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Un leader del
popolo
La mattina seguente, Sherman McCoy sperimentò uno stato d'animo per lui del tutto nuovo, in quegli otto anni passati alla Pierce & Pierce. Era incapace di concentrarsi. Di solito, appena entrava nella sala delle contrattazioni, appena lo colpiva la luce accecante che veniva dalla parete di cristallo e lo avviluppava il ruggito di una legione di giovani resi folli dall'ambizione e dall'avidità, tutto il resto della sua vita spariva e quei piccoli simboli verdi che schizzavano attraverso gli schermi neri dei terminali diventavano tutto il suo mondo. Perfino l'altra mattina, dopo la più stupida telefonata che avesse mai fatto, la mattina in cui si era svegliato chiedendosi se sua moglie fosse sul punto di lasciarlo e di portare con sé la cosa più preziosa della sua vita, sua figlia Campbell, perfino quella mattina era entrato nella sala e, ipso facto, l'esistenza umana si era ristretta alle obbligazioni francesi ancorate all'oro e alle ventennali del Tesoro americano. Ma ora era come se avesse un nastro a due piste nella testa e il meccanismo continuasse a saltare da una pista all'altra senza che lui potesse controllarlo. Sullo schermo:
«U Frag 10.1 '96 102.» Un intero punto di ribasso! Le obbligazioni United Fragrance a tredici anni, rimborsabili nel 1996, erano scivolate da 103 a 102,5 il giorno precedente e ora erano a 102, il rendimento sarebbe stato del 9,75 per cento… e quel che chiedeva a se stesso era: perché mai lei avrebbe dovuto investire proprio una persona facendo marcia indietro? Perché non lo pneumatico o un bidone della spazzatura o una qualunque altra cosa? Tentò di riudire il colpo nel suo sistema nervoso centrale. Era un… tok… un colpo lieve. Davvero un urto da poco. Contro, praticamente, qualsiasi cosa. Ma poi si scoraggiò. Che altro poteva essere stato se non quel ragazzo alto e magro? Ne rivide la faccia scura e delicata, la bocca spalancata per la paura. Non era troppo tardi per andare alla polizia? Trentasei ore… quaranta ormai. Come poteva spiegarsi? Penso che noi, la mia amica signora Ruskin e io, abbiamo forse… Perdio, uomo, controllati! Dopo quaranta ore non è più la denuncia di un incidente, ma una confessione! Tu sei un Padrone dell'Universo. Tu non sei al cinquantesimo piano dalla Pierce & Pierce perché, sotto pressione, sei un uomo che crolla. Quest'idea eccitante lo temprò per il compito da svolgere, e tornò a concentrarsi sullo schermo.
I numeri scorrevano in righe, come se un pennello verde radio li dipingesse; scorrevano e cambiavano di continuo davanti ai suoi occhi, senza che li registrasse nel cervello. Quel fatto lo sconvolgeva. Le United Fragrance erano scese a 101 e 7/8, il che voleva dire che il rendimento era salito quasi al dieci per cento. Qualcosa non andava? Eppure proprio il giorno precedente aveva fatto svolgere una ricerca, e la United Fragrance era risultata in buona salute, assolutamente un titolo di prima categoria. In quel momento, lui aveva soltanto bisogno di sapere se…
C'era qualche notizia sul «The City Light» che stava frusciando ai suoi piedi, sul pavimento? Non aveva visto niente sul «Times», sul «Post» e sul «Daily News», che aveva sfogliato in taxi venendo al lavoro. La prima edizione di «The City Light», un giornale del pomeriggio, usciva solo dopo le dieci del mattino. Perciò venti minuti prima aveva dato a Felix, il lucidatore di scarpe, cinque dollari perché andasse di sotto a comperargliene una copia. Ma come faceva a leggerlo? Non poteva neppure farsi vedere con una copia del giornale sulla scrivania. Non lui; non dopo la ramanzina che aveva fatto al giovane señor Arguello. E così il giornale era sotto la scrivania, sul pavimento, e gli si accartocciava ai piedi. Sì, frusciava, e lui era in fiamme. Bruciava dal desiderio di raccoglierlo e di sfogliarlo, immediatamente: al diavolo la brutta figura eventuale. Ma naturalmente quello era un impulso irrazionale. Inoltre, che differenza poteva fare se lo leggeva subito o di lì a sei ore? Che cosa poteva mai cambiare? Non molto, non molto. Ma poi si sentì bruciare di nuovo, a tal punto che gli parve di non poter resistere.
Merda! Alle United Fragrance stava accadendo qualcosa! Erano risalite a 102! Altri compratori stavano annusando l'affare! Agire in fretta! Compose il numero di Oscar Suder a Cleveland, trovò il suo aiutante di campo, un tale Frank… Frank… qual era il cognome?… Frank… Frank: la ciambella! «Frank? Parla Sherman McCoy, Pierce & Pierce. Di' a Oscar che posso procurargli delle United Fragrance, scadenza '96, rendimento 9,75 per cento, se gli interessano. Stanno salendo.»
«Un momento.» In un attimo la ciambella fu di ritorno. «Oscar ne prende tre.»
«Okay. Stupendo. Tre milioni di United Fragrance dieci e uno, '96.»
«Esatto.»
«Grazie, Frank, e tanti saluti a Oscar. Ah, digli che lo richiamerò presto per le Giscard. Il franco è sceso un po', ma è facile coprirsi. Comunque, gli parlerò.»
«Glielo dirò» promise la ciambella da Cleveland, e prima ancora di finire di trascrivere l'ordine e di consegnarlo a Muriel, l'assistente alle vendite stava pensando: "Forse dovrei vedere un avvocato, dovrei telefonare a Freddy Button". Ma conosceva troppo bene Freddy. Freddy lavorava nello studio Dunning Sponget. Tanto per cominciare era stato suo padre a indirizzarlo da Freddy. E se per caso avesse detto qualcosa al Leone? Non lo avrebbe fatto… o sì? Freddy si considerava un amico di famiglia. Conosceva Judy, e chiedeva sempre di Campbell ogni volta che scambiavano quattro chiacchiere, anche se Freddy probabilmente era omosessuale. Be', anche gli omosessuali possono interessarsi ai bambini, no? Freddy, del resto, aveva dei bambini. Il che, comunque, non significava che non fosse omosessuale. Cristo! Che cosa cavolo gli importava la vita sessuale di Freddy Button? Era pazzesco permettere alla sua mente di galoppare a quel modo. Freddy Button. Si sarebbe sentito un emerito idiota se avesse raccontato tutta la storia a Freddy Button e se si fosse poi rivelata un falso allarme, come probabilmente era. Due ragazzi avevano tentato di rapinare lui e Maria, e loro avevano preso di petto la situazione. Un alterco nella giungla, secondo le regole della giungla: appunto quanto era avvenuto. Per un attimo si sentì di nuovo in buoni rapporti con se stesso. La legge della giungla! Il Padrone dell'Universo!
Poi il dubbio riemerse. Non lo avevano mai minacciato apertamente. Ehi! Hai bisogno di aiuto? E Maria lo aveva investito. Forse. Sì, era stata Maria. Non guidavo io. Guidava lei. Ma questo fatto lo assolveva dalle responsabilità agli occhi della legge? E lo…
Che cosa succedeva? Sullo schermo, le United Fragrance, dieci e uno,'96, balzavano a 102 1/8. Ah! Significava che il suo rapido intervento aveva assicurato a Oscar Suder un utile di un quarto di punto sui tre milioni di obbligazioni. Glielo avrebbe fatto notare il giorno dopo. Sarebbe servito a dare più consistenza alle Giscard… Ma se non succede niente per quel… tok… il ragazzo alto, gracile… I piccoli simboli verdi ardevano di un chiarore radioattivo sullo schermo. Per almeno un minuto non si erano mossi. Sherman non riuscì a resistere più a lungo. Doveva andare in bagno. Non c'era una legge che lo vietava. Tirò fuori una grossa busta di manila dalla scrivania. La linguetta era munita di una cordicella da avvolgere attorno a un disco di carta per chiudere la busta. Era il tipo usato per trasmettere documenti da un ufficio a un altro. Fece una panoramica nella sala per vedere se la via era libera, poi mise la testa sotto la scrivania, ficcò la copia di «The City Light» nella busta e si diresse verso il bagno.
C'erano quattro gabinetti, due urinali a muro e un grande lavandino. Sherman, dentro uno dei gabinetti, fu spaventosamente conscio del fruscio creato dal giornale quando lo tolse dalla busta. Come poteva girare le pagine? Ogni frusciante giro di pagina sarebbe stato un annuncio clamoroso che un pelandrone stava lì dentro a gingillarsi con un giornale. Ritirò i piedi verso la base di porcellana della tazza perché nessuno potesse vedere le sue scarpe New & Lingwood, gettando un'occhiata sotto la porta del gabinetto, e magari concludere, scorgendo le suole spesse e i colli smussati: "Aha! È McCoy!".
Nascosto dietro la porta del cesso, il Padrone dell'Universo prese a smanacciare il giornale a velocità furiosa, pagina dopo pagina.
Niente, non c'era niente, nessun cenno a un ragazzo gettato a terra in un'uscita dell'autostrada, nel Bronx. Si sentì immensamente sollevato. Ormai erano passati quasi due giorni interi… e niente. Cristo, faceva caldo lì dentro. Sudava. Com'era possibile lasciarsi andare in quel modo? Maria aveva ragione. I bruti avevano attaccato, lui aveva sconfitto i bruti, quelli erano fuggiti, tutto qui. Aveva trionfato con le sole sue mani, nude!
O forse il ragazzo era stato investito e la polizia stava cercando l'automobile, ma i giornali non avevano ritenuto il fatto abbastanza importante da farci un articolo?
La febbre tornò a salire. Supponiamo che qualcosa compaia sui giornali, anche un cenno soltanto. Come faceva a portare in porto l'affare Giscard sotto un nuvolone simile? Sarebbe stato finito! Finito! Anche se tremava per la paura di una simile catastrofe, sapeva che ci stava sguazzando per pura superstizione. Se ti raffiguri coscientemente un evento tanto terribile, questo non può prendere davvero corpo. Dio, o il fato, non permetterebbe mai di essere anticipato da un semplice mortale, chiaro! Ci tiene sempre a dare ai suoi disastri la purezza della sorpresa, Egli… Eppure, eppure, certe manifestazioni del destino crudele sono così naturali da non poterle evitare in alcun modo, eh, no! Un solo sospetto di scandalo e… l'animo gli cadde ancora più in basso. Un solo sospetto di scandalo, e non solo sarebbe crollato il progetto Giscard, ma tutta la sua carriera sarebbe finita! E che cosa avrebbe fatto in tal caso? Sto già andando in malora con un milione di dollari l'anno? Cifre spaventose invasero la sua mente. L'anno precedente il suo reddito era stato di 980.000 dollari. Ma doveva rendere 21.000 dollari al mese per il prestito di 1.800.000 dollari che si era fatto dare per l'appartamento. Che cos'erano 21.000 dollari al mese per uno che faceva un milione l'anno? Così aveva pensato al momento: in realtà, erano un peso opprimente e schiacciante: tutto qui! Complessivamente arrivava a 252.000 dollari l'anno, per niente deducibili, poiché si trattava di un debito personale, non di un'ipoteca. (I consigli di condominio dei palazzi di Park Avenue, come il suo, non consentivano di accendere un'ipoteca sull'appartamento.) E così, considerando imposte e tasse, ci voleva un reddito di 420.000 dollari per pagare quei 252.000 dollari con cui estinguere il suo debito. Dei rimanenti 560.000 dollari di reddito dell'anno passato, 44.400 dollari andavano per le spese mensili di mantenimento dell'appartamento, 116.000 dollari per la casa in Old Drover's Mooring Lane di Southampton, (84.000 dollari per il pagamento dell'ipoteca e interessi, 18.000 dollari per riscaldamento, servizi vari, assicurazione e riparazioni, 6000 per il taglio del prato e delle siepi, 8000 per tasse). Per inviti a casa e nei ristoranti: 37.000. Somma modesta in confronto a quel che spendeva altra gente. Per esempio, alla festa di compleanno di Campbell a Southampton c'era stata soltanto una giostra di luna park (oltre, naturalmente, ai pony, obbligatori, e al mago) ed era costata meno dì 4000 dollari. La scuola Taliaferro, compreso il servizio di bus, era costata 9400 per tutto l'anno. Il conto per mobili e abbigliamento era arrivato più o meno a 65.000 dollari; e c'erano poche speranze di ridurlo, dal momento che Judy, dopotutto, era un'arredatrice e doveva tenersi aggiornata in ogni senso. Le persone di servizio (Bonita, la signorina Lyons, Lucille, la donna delle pulizie e Hobie, l'uomo tuttofare di Southampton) costavano 62.000 dollari l'anno. Rimanevano cosi solo 226.000 dollari, o se volete 18.850 al mese, per altre tasse e altre spese tra cui i pagamenti per le assicurazioni (quasi 1000 dollari al mese, in media), affitto della rimessa per due automobili (840 dollari al mese), spese per alimentazione domestica (1500 dollari al mese), per il club (circa 250 al mese): la paradossale verità era che lui aveva speso più di 980.000 dollari l'anno precedente. Be', chiaro, si poteva tagliare qua e là: ma non abbastanza, se fosse successo il peggio! Non c'era modo di sfuggire al debito di 1.800.000 dollari, e alla mazzata mensile di 21.000 dollari, a meno di saldarlo o di vendere l'appartamento e traslocare in un altro più piccolo e modesto: una scelta impossibile! Era impossibile tornare indietro. Se uno ha abitato in un appartamento di Park Avenue da due milioni e seicentomila dollari, gli è impossibile andare ad abitare in un appartamento da un milione! Difficile spiegarlo a una persona qualunque. A meno di non essere assolutamente pazzo, sono parole che non si riesce neppure a lasciarsi sfuggire di bocca. E tuttavia: era proprio così! Era una scelta impossibile! Ma come, il suo palazzo era uno dei più belli tra quelli costruiti prima della prima guerra mondiale! Quando ancora non era lecito, adeguato, a una buona famiglia, abitare in appartamento (invece che in una casa indipendente). Perciò gli appartamenti venivano costruiti come se fossero residenze vere e proprie, con soffitti alti tre metri e mezzo o quattro, ingressi molto ampi, scale interne, ali riservate alla servitù, pavimenti di legno, pareti divisorie interne spesse trenta centimetri, muri esterni larghi come quelli di una fortezza, e caminetti, caminetti, caminetti, anche in case costruite con il riscaldamento centrale. Una magione! Salvo che si arrivava alla porta di casa per mezzo di un ascensore (che sfociava nell'atrio privato) invece che direttamente dalla strada. Questo si poteva avere per due milioni e seicentomila dollari, e chiunque mettesse piede nel vestibolo del grande appartamento dei McCoy al decimo piano, sapeva di trovarsi in uno di quei favolosi appartamenti per cui la gente, le monde, poteva anche morire! E che cosa potevi avere, al giorno d'oggi, per un milione? Al massimo, al massimo, al massimo: un alloggio con tre stanze da letto: niente stanze per la servitù, niente camere per gli ospiti, men che meno spogliatoi e solarium: in un grattacielo di mattoni a est di Park Avenue costruito negli anni Sessanta, con soffitti alti sui due e mezzo, sala da pranzo ma niente biblioteca, un atrio grande come un ripostiglio, niente caminetti, striminzite modanature in legno, eventuali pareti sottili che lasciano filtrare i sussurri e neppure un'entrata privata servita dall'ascensore. Oh, no. Al suo posto uno squallido andito per l'ascensore, con non meno di cinque patetiche porte metalliche color marroncino biliare, tutte difese da due o più orribili serrature, che davano sull'andito, e uno di quei deprimenti usci era il tuo.
Non c'erano dubbi: era una scelta impossibile! Stava seduto con le scarpe New & Lingwood aggrappate alla tazza del gabinetto e il giornale che frusciava nelle sue mani tremanti, mentre s'immaginava Campbell, gli occhi pieni di lacrime, che lasciava, per l'ultima volta, il marmoreo ingresso del decimo piano e iniziava la sua discesa verso gli inferi.
Dal momento che io l'ho previsto, Dio mio, non puoi permettere che ciò avvenga, non è vero?
Le Giscard! Devo muovermi. Subito! Devo avere l'imprimatur! L'espressione s'impadronì improvvisamente del suo cervello: un imprimatur. Quando un grosso affare come le Giscard veniva concluso, definito, una volta per tutte, si stilava un contratto stampato, in forma tipografica. Stampato, impresso, con l'imprimatur!
Stava seduto lì, a cavallo di una tazza di porcellana, implorando l'Onnipotente di fargli avere l'imprimatur.
Due giovani bianchi stavano seduti in una casa di Harlem e fissavano un uomo nero di mezza età. Il più giovane, quello che parlava, era sconcertato da quel che vedeva. Si sentiva come se fosse stato sottratto al colpo da una proiezione astrale e stesse ascoltando, come uno spettatore, le parole che gli uscivano di bocca.
«Così io non so esattamente come esporre il fatto, reverendo Bacon, ma noi… voglio dire la diocesi… La chiesa episcopale… le abbiamo dato trecentocinquantamila dollari come stanziamento iniziale per creare il Centro assistenziale diurno del Piccolo Pastore, e ieri abbiamo ricevuto la telefonata di un giornalista: ci ha detto che l'amministrazione delle Risorse Umane ha respinto la sua richiesta di una licenza nove settimane fa, e insomma, be', non riuscivamo a crederci. Era la prima volta che ne sentivamo parlare…»
Le parole continuavano a fluire dalla sua bocca, ma il giovane, che si chiamava Edward Fiske III, non ci pensava più. La voce andava da sé, automatica, mentre la mente tentava di centrare la situazione in cui si trovava. La stanza era una grande sala Beaux Arts piena di architravi in quercia ad alta venatura, cornicioni, rosoni di stucco, festoni con zone di luce dorata, perline ad angolo scanalato e zoccoli ogivali, tutto quanto restituito con estrema cura nello stile originale fin de siecle. Era il tipo di dimora che veniva eretta a New York dai baroni de! tessile, prima della prima guerra mondiale. Ma ora il barone di quella residenza, seduto dietro un'immensa scrivania di mogano, era un nero.
La poltrona girevole, dallo schienale alto, era imbottita in un cuoio costoso color sangue di bue. Non c'era alcuna traccia di emozione sul viso. Era uno di quegli uomini magri, ossuti, che hanno un'aria possente senza essere robusti e muscolosi. I capelli neri, radi sulla fronte, erano pettinati lisci all'indietro per qualche centimetro prima di incresparsi in tanti ricciolini, indossava un abito a doppio petto nero con risvolti a punta, camicia bianca con colletto alto e inamidato e cravatta nera a larghe strisce diagonali bianche. Al polso sinistro aveva un orologio d'oro massiccio.
Físke divenne in qualche modo consapevole del suono della propria voce: «… e quindi facemmo… per la verità, io la feci… una telefonata all'ARU e parlai con un certo signor Lubidoff che mi disse - io mi limito a ripeterle quello che ha detto lui - mi disse che parecchi ha detto sette per la precisione - sette dei nove consiglieri d'amministrazione del Centro assistenziale diurno del Piccolo Pastore hanno precedenti penali, e tre sono in libertà condizionata, e cioè, tecnicamente, legalmente…» gettò un'occhiata al suo giovane collega, Moody, un avvocato, «sono considerati o equiparati o, dovrei dire, sottoposti allo status di detenuto».
Fiske fissò il reverendo Bacon, spalancò gli occhi e inarcò le sopracciglia. Era un tentativo disperato di persuadere il barone a colmare il vuoto di conversazione. Non osava interrogarlo, porgli domande dirette. Tutt'al più poteva sperare di presentargli certi fatti che lo costringessero, nella logica della situazione, a reagire rispondendo.
Ma il reverendo Bacon non mutò neppure la sua espressione. Fissava il giovane come se osservasse un criceto sulla ruota dentro una gabbia. I baffetti sottili che sottolineavano il labbro superiore non si muovevano. Poi prese a tamburellare con le prime due dita della mano sinistra sulla scrivania, come per dire: "E quindi?".
Non fu il reverendo Bacon, ma proprio Fiske a non sopportare il silenzio e ci si tuffò.
«Quindi… Voglio dire, che, agli occhi dell'ARU - come la vedono loro - e sono l'autorità che concede le licenze per i centri di assistenza diurni, e lei sa bene quanto si accaniscano, quanto siano sensibili al problema dei centri, è una questione politica di rilievo. Il fatto che tre consiglieri del Centro assistenziale diurno del Piccolo Pastore, quelli in libertà condizionata, siano ancora in prigione, perché virtualmente stanno ancora scontando una condanna detentiva e siano ancora soggetti a tutte le… tutte le… be', non importa… e poi il fatto che anche altri quattro abbiano precedenti penali, il che è di per sé sufficiente a… a… be', i regolamenti non permettono…»
Le parole uscivano a fiotti, in modo maldestro, mentre la mente correva per tutta la stanza, cercando di trovare un'uscita. Fiske era uno di quei bianchi stupendamente sani che mantengono la carnagione rosea, simile a una pesca, di un tredicenne fin quasi a trent'anni. Proprio in quel momento la sua bella faccia chiara cominciava ad arrossire. Si sentiva imbarazzato. No, impaurito. Tra pochi momenti avrebbe dovuto affrontare l'argomento dei trecentocinquantamila dollari, a meno che il suo collega a fianco, Moody, l'avvocato, non lo facesse in vece sua. Dio onnipotente! Come aveva fatto a cacciarsi in quella situazione? Dopo essere uscito da Yale, Fiske era andato alla Wharton School of Business, dove aveva scritto una tesi per il master intitolata Aspetti quantitativi del comportamento etico in una società azionaria ad alta concentrazione di capitali. Era da tre anni direttore esterno della Comunità della diocesi episcopale di New York, una posizione che l'aveva coinvolto nel pesante sostegno morale e finanziario della diocesi in favore del reverendo Bacon e delle sue attività. Ma perfino nei primi giorni pieni di buoni auspici e di entusiasmo, due anni prima, non gli era stato facile mettersi in strada per andare fino a lì, nella vecchia casa di Harlem. Fin dall'inizio, migliaia di piccoli particolari avevano intaccato il suo profondo liberalismo intellettuale, a cominciare dal caso del "reverendo Bacon". Chiunque sia uscito da Yale, o almeno tutti gli episcopali usciti di là, sapevano che reverendo era un aggettivo, non un sostantivo. Era come onorevole, davanti al nome di un deputato o di un giudice. Ci si può rivolgere all'onorevole William Rehnquist, ma non lo si deve chiamare "onorevole Rehnquist". Allo stesso modo, si può dire: il reverendo Reginald Bacon o il reverendo signor Bacon, ma non "reverendo Bacon", … salvo che in quella casa, e in quella parte di New York, dove lo si doveva chiamare in qualsiasi modo volesse lui, lasciando perdere Yale e tutto il resto. La verità vera era che Fiske l'aveva trovato ostile, inaccessibile perfino in quei primi giorni in cui era stato tutto sorrisi. Erano d'accordo praticamente su tutti gli argomenti filosofici e politici. E tuttavia non erano affatto persone affini. E questi, di adesso, non erano i primi giorni. Questi forse andavano definiti gli ultimi giorni.
«E così, ovviamente, abbiamo un problema, reverendo Bacon. Finché non possiamo risolvere la questione della licenza - e francamente avrei voluto venirne a conoscenza nove settimane fa, quando successe il fatto - be', non vedo come ci sia modo di portare avanti il progetto. Intendiamoci, non che la questione non possa venir risolta, naturalmente, ma lei deve… be', a me sembra, perlomeno, che si debba, innanzitutto, essere molto realistici sui trecentocinquantamila dollari. È chiaro che questo consiglio - intendo dire, il suo consiglio attuale -, questo consiglio che non può spendere alcuna parte di quel denaro dato per il centro assistenziale, dovrà essere riorganizzato. Se ci pensa bene, significa che si dovrà anche procedere a una riorganizzazione della società, e questo richiederà tempo. Non moltissimo, ma, comunque, un po' di tempo, e…»
Mentre la sua voce si faceva strada a fatica, Fiske volse gli occhi al suo collega. Quel bel tipo, Moody, non pareva affatto sconcertato. Stava seduto in una poltrona, con la testa inclinata da una parte, molto freddamente, come se sapesse tutto del reverendo Bacon, vita morte e miracoli. Era la prima volta che veniva alla Casa di Bacon, e pareva considerarlo una specie di scherzo. Era l'ultimo socio dello studio Dunning Sponget & Leach e gli era stata affibbiata la diocesi, un cliente considerato di prestigio, ma "comodo". Venendo lì in auto, il giovane avvocato aveva detto a Fiske che anche lui aveva frequentato Yale.
Era stato linebacker della squadra di football e questo suo vanto lo aveva menzionato almeno cinque volte. Era entrato nel quartier generale del reverendo Bacon camminando come se avesse un barilotto di birra Dortmunder Light tra le gambe. Si era seduto abbandonandosi, magnificamente rilassato. Ma non aveva aperto bocca. «E così, per il momento» seguitò Fiske, «reverendo Bacon, secondo noi, la cosa più saggia da fare sarebbe - ne abbiamo parlato molto in diocesi - e questo è il pensiero di tutti quanti, non certo solo il mio - secondo noi, la cosa più saggia - e le ricordo che a noi sta soprattutto a cuore il futuro del progetto del Centro assistenziale diurno del Piccolo Pastore - perché noi siamo sempre pronti a sostenere questo progetto, al cento per cento - non c'è niente di cambiato secondo noi, la cosa più saggia da fare sarebbe mettere i trecentocinquantamila dollari - deducendo il denaro già speso per l'affitto del palazzo della Centoventinovesima Strada Ovest, naturalmente - si dovrebbero mettere quindi, i rimanenti - quanti?… trecentoquarantamila dollari, o quanti sono -, su un conto vincolato, e poi, quando lei avrà risolto il problema del consiglio d'amministrazione e avrà avuto la licenza dell'ARU, e non ci saranno più intralci burocratici di cui preoccuparci, quel denaro le verrà restituito: a lei e al suo nuovo consiglio d'amministrazione. Be'! Questo è tutto!»
Fiske sgranò gli occhi, inarcò di nuovo le sopracciglia e abbozzò perfino un sorrisetto amichevole, come per dire: "Ehi! Siamo tutti sulla stessa barca, no?". Guardò Moody, che continuava a fissare il reverendo Bacon con freddezza. Il reverendo Bacon non batté ciglio, e qualcosa in quello sguardo fisso spinse Fiske a decidere che era insensato continuare a guardarlo negli occhi. Spostò lo sguardo sulle dita del reverendo Bacon che rullavano sulla scrivania. Neanche una parola. Così ispezionò il piano della scrivania. C'erano un bel tampone di carta assorbente da tavolo con rivestimento di pelle, un contenitore Dunhill per penna e matita montato su piedistallo di onice, una raccolta di fermacarte e medaglie in lucite, molte delle quali dedicate al reverendo Bacon da organizzazioni civiche, un mucchio di fogli di carta sotto un fermacarte, consistente più che altro delle lettere WNBC-TV in ottone spesso, un citofono con una fila di pulsanti, e un grande portacenere a forma di scatola con lati di pelle bordati in ottone, ricoperto da un reticolo metallico.
Fiske teneva lo sguardo abbassato. Nel silenzio si udivano i rumori del palazzo. Al piano di sopra, assai smorzato dai pavimenti e dalle pareti molto spesse del palazzo, il suono fievole di un piano. Moody, seduto vicino a lui, probabilmente neppure lo avvertiva. Ma Fiske, dentro di sé, era in grado di cantare in sintonia con quegli accordi pieni e potenti.
«Il re-gno mil-le-na-rio…»
«Sarà… sarà…»
Accordi di decima.
«Mille anni di… e-ter-ni'-tàà.»
«Signore dei signoo-ri…»
«Di-io degli eserciti…»
Altri accordi. Un intero oceano di accordi. Lei era lassù proprio in quel momento. All'inizio, quando era cominciata tutta la faccenda: la diocesi e il reverendo Bacon… Fiske suonava spesso i dischi della madre del reverendo Bacon, di notte, e si univa a pieni polmoni al canto, con estatico abbandono: «Il re-gno mil-le-nario!»… un inno reso famoso da Shirley Caeser… oh, lui conosceva i cantanti di gospel! Lui! Edward Fiske III, Yale, 1980! E che aveva pienamente legittimato il suo ingresso in quel rigoglioso mondo dei neri! Il nome di Adela Bacon compariva ancora di tanto in tanto negli spartiti e negli arrangiamenti della musica gospel. Di tutte le organizzazioni elencate all'ingresso del palazzo, al pianterreno, SOLIDARIETÀ PER TUTTA LA GENTE, LE PORTE DELLA CHIESA DEL REAME, LA COALIZIONE PER L'IMPIEGO A PORTE APERTE, MATERNITÀ ATTENTA, LA CROCIATA ANTIDROGA IN DIFESA DEI BAMBINI, LA LEGA ANTIDIFFAMAZIONE DEL TERZO MONDO, IL CENTRO ASSISTENZIALE DIURNO DEL PICCOLO PASTORE, e tutte le altre, solo l'ENTE MUSICALE DEL REGNO MILLENARIO di Adela Bacon era organizzato secondo canoni tradizionali. Rimpiangeva di non essere mai riuscito a conoscerla personalmente. Lei aveva fondato le Porte della chiesa del Regno, che si riteneva essere la chiesa del reverendo Bacon, ma che in realtà non esisteva praticamente più. Lei l'aveva guidata; lei ne aveva gestito i servizi religiosi; lei aveva galvanizzato il gregge pentecostale con la sua stupefacente voce da contralto e le altissime onde create dall'oceano dei suoi accordi… lei, solo lei, era stata la vera autorità ecclesiastica che aveva ordinato suo figlio Reggie, reverendo Reginald Bacon. Sulle prime Fiske era stato scosso nell'apprenderlo. Poi, una grande verità sociologica si era fatta luce in lui. Tutte le credenze religiose sono arbitrarie, autoproclamate. Chi aveva imposto gli articoli di fede per i quali il suo capo, il vescovo episcopale di New York, era stato ordinato? Li aveva forse portati Mosè nelle tavole dalla montagna? No, li aveva immaginati un inglese qualche secolo prima, e molte persone dalle lunghe facce bianche erano state d'accordo e li avevano dichiarati legittimi e sacri. Per la società dei bianchi, la fede episcopale era soltanto più vecchia, più cristallizzata, più rispettabile di quella di Bacon.
Ma non era più tempo di occuparsi di teologia e storia della chiesa. Era tempo di recuperare trecentocinquantamila dollari.
Ora sentiva scorrere dell'acqua e aprirsi lo sportello di un frigorifero e una di quelle sensibilissime macchine per caffè stava arrivando a ebollizione. Questo significava che la porta del cucinino di servizio era aperta. Un essere nero, alto, fece capolino. Aveva una camicia azzurra da lavoro. Esibiva un lungo collo muscoloso e un orecchino d'oro, come un pirata da romanzo d'avventura. Quella era una delle caratteristiche di quel posto: il fatto che vi circolavano sempre questi… questi… questi… pesi massimi. A Fiske non sembravano più, come un tempo, romantici rivoluzionari. Parevano, anzi… il pensiero di quel che potevano essere lo costrinse a distogliere lo sguardo. Guardò oltre Bacon, dalla finestra che gli stava alle spalle e dava su di un cortile. Era primo pomeriggio, ma il cortile riceveva soltanto una pallida luce verdastra a causa degli alti edifici che lo chiudevano sul retro. Fiske riuscì a vedere i tronchi di tre enormi vecchi sicomori. Era tutto quanto rimaneva di quel che doveva essere stata una splendida vista, per la New York di altri tempi.
Gli accordi smorzati. Nella sua mente, Fiske poteva sentire la bella voce di Adela Bacon.
«Oh, che… devo dire, Signore?»
«E venne… a passare…»
Accordi smorzati a ondate.
«Una voce… dall'alto disse…»
«Tutta la carne… è d'erba un mare…»
Un immenso oceano di accordi.
Il reverendo Bacon smise di tamburellare con le dita. Piazzò le punte delle dita di tutt'e due le mani sul bordo della scrivania. Sollevò appena il mento e disse:
«Questa è Harlem.»
Lo disse piano e a voce bassa. Era calmo quanto Fiske era nervoso. Fiske non aveva mai sentito l'uomo alzare la voce. Il reverendo Bacon congelò lo sguardo e la posizione delle mani, al fine di concentrare tutta l'attenzione sulle parole.
«Questa» disse ancora una volta, «è Harlem… vedete…»
Fece una pausa.
«Voi venite qui, dopo tutto questo tempo, e mi dite che ci sono persone con precedenti penali nel consiglio di amministrazione del Centro assistenziale diurno del Piccolo Pastore. Mi informate di questo fatto.»
«Non sono io a dirlo a lei, reverendo Bacon» replicò Fiske. «È l'amministrazione delle Risorse Umane a dirlo a tutti e due.»
«Ma io ho qualcosa da ricordare a voi. Voglio ricordarvi ciò che voi avete detto a me. Chi vogliamo che mandi avanti il Centro assistenziale diurno del Piccolo Pastore? Ricordate? Vogliamo che le vostre ragazze di Wellesley e del Vassar vengano qui a prendersi cura dei bambini di Harlem? Vogliamo le vostre patronesse? Vogliamo i vostri burocrati con licenza statale? I vostri bei tipi di City Hall? È questo ciò che vogliamo? È questo ciò che vogliamo?»
Fiske si sentì costretto a rispondere. Obbediente, come un ragazzino di prima elementare, ammise: «No».
«No» ripeté il reverendo Bacon con approvazione, «non è questo che vogliamo. Che cosa vogliamo? Vogliamo che la gente di Harlem si prenda cura dei bambini di Harlem. Noi trarremo la nostra forza… la nostra forza… dalla nostra gente e dalle nostre strade. Ve l'ho detto molto tempo fa, sin dai primi giorni. Lo ricorda, Fiske? Lo ricorda?»
«Sì» ammise Fiske, sentendosi per un attimo più giovane e più indifeso davanti a quello sguardo fermo.
«Sì. Le nostre strade. Se un giovane cresce nelle strade di Harlem, è probabile che la polizia lo abbia schedato. Capite? Sì, lo hanno schedato, quel giovane. Parlo di una schedatura di polizia. E così, se dite a chiunque sia mai stato in prigione, a chiunque esca di prigione e a chiunque sia in libertà condizionata, se voi dite: "Non puoi partecipare alla rinascita di Harlem, perché ti abbiamo scartato dal momento che hai dei precedenti", allora voi non concorrete alla rinascita di Harlem. Parlate di un posto finto, di un regno da favola. Voi vi prendete in giro. Non state cercando una soluzione radicale. Volete giocare al solito vecchio gioco, volete vedere le solite vecchie facce. Volete praticare al solito vecchio colonialismo. Capite? Capite quel che vi dico?»
Fiske stava per annuire, quando d'un tratto Moody parlò: «Guardi, reverendo Bacon, queste cose le sappiamo già, ma non è questo il problema. Noi abbiamo un problema immediato, tecnico, legale. Per legge, all'ARU non è concesso di rilasciare una licenza in queste circostanze, punto e basta. Perciò occupiamoci di quel problema, parliamo dei trecentocinquantamila dollari e poi saremo in grado di risolvere i problemi più grandi».
Fiske non riusciva a credere a quel che stava sentendo. Involontariamente si ritirò sulla sedia e lanciò un'occhiata circospetta al reverendo Bacon. Il reverendo Bacon fissava Moody senza alcuna espressione. Lo fissò a lungo, fino a che non venne avvolto dal silenzio. Poi, senza separare le labbra, ficcò la lingua nella guancia finché la guancia non diventò come una pallina da golf. Si voltò verso Fiske e disse in tono pacato:
«Come siete venuti qua?»
«Ehm… in macchina» disse Fiske.
«Dov'è la macchina? Com'è?»
Fiske esitò. Poi glielo disse.
«Me lo dovevate dire prima» disse il reverendo Bacon. «Da queste parti c'è un cattivo soggetto.» Gridò: «Ehi, Buck!».
Dalla cucina uscì l'uomo alto con l'orecchino d'oro. Aveva rimboccato le maniche della camicia. I gomiti erano enormi. Il reverendo Bacon gli fece un cenno, quello gli andò vicino, si chinò, mise le mani sui fianchi e il reverendo Bacon gli disse qualcosa a bassa voce. Le braccia dell'uomo creavano angoli strepitosi dove si piegavano ai gomiti. L'uomo si drizzò, guardò con estrema gravità il reverendo Bacon, annuì e si apprestò a lasciare la stanza.
«Oh, Buck» disse il reverendo Bacon.
Buck si fermò e si guardò attorno.
«E tieni d'occhio quell'automobile.»
Buck annuì di nuovo e uscì.
Il reverendo Bacon guardò Fiske. «Spero che nessuno di quei ragazzi oziosi… in ogni caso, con Buck non faranno sciocchezze. Ora, che cosa stavo dicendo?» Sempre rivolto a Fiske. Era come se Moody non fosse più nella sala.
«Reverendo Bacon» disse Fiske, «io penso che…»
Il citofono del reverendo Bacon ronzò.
«Sì?»
Una voce di donna disse: «Irv Stone di Canale 1, sul 4-7».
Il reverendo Bacon si spostò verso un telefono sopra un mobiletto al suo fianco. «Pronto, Irv… Bene, bene… No, no. Soprattutto l'STG, Solidarietà per tutta la gente. C'è un sindaco che dobbiamo battere a novembre. Questa volta no, Irv, questa volta no. Basta dargli una spallata, a quell'uomo. Ma non ti ho fatto chiamare per questo. Ma per la Coalizione per l'impiego a porte aperte… ho detto la Coalizione per l'impiego a porte aperte… Da quanto? Molto, molto tempo. Non leggi i giornali?… Be', non importa. Ecco perché ti ho fatto chiamare. Sai, quei ristoranti in centro, tra la Cinquantesima e la Settantesima Est, quei ristoranti dove la gente spende cento dollari a pranzo e duecento a cena e non ci pensa neppure un minuto prima di andarci! Cosa? Non prendermi in giro, Irv. Vi conosco, voi gente della tivù. Sai, quel posto dove vai a pranzo tutti i giorni. La Boue d'Argent.» Fiske notò che il reverendo Bacon non aveva difficoltà nel pronunciare correttamente il nome di uno dei ristoranti più cari e più di moda di New York. «He, he, be', è quel che mi hanno detto. O è il Leicester's?» Corretto anche questa volta. Leicester's venne pronunciato Lester's, all'inglese. Ora il reverendo Bacon ridacchiava e sorrideva. Evidentemente si divertiva. Fiske fu lieto di vederlo sorridere… per qualsiasi cosa, poco importava. «Be', io volevo dire se hai mai visto in uno di quei locali un cameriere nero? L'hai visto? Hai mai visto un cameriere nero? Esatto, mai. Mai. In nessuno. E perché? Esatto. Anche i sindacati. Capisci che cosa sto dicendo? Esatto. Be', questo deve cambiare… capisci… deve cambiare. Martedì prossimo, da mezzogiorno in poi, la Coalizione andrà a dimostrare al ristorante Leicester's, e poi, dopo aver finito lì, andremo a La Boue d'Argent, al Macaque, al La Grise, ai Three Ortolans e a tutti gli altri locali del genere… Come? Con tutti i mezzi necessari. Tu parli sempre di "metraggio", Irv. Be', una cosa te la prometto. Avrai del metraggio. Mi segui? Telefoni al Leicester's? Certo. Fa' pure. No, davvero, non m'importa.»
Mentre riappendeva, disse, come se parlasse a se stesso: «Spero che li chiamino davvero».
Poi guardò i due giovani. «Su!» disse, come se fosse venuto il momento di stringere e di mandare tutti a casa. «Voi, ragazzi, avete visto con che cosa mi tocca aver a che fare, qui. Sono alle prese con la battaglia della mia vita. La battaglia… della… mia… vita. L'STG, la Solidarietà per tutta la gente. In novembre dovremo battere il sindaco più razzista nella storia degli Stati Uniti. La Coalizione per l'impiego a porte aperte: dobbiamo abbattere i muri della segregazione razziale nel mercato del lavoro. E la Lega antidiffamazione del Terzo Mondo: stiamo trattando con un mucchio di sfruttatori che stanno facendo un film superrazzista intitolato Harlem's Angels. Bande di teppisti, trafficanti di droga, drogati e ubriaconi: tutto qua. Stereotipi razziali. Secondo loro, non sono razzisti, perché c'è un uomo nero che guida una banda fino a Gesù. E invece sono più che razzisti, e devono venire informati e convinti in modo adeguato di questo fatto. Perciò, il giorno sta arrivando, a New York. L'ora è vicina. La battaglia finale, potreste dire. L'Esercito di Gedeone… e voi? Voi venite fin quassù e mi spiattellate davanti qualche stronz… qualche stupidaggine sul consiglio di amministrazione del Centro assistenziale diurno del Piccolo Pastore!»
Nella voce del barone era scoppiata la rabbia. Era arrivato quasi al punto di urlare la parola stronzata, e Fiske non lo aveva mai sentito pronunciare una parola sporca, neppure maledizione, in tutto il tempo che l'aveva conosciuto. Fiske era dilaniato tra il desiderio di abbandonare la casa prima che cominciasse la battaglia finale, e le fiamme dell'inferno si abbattessero laggiù, e il desiderio di conservare il posto di lavoro. Era stato lui a consegnare i trecentocinquantamila dollari al reverendo Bacon, tanto per cominciare. Ora doveva recuperarli.
«Be'» disse, tentando una mediazione, «forse lei ha ragione, reverendo Bacon. E noi… la diocesi… non siamo qui per complicare le cose. Onestamente vogliamo proteggerla, e vogliamo anche proteggere il nostro investimento. Le abbiamo dato trecentocinquantamila dollari, subordinati al rilascio della licenza del centro assistenziale. Così, se lei ci riconsegna i trecentocinquantamila dollari, o trecentoquarantamila quale che sia la cifra esatta, e ce li lascia mettere in un conto vincolato, noi la aiuteremo. Ci daremo da fare per lei, vedrà.»
Il reverendo Bacon lo guardò distrattamente, come se stesse ponderando una grande decisione.
«Non è così semplice» disse.
«Be'… perché no?»
«La maggior parte del denaro è… impegnata.»
«Impegnata?»
«Per le forniture.»
«Le forniture? Quali forniture?»
«Quali forniture? Buon Dio, figliolo: gli attrezzi, il mobilio, i calcolatori, i telefoni, il tappeto, l'aria condizionata, l'impianto di ventilazione… molto importante per i bambini, la ventilazione… i giocattoli sicuri. È difficile ricordarsi di tutto.»
«Ma, reverendo Bacon» disse Fiske, alzando il tono di voce. «Per il momento lei ha soltanto un magazzino vuoto. Io ci sono stato! Non c'è niente dentro! Lei non si è rivolto a un architetto. Non ha neppure fatto fare dei progetti!»
«Questo è il meno. In un progetto di questo tipo quel che conta è il coordinamento. Il coordinamento.»
«Il coordinamento? Non capisco… be', può anche essere. Ma se si è impegnato con dei fornitori, mi sembra il caso che li avverta che ci saranno dei ritardi inevitabili.» Fiske ebbe all'improvviso la sensazione di usare un tono troppo duro. «Se non le spiace, mi può dire quanto denaro le resta in mano, reverendo Bacon, impegnato o no?»
«Niente» disse il reverendo Bacon.
«Niente? Ma come può essere?»
«Quello era solo un primo stanziamento: il seme. Denaro da seminare che, in parte, è caduto su un terreno sterile.»
«Seme? Seminare? Reverendo Bacon, senza dubbio lei non avrà anticipato a quella gente del denaro prima che abbiano fatto il lavoro!»
«Sono aziende piccole, della minoranza. È gente che fa parte della nostra comunità. Era quello che si voleva! Ho ragione?»
«Sì. Ma senza dubbio lei non avrà anticipato…»
«Non sono aziende e ditte come le vostre, con quei vostri inventari computerizzati, i vostri "rimborsi scaglionati", le vostre "proprietà convertibili", i vostri "trasferimenti fittizi di capitale" e così via. Queste non sono aziende che hanno consulenti specializzati, come nell'industria dell'abbigliamento, a cui rivolgersi quando la sfortuna bussa alla porta con i vostri "ritardi inevitabili"… capisce… Queste sono aziende fondate dalla gente della comunità. I teneri germogli nati dai semi che abbiamo seminato… voi, io, la chiesa episcopale, la chiesa delle Porte del Reame. Teneri germogli… e voi dite: "Ritardi inevitabili". Non è soltanto un termine, non è soltanto burocrazia: è una condanna a morte. Una condanna a morte. È come dire: "Vogliate gentilmente crepare". Perciò non ditemi di avvertirli. Ritardi inevitabili, sì! Dite piuttosto: morte inevitabile.»
«Ma, reverendo Bacon… stiamo parlando di trecentocinquantamila dollari! Certo…»
Fiske guardò Moody. Era seduto, rigido. Non aveva più un'aria fredda, e non diceva una sola parola.
«La diocesi farà… ci sarà per forza una verifica contabile» disse Fiske. «Subito.»
«Oh, sì» disse il reverendo Bacon. «Ci sarà una verifica contabile. Si farà una verifica contabile… subito. Le dirò qualcosa, qualcosa sul capitalismo a nord della Novantaseiesima Strada. Perché mai voialtri pensate d'investire tutti questi soldi, i vostri trecentocinquantamila dollari, in un centro assistenziale a Harlem? Perché?»
Fiske non disse niente. I dialoghi socratici del reverendo Bacon lo facevano sentire infantile e sprovveduto.