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Telefonate dall'alto

Gene Lopwitz non riceveva alla scrivania. Faceva sedere gli ospiti su enormi poltrone Chippendale inglese e tavolini Chippendale irlandese davanti al caminetto. L'insieme Chippendale, come gli altri nel vasto spazio, era frutto della genialità di Ronald Vine, il famoso arredatore. Ma il caminetto era creazione di Lopwitz. Un caminetto in grado di funzionare. Gli inservienti della sala delle contrattazioni obbligazionarie erano davvero capaci di accendere un fuoco di legna là dentro: un fatto che aveva fornito spunto per settimane e settimane di risatine e sberleffi ai funzionari più cinici, quale Rawlie Thorpe.

Il palazzo, un moderno grattacielo per uffici, non era dotato di canne fumarie. Ma Lopwitz, dopo il primo anno di immenso successo personale, aveva deciso di avere un caminetto funzionante con una mensola in legno intagliato nel suo ufficio. E perché? Perché lord Upland, proprietario del «Daily Courier» di Londra, ne aveva uno. L'austero pari aveva dato una colazione in onore di Lopwitz nei suoi uffici nel vecchio e solenne palazzo in cotto di Fleet Street con la speranza di sbolognare agli yankee un bel po' di azioni "assai creative nella struttura" del «Daily Courier». Lopwitz non aveva mai dimenticato la bellezza del rito: un cameriere entrava di tanto in tanto a mettere un ciocco di legna sul fuoco caldo e gradevole che ardeva nel caminetto. Era così - come si potrebbe dire? - così baronale. Lopwitz si era sentito un ragazzino privilegiato, invitato nella casa di un grand'uomo.

La casa. Questo era il segreto. Gli inglesi, con quel loro istinto di classe perennemente sicuro, si erano resi conto che se uno era al vertice negli affari, non doveva avere il tipico ufficio da uomo d'affari, che lo faceva sembrare una parte intercambiabile di un vasto meccanismo. No, uno doveva avere un ufficio che pareva la casa di un aristocratico, in modo da poter proclamare: "Io, in persona, sono il signore, creatore e padrone di questa grande organizzazione". Lopwitz si era buttato in una tremenda lotta con i proprietari del palazzo e la società che lo gestiva, oltre che con l'assessorato all'edilizia e coi vigili del fuoco. La costruzione della canna fumaria e degli impianti di ventilazione era costata trecentocinquantamila dollari, ma alla fine l'aveva avuta vinta, e ora Sherman McCoy fissava pensieroso il cuore del focolare domestico, cinquanta piani sopra il livello stradale di Wall Street, appena appena fuori dell'area dove si svolgevano le contrattazioni obbligazionarie della Pierce & Pierce. Non c'era fuoco nel caminetto, comunque. Da un pezzo non ce n'erano stati.

Sherman avvertì una scarica di tachicardia nel petto. Tutti e due, Lopwitz e lui, erano seduti sui mostri Chippendale a schienale altissimo. Lopwitz non era portato ai discorsi oziosi neppure nelle occasioni più allegre, e questo incontro a quattr'occhi era destinato a finire in modo sgradevole. Il caminetto… le pulci… Cristo! Be', tutto era meglio che aver l'aria di un cane bastonato. Perciò Sherman si fece coraggio, si tirò su, alzò in aria il mento imponente, e cercò perfino di guardare un pochino dall'alto in basso il padrone e signore della potente organizzazione.

«Sherman» disse Gene Lopwitz, «non starò a menare il can per l'aia con te. Ti rispetto troppo per farlo!»

La scossa elettrica nel petto! Il cervello di Sherman correva impazzito insieme al suo cuore, e si sorprese a chiedersi, tutto sommato oziosamente, se Lopwitz sapeva da dove veniva la frase "menare il can per l'aia". Probabilmente no.

«Ho parlato a lungo con Arnold venerdì» diceva Lopwitz. «Adesso devo dirti una cosa… voglio che sia assolutamente chiaro che il denaro non c'entra, neppure il denaro perduto: qui questo particolare non c'entra.» La spedizione effettuata nel terreno della psicologia incise le guance già un po' cadenti di Lopwitz con rughe perplesse. Era un fanatico di jogging (uno degli adepti delle cinque del mattino). Aveva l'aspetto un po' spettrale e spiritato ma atletico di quelli che quotidianamente s'ispirano alla gola disseccata del grande dio aerobico.

Ora era immerso nella faccenda di Oscar Suder e delle obbligazioni della United Fragrance: Oscar Suder… e lui pensava a «The City Light». Che cosa significa "vicini a un'importante rivelazione nel caso di Henry Lamb"? L'articolo, sempre di quel Peter Fallow, era vago in modo sconcertante, a parte l'affermazione che la "svolta" era stata innescata dal pezzo del «City Light» sulle possibili targhe automobilistiche. Innescato! Era questo il termine che usavano! In qualche modo la parola aveva dato libero sfogo alla tachicardia quando si era seduto clandestinamente nel gabinetto. Nessun altro giornale aveva pubblicato articoli simili.

Adesso Lopwitz stava parlando del fatto che lui aveva disertato il giorno decisivo del grande affare delle obbligazioni francesi. Sherman si vedeva davanti le fatue mani di Freddy Button volteggiare attorno al portasigarette. Le labbra di Gene Lopwitz si muovevano. Suonò sommesso il telefono sul tavolino Chippendale irlandese accanto alla poltrona dall'ampio schienale di Lopwitz. Lopwitz lo sollevò e disse: «Sìì?… Okay, ottimo. È già in comunicazione?».

Incredibilmente, ora Lopwitz lanciò un'occhiata raggiante a Sherman e disse: «Ci vuole solo un secondo. Ho fatto dare un passaggio a Bobby Shaflett sull'aereo perché potesse arrivare in tempo a un appuntamento, a Vancouver. Adesso saranno sopra il Wisconsin o il Sud Dakota o un altro posto del genere».

Ora Lopwitz abbassò gli occhi e tornò a rifugiarsi nell'immensa poltrona; l'idea del famoso Montanaro d'oro, la cui famosa mole burrosa e la cui voce tenorile erano inscatolate dentro il jet personale di Lopwitz, gli strappò un sorriso: otto posti, motori Rolls-Royce. Ufficialmente, il jet era della Pierce & Pierce, ma praticamente era suo, personale, baronale. Lopwitz abbassò la testa, il volto, si animò notevolmente e disse: «Bobby? Bobby? Mi senti? Cosa? Come va? Ti trattano bene lassù? Cosa? Pronto? Pronto? Bobby? Sei sempre in linea? Pronto? Mi senti? Bobby?».

Con il telefono ancora in mano, Lopwitz guardò Sherman con occhio torvo, come se avesse fatto qualcosa di molto peggio che farsi infinocchiare sulle United Fragrance o assentarsi senza permesso. «Cazzo!» esclamò. «E caduta la linea.» Una piccola pressione sul ricevitore. «Signorina Bayles? È caduta la linea. Veda di riprendermi l'aereo.»

Riappese e aveva l'aria molto infelice. Aveva perso l'occasione di costringere il grande artista, la grande palla di grasso e fama, a ringraziarlo e, di conseguenza, a rendere omaggio all'eccellenza di Lopwitz dai cieli, tredicimila metri sopra il cuore dell'America.

«Okay, dov'eravamo rimasti?» chiese Lopwitz, con l'aspetto più arrabbiato che Sherman avesse mai visto. «Ah, già, le Giscard.» Lopwitz prese a scuotere la testa, come se fosse successo qualcosa di davvero terribile, e Sherman si preparò al peggio, poiché la disfatta delle obbligazioni ancorate all'oro era veramente l'evento peggiore. Un momento più tardi, tuttavia, Sherman ebbe la strana sensazione che Lopwitz stesse scuotendo la testa per la caduta della linea telefonica.

Il telefono tornò a squillare. Lopwitz vi si buttò sopra. «Sì? Ha l'aereo? Cosa? Be', d'accordo, me lo passi.»

Questa volta Lopwitz guardò Sherman e scosse la testa in segno di frustrazione e perplessità, come se Sherman fosse un vero amico capace di comprenderlo. «È Ronald Vine. Chiama dall'Inghilterra. Dal Wiltshire. Mi ha trovato certi pannelli. Laggiù sono sei ore avanti a noi. Quindi devo prendere la telefonata.»

La voce chiedeva comprensione e perdono. Pannelli? Sherman non poté far altro che fissare il vuoto. Ma, evidentemente timoroso che egli potesse dire qualcosa in un momento così critico e importante, Lopwitz alzò un dito e chiuse gli occhi per un attimo.

«Ronald? Da dove chiami? È come pensavo. No, lo so benissimo. Cosa vuol dire che non te li vendono?»

Lopwitz si cacciò in una fitta discussione con Ronald Vine, l'arredatore, lo stilista d'interni, a proposito degli ostacoli posti all'acquisto dei pannelli nel Wiltshire. Sherman tornò a guardare il caminetto. Le pulci… Lopwitz aveva usato il caminetto per circa due mesi, e poi mai più. Un giorno, mentre stava seduto alla scrivania, aveva provato una sensazione di forte prurito e di bruciore sotto la natica sinistra. Aveva delle bolle rosso fuoco: morsi di pulce! L'unica spiegazione plausibile era che le pulci avevano trovato il modo di arrivare fino al cinquantesimo piano, al potente piano delle contrattazioni obbligazionarie della Pierce & Pierce, con un carico di legna da ardere nel focolare e avevano morsicato il sedere del barone. Sugli alari d'ottone in questo momento c'era una catasta di pezzi di legno duro del New Hampshire scelti con cura, perfetti dal punto di vista scultoreo, perfettamente puliti, del tutto asettici, trattati con una quantità d'insetticida sufficiente a liberare da ogni insetto un boschetto di banani, installati là sopra, per sempre, che non sarebbero mai stati utilizzati.

La voce di Lopwitz si alzò d'intensità. «Che cosa vuoi dire che non li vendono per "commercio"? Sì, so che l'hanno detto a te, ma sanno che li prendi per me. Che cosa vogliono dire con quel "commercio"? Ahaaha! Sì? Be', di' loro che c'è solo una parola che possa qualificarli: trayf. Se io, per loro, sono "commercio", loro sono trayf. Che cosa vuol dire? Vuol dire, più o meno, "non kosher", solo che è peggio. In pratica, puoi tradurre questa parola con merda! C'è un vecchio detto: "Se guardi abbastanza da vicino, tutto è trayf e questo vale anche per quegli aristocratici mangiati dalle tarme, Ronald. Di' loro di prendersi i loro pannelli e di metterseli dove sanno.»

Lopwitz riappese e guardò Sherman molto irritato.

«D'accordo, Sherman, veniamo al sodo.» Si sarebbe detto che Sherman avesse passato il tempo a divagare, argomentare, confondergli le idee e così via tanto per farlo uscire di senno. «Non riesco a farmi un'idea di cos'è successo con le Giscard. Lascia che ti chieda una cosa.» Drizzò la testa e inalberò lo sguardo che diceva: "Sono un osservatore acuto della natura umana".

«Non sono un ficcanaso» disse, «ma vorrei che tu mi parlassi con franchezza. Hai dei guai a casa o cose del genere?»

Per un attimo Sherman considerò l'opportunità di far ricorso, da uomo a uomo, alla comprensione, e di rivelare qualche scampolo della sua infedeltà. Ma un sesto senso gli diceva che i "guai a casa" avrebbero soltanto fatto aumentare il disprezzo di Lopwitz e il suo appetito per i pettegolezzi, che sembrava essere notevole. Perciò scosse il capo, sorrise appena per indicare che la domanda neppure lo turbava, e disse: «No, niente affatto».

«Hai bisogno di un periodo di ferie?»

Sherman non sapeva cosa dire in proposito. Ma il morale crebbe. Almeno non pareva che Lopwitz avesse l'intenzione di cacciarlo. Per la verità non ebbe bisogno di parlare, poiché il telefono si fece sentire di nuovo. Lopwitz sollevò la cornetta, anche se non con tanta fretta questa volta.

«Sììì? Che cosa, signorina Bayles? Sherman?» Un sospiro profondo. «Be', è proprio qui.»

Lopwitz guardò Sherman con aria interrogativa. «Pare che sia per te.» Gli tese la cornetta.

Molto, molto strano. Sherman si alzò, prese la cornetta e si mise vicino alla poltrona di Lopwitz. «Pronto?»

«Signor McCoy?» Era la Bayles, la segretaria di Lopwitz. «C'è un certo Killian in linea. Dice che è "vitale" che parli con lei. Vuole prenderlo?»

Sherman sentì il cuore palpitargli in petto. Un attacco violento di tachicardia. «Sì. Grazie.»

Una voce disse: «Sherman?». Era Killian. Non lo aveva mai chiamato per nome prima. «Devo vederti subito.» A questo punto di confidenza!

«Sono nell'ufficio del signor Lopwitz» disse Sherman, con un tono di voce formale.

«Lo so» disse Killian. «Ma dovevo esser sicuro che non uscissi dal palazzo prima di averti parlato. Ho appena ricevuto una telefonata da Bernie Fitzgibbon. Affermano di avere un testimone che può… identificare le persone che erano sulla scena del delitto. Mi segui?»

«Capisco… la richiamo appena torno nel mio ufficio.» Sempre composto, impassibile.

«Okay, sono in ufficio, ma devo andare in tribunale. Perciò fai presto. C'è una cosa importante che devi sapere. Ti vogliono vedere domani, in forma ufficiale. In forma ufficiale, capito?» Da come Killian aveva detto "ufficiale", Sherman capì che doveva essere un'espressione in codice, nel caso che qualcuno nell'ufficio di Lopwitz avesse accesso alla conversazione.

«D'accordo» disse. Composto. Imperturbabile. «Grazie.» Ripose il ricevitore sulla forcella sopra il tavolino Chippendale irlandese e tornò a sedersi nella poltrona a schienale alto in stato di stupefazione assoluta.

Lopwitz andò avanti come se la telefonata non avesse avuto luogo. «Come ti ho detto, Sherman, non è perché tu hai perso del denaro della Pierce & Pierce. Non parlo di questo. Le Giscard erano un'idea tua. La strategia era davvero grandiosa, e l'avevi elaborata tu. Ma, voglio dire, Dio santo, ci hai lavorato per quattro mesi, e sei il nostro numero uno tra i venditori di obbligazioni. Così non è il denaro che ci hai perso, è che… eccoti qui, sei la persona che si ritiene più efficiente, e adesso ci troviamo in una situazione… tutta quella serie di cose di cui ti ho parlato…»

Lopwitz smise di parlare ed ebbe uno sguardo sbalordito quando Sherman, senza una parola, si alzò davanti a lui. Sherman sapeva quel che stava facendo, ma nello stesso tempo non pareva in grado di controllarsi. Non poteva certo alzarsi e andarsene lasciando Lopwitz nel bel mezzo di un discorso cruciale sulle sue prestazioni alla Pierce & Pierce, e tuttavia non era in grado di starsene seduto lì un secondo di più.

«Gene» disse, «mi devi scusare. Devo andare via.» Sentiva la propria voce come se gli arrivasse dall'esterno. «Mi spiace davvero, ma devo farlo.»

Lopwitz rimase seduto e lo guardò come se fosse improvvisamente impazzito.

«Quella telefonata» spiegò Sherman. «Mi spiace.»

Si avviò. In una sua visione periferica era consapevole che Lopwitz lo stava seguendo con lo sguardo.

Fuori, nella sala delle contrattazioni, la follia mattutina aveva raggiunto l'acme. Nel dirigersi verso il suo posto, Sherman ebbe l'impressione di nuotare attraverso il delirio.

«… le ottobre '92 a un dollaro secco…»

«Ho detto che gli leveremo anche le mutande a quei porci!»

Aahhhh, le briciole d'oro… Come pareva tutto inutile!

Appena si fu seduto alla sua scrivania, arrivò Arguello a dire: «Sherman, sai qualcosa di dieci milioni di Joshua Tre S&L?».

Sherman gli fece un gesto di ripulsa, come per avvertire qualcuno di starsene lontano da un incendio sul pendio di un colle. Notò che l'indice gli tremava nel formare il numero di Killian al telefono. Rispose la centralinista, e Sherman vide mentalmente la luce accecante dell'anticamera nel vecchio palazzo di Reade Street. Killian fu in linea un attimo dopo.

«Sei in un posto dove puoi parlare?» chiese. La confidenza!

«Sì. Cosa vuol dire che vogliono vedermi in forma ufficiale?»

«Vogliono metterti dentro. È immorale, non è necessario, è una stronzata, ma è quello che faranno.»

«Mettermi dentro?» Nel dirlo, ebbe la terribile sensazione di aver capito benissimo quel che intendeva Killian. La sua domanda era soltanto una preghiera involontaria, venuta dal sistema nervoso centrale, perché non fosse così.

«Vogliono arrestarti. E lo faranno. È un'indecenza. Dovrebbero presentarsi alla giuria con quel che hanno per le mani, ottenere un rinvio a giudizio e poi vedere quel che c'è da fare. Bernie lo sa benissimo, ma Weiss deve fare un arresto in tutta fretta per levarsi la stampa di dosso.»

La gola di Sherman si seccò al "vogliono arrestarti". Il resto erano solo parole.

«Mi arrestano?» Un gracidio.

«Weiss è un animale» disse Killian, «e con la stampa è una puttana.»

«Arresto… ma non è serio.» Ti prego, fa' che non sia vero. «Che cosa possono… di che cosa mi accusano?»

«Comportamento e guida gravemente pericolosi, omissione di soccorso e di denuncia dei fatti.»

«Non riesco a crederci!» Ti prego, fa' che non sia vero. «Ma da quel che mi ha detto… insomma, come possono? Non ero neppure alla guida!»

«Ma non per il loro testimone. Bernie mi ha detto che il testimone ha indicato la tua fotografia tra una serie di altre.»

«Ma non ero alla guida!»

«Ti riporto soltanto quel che mi ha detto Bernie. Dice che il testimone conosceva perfino il colore dell'auto e il modello.»

Sherman avvertiva il suo respiro affannoso e il ruggito nella sala delle contrattazioni.

Killian chiese: «Ci sei?».

Sherman, con voce rauca: «Sì… Chi è il testimone?».

«Non me l'ha detto.»

«L'altro ragazzo?»

«Non l'ha detto.»

«Oh! Cristo! Maria?»

«Questo non me lo direbbe.»

«Non ha parlato di una donna nella macchina?»

«No. I particolari se li tengono per sé a questo punto. Ma attento, lascia che ti dica una cosa. Non andrà così male come pensi tu. Ho un'assicurazione di Bernie. Posso portarti lassù e consegnarti io stesso. Sarà una cosa rapida: dentro e fuori. Pam-pam!»

Dentro e fuori da che cosa? Ma invece disse: «Consegnarmi?».

«Già. Se volessero, potrebbero venire in centro, arrestarti e poi portarti lassù in manette.»

«Lassù?»

«Nel Bronx. Ma questo non accadrà. Ho una promessa di Bernie. E quando lo faranno sapere alla stampa, sarai fuori. Puoi ben essere grato per questo.»

La stampa… il Bronx… consegnarmi… comportamento gravemente pericoloso… un'astrazione grottesca dopo l'altra. A un tratto si perse d'animo nell'immaginare quanto stava per succedere, nel raffigurarselo, qualsiasi cosa fosse, più che nel sentire semplicemente la forza orribile che lo stava soffocando.

Killian disse: «Ci sei ancora?».

«Sì.»

«Puoi ringraziare Bernie Fitzgibbon. Ricordi quel che ti ho detto sui contratti? Questo è un contratto, tra me e Bernie.»

«Be'» disse Sherman. «Devo venire lì a parlare.»

«Adesso devo andare in tribunale. Sono già in ritardo. Ma all'una dovrei essere libero. Fatti vedere verso l'una. Probabilmente avrai bisogno di un paio d'ore, comunque.»

Questa volta Sherman seppe esattamente di cosa stava parlando Killian. «Oh Dio!» disse con voce sempre più rauca, «devo parlare con mia moglie. Non sa assolutamente niente di questa faccenda!» Parlava più a se stesso che a Killian. «E mia figlia, i miei genitori… e Lopwitz… Non so… non so cosa dire… è così totalmente incredibile.»

«È come sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, vero? È la cosa più naturale del mondo. Non sei un criminale. Ma non andrà male come pensi. Questo non significa che hanno il caso in pugno. Significa solo che secondo loro hanno abbastanza materiale per fare una mossa. Perciò ti dico una cosa. O forse ti ripeto qualcosa che ti ho già detto. Dovrai dire a qualche persona cosa sta succedendo, ma non entrare nei particolari di quel che è successo quella sera. Tua moglie… be', quel che le dici rimane tra te e lei, e non posso frenarti in quel caso. Ma con tutti gli altri… non sbilanciarti. Può essere usato contro di te.»

Un'onda tristissima di sentimento si rovesciò addosso a Sherman. Che cosa dire a Campbell? E quanto capirà da quel che sentirà dire dagli altri su di lui? Sei anni, così sincera, schietta: una bambina che ama i fiori e i coniglietti.

«Capisco» mormorò con voce supremamente depressa. Come poteva evitare che Campbell venisse travolta da quel pasticcio?

Dopo aver salutato Killian rimase seduto alla scrivania e si lasciò scorrere davanti agli occhi le lettere e le cifre verde diodo sullo schermo del computer. Logicamente, intellettualmente, sapeva che Campbell, la sua bambina, sarebbe stata la prima persona a credergli completamente e l'ultima a perdere fiducia in lui, eppure era inutile tentare di pensare in termini di logica e d'intelligenza. Aveva davanti agli occhi il suo faccino tenero, squisito.

La sua preoccupazione per Campbell ebbe almeno un effetto benefico. Mise in ombra il primo dei suoi difficili compiti, che consisteva nel tornare da Eugene Lopwitz.

La signorina Bayles gli dette un'occhiata circospetta. Ovviamente Lopwitz le aveva detto che lui se n'era andato via così, come un pazzo.

Lo fece sedere in una pomposa poltrona francese e lo tenne d'occhio per tutto il quarto d'ora in cui lo fece attendere prima di essere riammesso.

Lopwitz era in piedi quando Sherman entrò nell'ufficio e non lo fece sedere. Al contrario, lo bloccò in mezzo alla stanza, sull'ampio tappeto orientale, come per dire: "Okay, ti ho lasciato tornare qui. Adesso, spicciati!".

Sherman sollevò il mento in un tentativo di riacquistare dignità. Ma si sentiva mancare all'idea di quello che stava per rivelare, per confessare.

«Gene» disse, «non avevo intenzione di andarmene di qui così bruscamente, ma non avevo scelta a causa della telefonata che ho ricevuto mentre stavamo parlando. Mi avevi chiesto se ho dei problemi. Be', per la verità, sì, ne ho. Verrò arrestato domattina.»

Lì per lì Lopwitz non fece altro che fissarlo in viso. Sherman notò com'erano spesse e raggrinzite le sue palpebre. Poi disse: «Andiamo là» e indicò alcune sedie a schienale alto.

Si sedettero di nuovo. Sherman provò una fitta di risentimento alla vista del profondo interesse sul volto da pipistrello di Lopwitz in cui si leggeva chiaramente voyeur. Sherman gli parlò del caso Lamb com'era apparso la prima volta sulla stampa e poi della visita dei due poliziotti a casa sua, ma senza i particolari umilianti. Intanto fissava il volto rapito di Lopwitz e sentiva la sua rivoltante eccitazione per l'essere dissoluto e libertino senza rimedio che butta del buon denaro per il male e una buona vita per bassi peccati e debolezze. La tentazione di dire tutto, di essere un vero libertino, di parlare dei dolci lombi struggenti di Maria Ruskin, della lotta nella giungla e della vittoria su due bruti, di dire a Lopwitz che, qualsiasi cosa avesse fatto, l'aveva fatta da uomo vero… e che da uomo vero era senza colpe… addirittura più che senza colpa… perfino eroico… la tentazione di sviscerare l'intero dramma… nel quale io non sono stato un personaggio malvagio!… era pressoché irresistibile. Tuttavia si trattenne.

«Era il mio avvocato che ha telefonato quando ero qui, Gene, che mi diceva di non scendere in particolari su quel che è successo o non è successo con chiunque, ora come ora, ma io voglio che tu sappia una cosa, soprattutto perché non so cosa si dirà poi sulla stampa. Cioè, voglio dirti che io non ho investito nessuno, con la mia automobile, che non guidavo in modo spericolato e che non ho fatto cose per cui la mia coscienza non sia tranquilla e in pace con se stessa.»

Appena ebbe detto "coscienza", si rese conto che ogni uomo colpevole parlava sempre di coscienza tranquilla.

«Chi è il tuo avvocato?» chiese Lopwitz.

«Si chiama Thomas Killian.»

«Non lo conosco. Avresti dovuto prendere Roy Branner. È il più grosso animale di tribunale di New York. Favoloso. Se per caso finissi nei guai, prenderei Roy. Se ti va, gli telefono subito.»

Imbarazzato, Sherman ascoltò Lopwitz che magnificava la forza del favoloso Roy Branner, i processi che aveva vinto, come lo avesse conosciuto, quanto fossero amici intimi e quanto bene si conoscessero le loro mogli, e quel che avrebbe fatto per lui, Sherman, se lui, Gene Lopwitz, gli avesse detto una parola.

Perciò questo fu l'istinto più immediato di Lopwitz, dopo aver appreso della crisi profonda nella vita di Sherman: parlargli della sua saggezza profonda e della gente importante che conosceva e quale presa avesse lui, il magnetico barone, sul Grande Nome. Il secondo istinto fu più pratico. Ed era stato scatenato dalla parola stampa. Lopwitz propose a Sherman, in un modo che non invitava alla discussione, di prendersi un periodo di ferie finché la situazione infelice non si fosse risolta.

Il suggerimento, del tutto ragionevole, dato con calma, scatenò un allarme a livello di nervi. Se si prendeva un periodo di ferie, poteva - non ne era completamente certo - poteva ancora ricevere il suo stipendio base di diecimila dollari al mese, e cioè meno della metà di quel che doveva pagare ogni mese per i mutui. Ma non avrebbe avuto il diritto di dividere con gli altri le commissioni e gli utili. A ogni effetto pratico, insomma, non avrebbe più avuto un reddito.

Il telefono sul tavolinetto Chippendale irlandese si fece sentire con il suo sommesso tubare. Lopwitz lo sollevò.

«Sìì? Davvero?» Un grande sorriso. «Stupendo! Pronto? Pronto? Bobby? Mi senti bene?» Guardò Sherman, gli fece un sorriso rilassato e mimò con la bocca il nome dell'uomo: Bobby Shaflett. Poi abbassò gli occhi e si concentrò sul microfono. Il volto era pieno di rughette e grinze di felicità pura. «Dici che va tutto bene? Meraviglioso! Sono lieto di farlo. Ti hanno dato qualcosa da mangiare, immagino? Bene, bene. Adesso stammi a sentire. Se hai bisogno di qualcosa, chiedi pure. Sono persone gentili, simpatiche. Lo sai che hanno volato tutti e due nel Vietnam? Oh, certo. Sono stupendi. Vuoi qualcosa da bere o altro? Chiedi pure. Ho qualche bottiglia di Armagnac del 1934 in aereo. Credo sia stivato dietro. Chiedi al più basso, Tony. Lui sa dov'è. Allora, quando ritorni stasera. È grandioso. Il 1934 è l'annata più straordinaria per l'Armagnac. È molto morbido, levigato. Ti aiuterà a rilassarti… E così è tutto a posto, eh?… Grande. Che cosa? Non è niente, Bobby. Lo laccio volentieri. Molto volentieri.»

Riappese. Non avrebbe potuto apparire più felice di così. Il più famoso cantante d'opera d'America era sul suo aereo, in viaggio verso Vancouver, Canada, insieme ai due ex capitani dell'aeronautica militare, veterani del Vietnam, ora piloti e camerieri di Lopwitz, che gli servivano Armagnac vecchio di più di mezzo secolo, milleduecento dollari la bottiglia, e ora il mitico ciccione lo ringraziava, gli porgeva i suoi rispetti, da tredicimila metri d'altezza sopra lo Stato del Montana.

Sherman fissò il viso sorridente di Lopwitz e si spaventò ancora di più. Lopwitz non era arrabbiato con lui. Non era turbato. Non era nemmeno particolarmente sorpreso. No, il fatto di Sherman McCoy non faceva poi una grande differenza. La collezione di stampe inglesi di Lopwitz sarebbe sopravvissuta ai problemi di Sherman, e anche la Pierce & Pierce. Per qualche tempo tutti si sarebbero goduti la storia succosa, avrebbero continuato a vendere obbligazioni in grandi quantità, mentre il nuovo venditore capo delle obbligazioni… chi? Rawlie? o qualcun altro? sarebbe intervenuto, nella sala delle riunioni in stile inglese, alla discussione sul come spostare i miliardi della Pierce & Pierce in questa o in quella parte del mercato. Ancora una telefonata aria-terra da qualche grassa celebrità e Lopwitz non si sarebbe neppure più ricordato chi mai fosse Sherman McCoy.

«Boby Shaflet» disse Lopwitz, come se lui e Sherman stessero lì seduti a bere un aperitivo prima di pranzo. «Volava sul Montana quando ha chiamato.» Scosse la testa e ridacchiò, come per dire: "Che sagoma!".