblicare le foto dell'appartamento sulla rivista!»

«Be', spiegalo alla polizia, Sherman. Sono sicura che terranno conto della precisazione.»

Sherman rimase senza parole. La frase era davvero odiosa.

«E non ci penseranno un minuto a farmi a pezzi, anche me, certo, visto l'andazzo. Io sono solo una ragazza della Carolina del Sud, ma mio marito ha cento milioni di dollari e un enorme e lussuoso appartamento sulla Quinta Avenue.»