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Dal cinquantesimo piano

Sherman McCoy uscì dal suo palazzo tenendo per mano la figlia Campbell. Giorni velati di foschia come quello creavano una luce blu cenere singolare su Park Avenue. Ma una volta usciti dalla tenda che proteggeva l'ingresso… che splendore! La zona mediana del viale era una fascia ininterrotta di tulipani gialli. Ce n'erano a migliaia, grazie al contributo che i condomini della strada, come Sherman, versavano alla Park Avenue Association e le migliaia di dollari che l'associazione pagava al servizio di giardinaggio, il Wiltshire Country Gardens, gestito da tre coreani di Maspeth, Long Island. C'era qualcosa di celestiale nella luminosità gialla di tutti i tulipani. Proprio così. Mentre Sherman teneva la mano di sua figlia accompagnandola alla fermata del bus, si sentiva partecipe della grazia divina. Era uno stato sublime, e non costava molto. La fermata era appena dall'altra parte della strada. Non era possibile che la sua impazienza per i passettini di Campbell guastasse l'impulso rigenerante di paternità che assaporava ogni mattina.

Campbell faceva la prima al Taliaferro che, come tutti, tout le monde, sapevano, si pronunciava Toliver. Ogni mattina l'istituto Taliaferro mandava il proprio bus, il conducente del bus e l'accompagnatrice dei bambini a Park Avenue. Erano davvero poche le ragazzine del Taliaferro che non abitavano a quattro passi dal percorso del bus.

Per Sherman, che camminava lungo il marciapiede tenendo per mano Campbell, la bimba era un'autentica visione. Era una visione che si rinnovava ogni mattina. I capelli erano un trionfo di onde morbide come quelli della madre, ma più leggeri e più dorati. Il viso piccolo: la perfezione! Neppure gli anni impacciati dell'adolescenza lo avrebbero potuto alterare. Ne era certo. Nel suo grembiulino scolastico amaranto, la camicetta bianca con il colletto color ranuncolo, lo zainetto di nylon, le calze bianche al ginocchio: era un angelo. Sherman trovava la sola vista della figlia commovente al di là del pensabile.

Il portiere di giorno era un vecchio irlandese, Tony. Dopo aver aperto la porta per loro, uscì a sua volta sotto la tenda a guardarli mentre si allontanavano. Era bello! Bello davvero! A Sherman piaceva che lo si osservasse nel ruolo di padre. Quella mattina era una persona seria che rappresentava Park Avenue e Wall Street. Indossava un abito di pettinato grigioazzurro occhio di pernice, fatto su misura in Inghilterra costato milleottocento dollari, a un petto, due bottoni, risvolti classici. A Wall Street gli abiti a doppio petto con risvolti a punta venivano considerati un po' vistosi, un po' troppo azzimati. I folti capelli castani erano pettinati all'indietro. Raddrizzò le spalle e protese il lungo naso e il mento meraviglioso.

«Tesoro, lascia che ti abbottoni il golfino. Fa fresco.»

«Niente da fare, José» disse Campbell.

«Su, carina. Non voglio che ti prenda un raffreddore.»

«NO, Séjo, NO.» Si staccò da lui scuotendo le spalle. Séjo stava per José rovesciato. «N-n-n-n-Ohhhh.» Sherman sospirò e rinunciò al suo progetto di proteggere la figlia dagli elementi. Continuarono a camminare per un po'.

«Papà?»

«Sì, tesoro?»

«Papà, e se non c'è un Dio?»

Sherman fu sorpreso, sconvolto addirittura. Campbell lo stava guardando all'insù con un'espressione del tutto normale, come se avesse appena chiesto qual era il nome di quei fiori gialli.

«Chi ha detto che non c'è un Dio?»

«Cosa succede se non c'è?»

«Che cosa ti fa pensare… qualcuno ti ha detto che non c'è un Dio?»

Quale piccola sobillatrice della classe aveva sparso un simile veleno? Per quel che ne sapeva Sherman, Campbell credeva ancora in Babbo Natale, e invece eccola lì a mettere in forse l'esistenza di Dio! Eppure! Era una domanda precoce per una bambina di sei anni, no? Non c'erano dubbi. E pensare che una speculazione simile…

«Cosa succede se non c'è?» Era seccata. Chiederle da dove era venuta la domanda non era una risposta.

«Ma Dio c'è, amore. Perciò non posso dirti cosa succede se non c'è.» Sherman tentava sempre di non mentire alla figlia. Ma questa volta ritenne prudente aggirare l'ostacolo. Aveva sempre sperato di non dover discutere con lei di religione. Avevano cominciato a mandarla a dottrina alla chiesa episcopale di St. James, tra Madison e la Settantunesima. Così ci si occupa di religione. Si iscrivono i figli a St. James e si evita di riparlare o ripensare alla religione.

«Oh!» esclamò Campbell. Guardava lontano. Sherman si sentì in colpa. Lei se n'era uscita con una domanda difficile, e lui aveva svicolato. Eccola lì, a sei anni, alle prese con il più grande enigma della vita.

«Papà?»

«Sì, cara?» Trattenne il fiato.

«Ti ricordi la bicicletta della signora Winston?»

La bicicletta della signora Winston? Poi rammentò. Due anni prima, nell'asilo di Campbell, c'era una maestra che si chiamava Winston, sfidava il traffico e veniva a scuola in bicicletta ogni giorno. A tutti i bambini era sembrato meraviglioso che una maestra andasse a scuola in bicicletta. Da allora non aveva più sentito nominare la donna.

«Ah, sì, mi ricordo.» Una pausa ansiosa.

«MacKenzie ne ha una proprio così.»

MacKenzie? MacKenzie Reed era una ragazzina della classe di Campbell.

«Ah, sì?»

«Sì. Solo che è più piccola.»

Sherman attese il collegamento logico: ma non ci fu. Era così, niente da fare. Dio è vivo! Dio è morto! La bicicletta della signora Winston. No, niente da fare, José! NO, Séjo! Tutte cose che vengono fuori dallo stesso grande mucchio nello scatolone dei giocattoli. Sherman fu sollevato per un attimo, ma poi si sentì truffato. Il pensiero che sua figlia potesse davvero aver messo in discussione l'esistenza di Dio all'età di sei anni l'aveva preso come un segno d'intelligenza superiore. Negli ultimi dieci anni, nell'Upper East Side, per la prima volta, l'intelligenza era divenuta socialmente accettabile per le ragazze.

Parecchie bambine in grembiulino amaranto, con genitori e bambinaie, si erano radunate alla fermata dell'autobus del Taliaferro, sull'altro lato di Park Avenue. Appena Campbell le vide, cercò di sottrarre la mano a quella di Sherman. Aveva ormai l'età per quel tipo di reazione. Ma lui non la lasciò. Gliela strinse più forte e insieme attraversarono la strada. Era il suo protettore, il suo difensore. Guardò torvo un taxi che sì era fermato con gran rumore al semaforo. Volentieri gli si sarebbe scagliato contro, se fosse stato necessario per salvare la vita di Campbell. Mentre attraversavano Park Avenue, nella mente gli apparve il quadro di quanto fosse davvero ideale la coppia che formavano. Campbell, un angelo nell'uniforme di una scuola privata; lui, la nobile testa, il mento Yale, l'ampia struttura e l'abito inglese da milleottocento dollari, il padre dell'angelo: un uomo di qualità. Intuiva gli sguardi ammirati, gli sguardi d'invidia, dei conducenti, dei pedoni, di tutti quanti.

Alla fermata del bus Campbell si liberò. I genitori che accompagnavano le ragazzine alla fermata dell'autobus del Taliaferro erano euforici. Sempre di ottimo umore, davvero! Sherman prese a distribuire i suoi saluti. Edith Tompkins, John Channing, la mamma di MacKenzie Reed, la governante di Kirby Coleman, Leonard Schorske, la signora Lueger. Arrivato alla signora Lueger, non ne aveva mai saputo il nome, la gratificò con una seconda occhiata. Era una donna bionda sottile e pallida sempre senza trucco. Quella mattina doveva essersi precipitata alla fermata con la figlia all'ultimo momento. Indossava una camicia da uomo con i primi due bottoni slacciati. Portava anche un paio di vecchi blue-jeans e scarpette da danza classica. I jeans erano molto stretti, aderentissimi. Aveva un corpicino davvero stupendo! Aveva un'aria così… diafana, semiaddormentata e vulnerabile. Sa, lei ha proprio bisogno di una tazza di caffè, signora Lueger. Su, venga con me in un bar sulla Lexington. Oh, non è il caso signor McCoy. Allora venga su a casa mia, ho del caffè già pronto. La fissò per un paio di secondi più di quant'era giusto, e poi… pop… arrivò il bus, un grande veicolo solido tipo Greyhound, e le bambine saltarono sui gradini.

Sherman si girò e si allontanò, poi lanciò un'occhiata nella direzione della signora Lueger. Lei non lo stava guardando. Si era incamminata verso la sua abitazione. Le cuciture posteriori dei jeans la spaccavano praticamente in due. C'erano macchie biancastre su entrambi i lati del sedere. Erano come luci di posizione per la carne che, sotto, prorompeva. Che sedere meraviglioso! E lui che aveva sempre pensato a queste donne come a tante tenere mammine. Chissà quali fuochi roventi bruciavano nei loro lombi!

Sherman prese a camminare verso est, verso la stazione dei taxi tra la Prima Avenue e la Settantanovesima. Si sentiva su di giri. Perché? Non sapeva spiegarselo. La scoperta dell'adorabile piccola signora Lueger… sì, certo, ma per la verità si allontanava sempre dalla fermata del bus di buon umore. La scuola migliore, le ragazzine migliori, le famiglie migliori, la zona migliore della capitale del mondo occidentale alla fine del XX secolo: ma quella che gli rimaneva fissa in mente era la sensazione provocata dalla manina di Campbell che stringeva la sua. Per questo si sentiva così bene. Il contatto con la manina fiduciosa, completamente dipendente: la vita stessa!

Poi gli cadde l'animo. Camminava di buon passo, gli occhi svariavano pigramente sulle facciate delle case di arenaria. In quella mattina grigia avevano un aspetto vecchio e deprimente. Sacchetti di spazzatura in polietilene, dalle tinte tra il marrone cacca di cane e lo stronzo verde, erano stati depositati davanti alle case, presso i cordoli del marciapiede. I sacchi avevano un'aria sporca e appiccicosa. Come fa la gente a vivere in questo modo? Ad appena due isolati di distanza c'era l'appartamento di Maria, quello di Ralston Thorpe era da quelle parti. Sherman e Rawlie erano stati insieme a Buckley, St. Paul's e Yale, e ora lavoravano tutti e due alla Pierce & Pierce. Rawlie, dopo il divorzio, si era trasferito da un appartamento di sedici stanze sulla Quinta Avenue agli ultimi due piani di un vecchio palazzo d'arenaria da quelle parti. Davvero deprimente. Sherman aveva fatto un passo avanti pericoloso verso il divorzio la sera prima, no? Non solo Judy l'aveva colto in flagrante telephone, ineccepibile, ma in seguito lui, da quell'abietta creatura lasciva che era, aveva perseverato nell'errore e si era fatto scopare: esatto! Proprio quello! Scopare! Ed era tornato a casa dopo tre quarti d'ora. Che cosa sarebbe successo di Campbell se lui e Judy si fossero separati? Non riusciva neppure a immaginare la propria vita dopo tale avvenimento. Il diritto di far visita alla figlia nei fine settimana? Qual era l'espressione che si usava? Tempo di alta qualità? Terribile! L'animo di Campbell si sarebbe indurito di mese in mese fino a diventare un guscio impenetrabile, piccolo e in fondo fragile.

Dopo un mezzo isolato, si odiava di già. Avrebbe voluto tornare sui suoi passi, rientrare a casa, chiedere perdono e giurare che mai di nuovo… Avrebbe voluto, sì, ma sapeva che non l'avrebbe fatto. Non poteva arrivare in ufficio in ritardo, era molto malvisto alla Pierce & Pierce. Nessuno diceva niente, apertamente, ma tutti si aspettavano sempre che un serio professionista arrivasse presto, per cominciare subito a far soldi e padroneggiare l'universo. Un fiotto di adrenalina… la Giscard! Stava concludendo il più grande affare della sua vita, la Giscard, l'obbligazione garantita dall'oro… Padrone dell'Universo! Poi, di nuovo, si sentì depresso. Judy aveva dormito sulla dormeuse dello spogliatoio, vicino alla camera da letto. Dormiva ancora, o faceva finta, quando lui si era alzato. Be', grazie a Dio, quanto a questo. Non avrebbe gradito un altro scontro con lei quella mattina, soprattutto con Campbell o Bonita in ascolto. Bonita era una di quelle donne di servizio sudamericane dal comportamento assolutamente gradevole, ma nello stesso tempo molto formale. Esibire rabbia o sofferenza di fronte a lei sarebbe stato uno sbaglio imperdonabile. Non c'era da meravigliarsi che un tempo i matrimoni reggessero di più. I genitori di Sherman e i loro amici avevano tutti quanti molte persone di servizio, e queste persone di servizio lavoravano molte ore al giorno e vivevano nella casa padronale. Se non si voleva litigare di fronte alle persone di servizio, non rimanevano molte occasioni di litigare, in assoluto.

Perciò nella migliore tradizione McCoy, proprio come avrebbe l'atto suo padre - a parte che non riusciva a immaginare suo padre in un simile pasticcio - Sherman aveva salvato le apparenze. Aveva fatto colazione in cucina con Campbell, mentre Bonita le dava da mangiare e la preparava per la scuola. Bonita aveva un televisore portatile in cucina e si girava continuamente a guardare e a sentire le notizie sui disordini a Harlem. Erano notizie scottanti, ma Sherman non ci aveva prestato attenzione. Gli era parso tutto così remoto… il tipo di cose che accadono laggiù… in mezzo a quella gente. Lui era stato troppo occupato a esibire fascino e allegria perché Bonita e Campbell non avvertissero l'atmosfera avvelenata che avvolgeva la casa.

Ormai Sherman era arrivato alla Lexington Avenue. Si fermava sempre all'incrocio e comperava il «Times». Appena girato l'angolo, vide una ragazza che stava venendo verso di lui, una ragazza alta con tanti capelli biondi. Una grossa borsa con cinghia le pendeva dalle spalle.

Camminava in fretta e sembrava diretta alla metropolitana della Settantasettesima Strada. Portava un lungo golf aperto davanti, che rivelava una camicetta polo con un piccolo emblema ricamato sul seno sinistro. Indossava un paio di pantaloni bianchi larghissimi, alla pagliaccio, trasandati, ma eccezionalmente stretti all'inguine. Eccezionalmente! Una fenditura straordinaria. Sherman la fissò e poi le guardò il viso. Lei gli restituì lo sguardo. Lo guardò direttamente negli occhi e sorrise. Non rallentò e non gli lanciò uno sguardo provocante. Fu, invece, uno sguardo fiducioso, ottimistico, che diceva chiaramente: "Salve! Siamo una coppia di animali di bell'aspetto, vero?". Così franca! Così sfacciata! Quanta ardente immodestia!

Nel negozio, dopo aver pagalo il «Times», Sherman si girò verso l'uscita e posò lo sguardo su una rastrelliera di riviste. Fu aggredito da un'imponente esposizione di pelle color salmone che parve colpirlo in faccia: ragazze… ragazzi… ragazze con ragazze… ragazzi con ragazzi… ragazze con ragazzi… ragazze con il seno nudo, ragazze con il sedere nudo, ragazze con apparati vari… un tripudio festoso di pornografia, una festa rumorosa, un'orgia, un truogolo. Sulla copertina di una rivista c'era una ragazza che indossava soltanto un paio di scarpe a tacchi alti e un perizoma… non proprio un perizoma: un serpente… che, non si sa come, si era acciambellato sull'inguine e fissava Sherman. Anche lei lo fissava… Sul volto, un sorriso solare, spontaneo. È il volto della ragazza che ti serve una coppa di gelato al cioccolato al Baskin-Robbins…

Sherman riprese la marcia verso la Prima Avenue in stato di agitazione. Era nell'aria! Come un'onda! Dappertutto! Inevitabile! Il sesso! È lì, dappertutto, offerto! Lungo tutto il percorso, sfacciato, esibito, manifesto! Se sei un uomo giovane, e abbastanza vivace, che cosa puoi fare? Tecnicamente, era stato infedele a sua moglie. Be', certo… ma chi riusciva a restare monogamo in quell'ondata di concupiscenza che sommergeva il mondo? Dio onnipotente! Un Padrone dell'Universo non poteva essere un santo, dopotutto… Era inevitabile. Per l'amor di Dio, come si possono schivare i fiocchi di neve? E quella era una tempesta! Lui era stato soltanto preso nel bel mezzo di una bufera: tutto qui, o quasi. Non significava niente. Nessuna dimensione morale. Niente più che finire bagnato fradicio. Quando arrivò alla stazione dei taxi tra la Prima e la Settantanovesima, aveva appena finito di ragionare sulla faccenda e si era messo il cuore in pace.

All'angolo tra la Settantanovesima e la Prima i taxi erano in fila tutti i giorni per portare i giovani Padroni dell'Universo a Wall Street. Stando alle regole, ogni tassista era tenuto a portarti dovunque tu volessi andare, ma i conducenti in fila tra la Settantanovesima e la Prima non si muovevano neppure, a meno che tu non andassi a Wall Street o nelle vicinanze. Dal posteggio si spostavano per un paio di isolati verso est; poi proseguivano lungo l'East River sull'autostrada, l'FDR, il Franklin Delano Roosevelt Drive. Voleva dire un viaggio da dieci dollari tutte le mattine, ma cos'erano mai per un Padrone dell'Universo? Il padre di Sherman aveva sempre preso la sotterranea per andare a Wall Street anche quando era a capo dello studio Dunning Sponget & Leach. Perfino adesso, a settantun anni di età, quando faceva le sue escursioni giornaliere allo studio Dunning Sponget per respirare, alcune ore al giorno, quella stessa aria che respiravano i suoi vecchi amici e colleghi avvocati, ci andava in metropolitana. Questione di principio. Più sinistra diventava la metropolitana, più graffiti venivano scarabocchiati nelle vetture, più catenine d'oro si strappavano dal collo delle ragazze, più vecchi venivano rapinati, più donne venivano gettate contro i treni, e più John Campbell McCoy era deciso a non farsi escludere dalla metropolitana di New York. Ma per la nuova generazione, la giovane generazione, la generazione dei padroni, la generazione di Sherman, tale principio non vigeva affatto. Isolamento! Questo era il principio in vigore. Questo era il termine usato da Rawlie Thorpe. «Se vuoi vivere a New York» aveva detto una volta a Sherman, «devi isolarti, isolarti, isolarti» intendendo dire isolarti da quella gente, dalla gente che infestava la metropolitana. Il cinismo e la brutalità del concetto avevano colpito Sherman come molto au courant. Se potevi percorrere l'FDR Drive all'aria aperta o quasi in un taxi, perché immergerti nelle trincee della guerriglia urbana?

Il conducente era turco? armeno? Sherman cercò di decifrarne il nome sul cruscotto. Quando il taxi fu sul Drive, si mise a leggere il «Times». In prima pagina c'era la fotografia di una folla scalmanata sul palcoscenico e il sindaco che la fissava. I disordini di Harlem, senza dubbio. Prese a leggere il resoconto, ma la mente divagava, il sole stava spuntando dalle nuvole. Lo poteva osservare sul fiume, alla sua sinistra. In quel momento il povero fiume sporco luccicava. Ci sarebbe forse stato un giorno di sole in maggio. In alto, poco più in là, le toni del New York Hospital si ergevano sul bordo dell'autostrada. C'era un cartello che segnalava l'uscita per la Settantunesima Est, quella che suo padre prendeva sempre quando tornavano da Southampton, la domenica sera. La vista stessa dell'ospedale e dell'uscita fece pensare a… no, non tanto pensare a, quanto sentire la casa nella Settantatreesima Strada con le sue stanze dal colore verde grigiastro pallido dove era cresciuto e aveva arrancato su e giù per le quattro strette rampe di scale sicuro di vivere al vertice dell'eleganza, nella residenza del possente John Campbell McCoy, il Leone di Dunning Sponget & Leach. Solo da poco aveva finalmente compreso che nel 1948, quando i suoi genitori avevano comperato e ristrutturato quella casa, erano una giovane coppia vagamente avventurosa, che si era impegnala a rimettere in piedi quello che allora era un alloggio disastrato in un isolato decaduto, tenendo sempre d'occhio, comunque, le spese e inorgogliendosi alla fine per la bella casa da loro creata con una somma relativamente modesta. Cristo! Se suo padre dovesse mai scoprire quanto aveva pagato per il suo appartamento, e quanto si era impegnato finanziariamente, gli sarebbe venuto un colpo! Due milioni e seicentomila dollari, di cui un milione e ottocentomila dollari di mutuo: cioè ventunomila dollari al mese per capitale e interessi, e il pagamento di un milione di dollari entro due anni, in ogni caso. Il Leone di Dunning Sponget ne sarebbe stato atterrito o, peggio, ferito, ferito al pensiero di come le sue lezioni, ripetute senza tregua, a proposito di dovere, debiti, ostentazione e senso delle proporzioni, non fossero neppure entrate nella testa del figlio.

Chissà se suo padre si era mai dato da fare con le donne? Non era impossibile, in fondo. Era un bell'uomo. Aveva il "mento". E tuttavia Sherman non ce lo vedeva.

Quando scorse il ponte di Brooklyn, smise di pensarci. Dopo pochi minuti sarebbe giunto a Wall Street.

La banca d'investimenti Pierce & Pierce occupava il cinquantesimo, cinquantunesimo, cinquantaduesimo, cinquantatreesimo e cinquantaquattresimo piano di un grattacielo di vetro che si ergeva per sessanta piani nel buio ventre di Wall Street. La sala per la contrattazione delle obbligazioni, dove lavorava Sherman, era al cinquantesimo. Ogni giorno, uscendo da un ascensore dalle pareti di alluminio, entrava in quella che pareva la vasta reception di uno di quei nuovi alberghi di Londra che provvedono alle necessità dei turisti americani. Accanto alla porta dell'ascensore spiccavano un caminetto falso e un'antica mensola di mogano con grandi grappoli di frutta istoriati agli angoli. Davanti al falso caminetto un paracenere d'ottone, di quelli usati nelle case di campagna nell'Inghilterra occidentale. Nei mesi appropriati, un falso fuoco "ardeva" là dentro e scintille guizzavano su un prodigioso paio di alari. La parete circostante era ricoperta di doghe di mogano massiccio e rossastro, così profondamente intagliate che si poteva calcolarne il costo spropositato senza neppure sfiorarle.

Tutto questo rifletteva la passione del direttore generale della Pierce & Pierce, Eugene Lopwitz, per lo stile inglese. Inglesi le scalette da biblioteca, gli scaffali curvi dalle gambe Sheraton, gli schienali Chippendale, i tagliasigari, le poltrone imbottite, i tappeti Milton. E si moltiplicavano al cinquantesimo piano alla Pierce & Pierce, giorno per giorno. Ahinoi, ben poco aveva potuto fare, tuttavia, Eugene Lopwitz per il soffitto, che solo due metri e mezzo separavano dal suolo. Il pavimento era stato rialzato di almeno trenta centimetri, e lì sotto correvano fili e cavi che sarebbero stati sufficienti a fornire elettricità a tutto il Guatemala. I fili erogavano l'energia ai terminali dei calcolatori e ai telefoni della sala adibita alla trattazione delle obbligazioni. Il soffitto era stato abbassato di altri trenta centimetri abbondanti per far posto ai fili dell'illuminazione, ai condotti dell'aria condizionata e a qualche altro chilometro di cavi. Il pavimento era stato alzato, il soffitto abbassato: pareva di stare in una grande residenza inglese che era stata schiacciata.

Appena superato il falso caminetto, si udiva un ruggito infernale, come il boato di una folla in tumulto. Veniva da un punto indistinto dietro l'angolo. Impossibile non sentirlo. Sherman McCoy marciò senza indugi e con immenso piacere verso il frastuono. Quel particolare mattino, come ogni mattino, rimbombava in tutta la sua intensità.

Girò l'angolo, ed eccola lì: la sala adibita alla contrattazione delle obbligazioni della Pierce & Pierce. Era un vasto locale, più o meno venti per trenta, con, a due metri e mezzo, il solito soffitto sulla testa. Era un locale opprimente con luce accecante, sagome agitate… e un immane ruggito. La luce proveniva da una parete di cristallo rivolta a sud, sul porto di New York, la Statua della Libertà, Staten Island e le spiagge di Brooklyn e del New Jersey. Le sagome agitate erano braccia e torsi di uomini giovani, pochi di loro erano oltre i quarant'anni. Tutti si erano tolti la giacca e si agitavano concitatamente, sudando già di primo mattino. Urlavano, e proprio quelle grida davano corpo al ruggito, al boato nato da giovani bianchi di buona educazione e ottima istruzione che abbaiavano speranzosi al denaro sul mercato obbligazionario.

«Alza quel telefono del cazzo, per favore!» urlò un laureato di Harvard, 1976, grassoccio, roseo in faccia, a un tale distante due file di scrivanie. La sala pareva la stanza della cronaca cittadina di un giornale, senza separazioni e segni visibili della gerarchia. Tutti sedevano a scrivanie metalliche grigio chiaro di fronte a un calcolatore color carne con schermo nero. File di lettere e numeri verde diodo attraversavano rapidamente lo schermo.

«Ti ho detto di alzare quel telefono del cazzo, per favore! Non scherzavo, accidenti!» Sotto le ascelle della camicia comparivano ampie chiazze di sudore, e la giornata era appena cominciata.

Un laureato di Yale, 1973, con un collo che pareva venire fuori trenta centimetri dalla camicia, fissava lo schermo e urlava nel telefono a un broker di Parigi: «Ma non vedi quello schermo del cazzo! Oh, per l'amor del cielo, Jean-Pierre, sono del compratore i cinque milioni! Del compratore!. È l'ultima parola!».

Poi coprì con una mano il microfono, sollevò lo sguardo al cielo e disse a voce alta a nessuno, a parte Mammona: «Quei ranocchi di francesi! Quei ranocchi del cazzo!».

Quattro scrivanie più in là, un laureato di Stanford, 1979, stava fissando un pezzo di carta sulla scrivania, mentre portava il telefono all'orecchio; aveva il piede destro sulla staffa di un sostegno portatile per lucidare le scarpe, e un uomo di colore, un certo Felix, sui cinquant'anni, o magari sui sessanta, era chino sul piede e strofinava la scarpa con uno straccio per lucidare. Per tutto il giorno lavorativo Felix si spostava da scrivania a scrivania, a lucidare le scarpe di giovani venditori e compratori di obbligazioni, mentre questi lavoravano, a tre dollari l'uno, mancia compresa. Raramente si scambiavano due parole. Felix non veniva neppure notato nella concitazione. Proprio in quel momento l'uomo di Stanford, 1979, si alzò dalla sua sedia, lo sguardo sempre attaccato al foglio di carta, il telefono sempre all'orecchio, il piede destro sempre sulla staffa. Gridò: «E va bene, ma perché credi che tutti si liberino di quelle stupide ventennali?».

E non toglieva mai il piede dal banchetto! Che gambe possenti doveva avere, pensò Sherman. Si sedette davanti al suo telefono e ai suoi terminali. Gli urli, le imprecazioni, il gesticolare, la tremenda paura e l'avidità lo avvilupparono, eppure amava tutto questo. Era il numero uno dei venditori di obbligazioni, "il più grosso produttore", così si diceva nella sala dove si trattavano le obbligazioni della Pierce & Pierce, al cinquantesimo piano, e lui adorava quell'immane frastuono nella tempesta.

«L'ordine di Goldman ha incasinato tutto!»

«… aumenta quel lingotto del cazzo e…»

«… le do a otto e mezzo…»

«Ti do trenta secondi!»

«Qualcuno ti ha fatto un quadro sbagliato! Non capisci?»

«Prendo un ordine a sei, e basta!»

«Le quinquennali sfondano!»

«Ne vendo cinque!»

«Non puoi fare dieci?»

«Secondo te, vanno ancora su?»

«Le ventennali sono calde! I cazzoni continuano a ripeterlo!»

«… cento milioni luglio '90 a un dollaro…»

«… all'osso…»

«Cristo! Che cosa succede?»

«Col cazzo che ci credo!»

«Col cazzo!» gridavano gli uomini di Yale e gli uomini di Harvard e gli uomini di Stanford. «Co-ol Caz-zo!»

Oh, come questi virgulti delle grandi università, questi eredi e legatari di Jefferson, Emerson, Thoreau, William James, Frederick Jackson Turner, William Lyons Phelps, Samuel Flagg Bemis, e gli altri giganti a tre nomi del sapere americano… come questi eredi della lux e della Veritas si accalcavano e scalpitavano a Wall Street e nella sala delle contrattazioni della Pierce & Pierce! E quali racconti circolavano in ogni campus universitario! Se non facevi duecentocinquantamila dollari l'anno entro cinque anni, o eri supremamente stupido o assurdamente pigro. Questo era quanto si diceva. A trent'anni mezzo milione di dollari: questa somma aveva sentore di mediocrità. A quaranta, o facevi un milione all'anno oppure eri pavido e incompetente. Sfondo subito! Quel motto bruciava in ogni cuore, come una miocardite. I ragazzi di Wall Street, ragazzi veri e propri, con le guance lisce e le arterie pulite, ragazzi ancora capaci di arrossire, si comperavano appartamenti da tre milioni di dollari in Park Avenue o nella Quinta (perché aspettare?). E comperavano a Southampton seconde case di trenta stanze, con quattro acri di terreno, costruite negli anni Venti e deprezzate negli anni Cinquanta perché inutilmente dispendiose, case con ali per la servitù in rovina, le ristrutturavano, magari ampliandole, quelle ali della servitù (perché no? La servitù ce l'abbiamo). Facevano trasportare e montare giostre di luna park sui grandi prati verdi, per le feste di compleanno dei bambini, e ingaggiavano squadre di lavoratori di luna park per azionarle (una piccola industria fiorente).

Ma da dove veniva tutto quel denaro, peraltro recente? Sherman aveva ascoltato Gene Lopwitz dissertare sull'argomento. Secondo l'analisi di Lopwitz, dovevano ringraziare tutti Lyndon Johnson. In tutta tranquillità gli Stati Uniti avevano cominciato a stampare denaro a miliardi per finanziare la guerra nel Vietnam. Prima che tutti quanti, compreso Johnson, si rendessero conto di quel che stava succedendo, era scoppiata un'inflazione su scala mondiale. Tutti ne presero subito atto quando gli arabi fecero salire vertiginosamente il prezzo del petrolio all'inizio degli anni Settanta. Immediatamente, ogni tipo di mercato divenne un gioco d'azzardo impazzito: oro, argento, rame, valute, certificati bancari, azioni… perfino obbligazioni. Per decenni il ramo obbligazionario era stato il gigante malato di Wall Street. In aziende come Salomon Brothers, Morgan Stanley, Goldman Sachs e Pierce & Pierce, da sempre era circolato il doppio del denaro sulle obbligazioni rispetto alle azioni. Ma i prezzi si erano mossi di pochi centesimi per volta, e per lo più in discesa. Lopwitz diceva che "il mercato delle obbligazioni era in discesa fin dalla battaglia delle Midway". La battaglia delle Midway (Sherman aveva dovuto controllarlo) era avvenuta durante la seconda guerra mondiale. Il reparto obbligazionario della Pierce & Pierce era formato, un tempo, soltanto da una ventina di anime, una ventina di anime piuttosto noiose, note come le Barbe delle Obbligazioni. Gli elementi meno promettenti dell'azienda venivano scaricati nel settore obbligazioni, dove non potevano nuocere.

Sherman respingeva il dubbio che fosse stato così anche quando lui era entrato nel servizio delle obbligazioni. Be', in quei giorni non si parlava più di Barbe. Oh, no! Niente affatto! Il mercato aveva preso fuoco, e venditori esperti come lui erano diventati improvvisamente molto richiesti. D'un tratto, nelle banche d'investimenti di tutta Wall Street, le Barbe di un tempo stavano facendo tanti di quei soldi che presero a radunarsi, dopo il lavoro, in un bar di Hanover Square per raccontarsi imprese mitiche e rassicurarsi a vicenda che non si trattava di fortuna spudorata, ma piuttosto di un gran fiorire di talento collettivo. Ora le obbligazioni rappresentavano i quattro quinti del giro d'affari della Pierce & Pierce, e i giovani virgulti di Yale, Harvard, Stanford facevano di tutto pur di entrare nella sala delle contrattazioni obbligazionarie della Pierce & Pierce, e proprio in quel momento le loro voci rimbalzavano sulle pareti rivestite di pannelli di mogano fatti montare da Eugene Lopwitz.

Padroni dell'Universo! Il ruggente boato riempì l'anima di Sherman di speranza, fiducia, spirito di corpo e rettitudine. Sì, rettitudine! Judy non capiva assolutamente nulla di queste cose, vero? Nulla di nulla. Eh, sì, lui notava gli occhi di lei vuotarsi d'espressione quando parlava di queste cose. Quel che faceva lui, in fondo, era azionare la leva che muoveva il mondo… e tutto quel che interessava sapere a lei era come mai non riuscisse spesso a essere a casa per cena. E quando riusciva a essere a casa per cena, di cosa voleva parlare lei? Del suo raffinato lavoro d'arredatrice e di come fosse riuscita a far comparire il loro appartamento su «AD», cosa che, francamente, per un autentico uomo di Wall Street era assai imbarazzante. Lo lodava e ringraziava forse per le centinaia di migliaia di dollari che le rendevano possibile arredare, pranzare in giro, e quant'altro faceva? No, non lo ringraziava mai. Per lei era una specie di diritto…

… e così via e via e via. Nel giro di novanta secondi, rinfrancato dal possente ruggito della sala delle contrattazioni obbligazionarie della Pierce & Pierce, Sherman fu in grado di completare il suo cahier de doléances, ineccepibile, contro la donna che aveva osato farlo sentire in colpa.

Alzò il telefono ed era pronto a riprendere il lavoro sul più grande colpo della sua non lunga carriera, le Giscard, quando scoprì qualcosa con la coda dell'occhio. Sì, lo scoprii Esattamente nel bel mezzo del grande affresco dì arti e torsi agitati. Arguello stava leggendo un giornale.

Ferdinand Arguello, giovane venditore, venticinque o ventisei anni, argentino, si era disinvoltamente rilassato sulla sedia e leggeva un giornale. Da là dov'era Sherman riuscì a vedere quale: «The Racing Form». «The Racing Form»! Il giovanotto pareva la caricatura di un giocatore di polo sudamericano. Era snello e piuttosto bello. Aveva folti capelli neri ondulati, ravviati con cura all'indietro. Portava un paio di bretelle di seta moiré rossa. Seta moiré. Il settore obbligazionario della Pierce & Pierce agiva come una squadriglia di caccia dell'aviazione. Sherman lo sapeva, anche se pareva che il giovane sudamericano lo ignorasse. Come primo venditore, Sherman non aveva ufficialmente un grado superiore. E tuttavia, moralmente, occupava un ruolo di spicco. O si era capaci di svolgere il lavoro e disposti a dedicare il cento per cento al proprio impegno, oppure si andava via. Gli ottanta elementi del reparto ricevevano uno stipendio base, un minimo garantito, di centoventimila dollari l'anno, il che veniva considerato una somma ridicolmente bassa. Il resto del reddito proveniva da commissioni e divisione di utili. Il sessantacinque per cento degli utili andava alla Pierce & Pierce. Ma il trentacinque per cento veniva diviso tra gli ottanta operatori stessi. Tutti per uno e uno per tutti, e molto per se stessi! Perciò i fannulloni, i pesi morti, i bighelloni non erano ammessi! Ci si doveva avviare speditamente alla scrivania, al telefono, al terminale del computer, di prima mattina. La giornata non cominciava con le solite quattro chiacchiere, il caffè, la lettura del «Wall Street Journal» e delle pagine finanziarie del «Times»: figuriamoci poi del «The Racing Form». Si doveva balzare subito al telefono e cominciare a far soldi. Se uno lasciava l'ufficio, anche soltanto per il pasto di mezzogiorno, era moralmente obbligato a lasciare l'indicazione del luogo dove poter essere rintracciato e il numero del telefono a uno degli "assistenti alle vendite", in realtà segretari o segretarie, in modo da poter essere richiamato immediatamente, se veniva operata una nuova emissione di obbligazioni (e la si doveva vendere in fretta). In ogni caso, se uno usciva per fare colazione, meglio che la cosa fosse in diretto rapporto con la vendita di obbligazioni per conto della Pierce & Pierce. Altrimenti, meglio restare seduti vicino al telefono e ordinare qualcosa al ristorante di sotto, come il resto della squadriglia.

Sherman si portò alla scrivania di Arguello e lo guardò dall'alto. «Che cosa stai facendo, Ferdi?»

Dal momento in cui il giovanotto sollevò lo sguardo, Sherman fu in grado di dire che quello conosceva il senso della domanda e sapeva di essere in torto. Ma se c'era una cosa che un patrizio argentino sapeva fare, era comportarsi con grande sfacciataggine.

Arguello piantò uno sguardo calmo e freddo negli occhi di Sherman e disse, con una voce appena un po' più alta del necessario: «Sto leggendo "The Racing Form"».

«Perché?»

«Perché? Perché quattro dei nostri cavalli oggi corrono al Lafayette. È un ippodromo fuori Chicago.»

E con questo riprese a leggere il giornale.

Fu quel nostri che provocò il peggio. Il nostri era inteso a ricordarti che eri in presenza del casato degli Arguello, signori delle pampas. Lo stronzettino, inoltre, portava un paio di bretelle rosse di seta moiré.

«Senti… bel tipo» disse Sherman. «Voglio che tu metta via quel foglio.»

In tono di sfida: «Che cosa hai detto?».

«Mi hai sentito. Ho detto di mettere via quel foglio del cazzo!» Questo avrebbe dovuto esser detto in tono calmo e fermo, ma invece venne fuori con violenza. Con tale violenza da cancellare Judy, Pollard Browning, il portiere e un possibile rapinatore.

Il giovanotto rimase senza parole.

«Se ti vedo ancora qui con un "Racing Form" in mano, puoi anche andarti a sedere fuori Chicago a fare soldi! Puoi anche sederti nella club-house a scommettere le mutande! Qui siamo alla Pierce & Pierce, non in una sala corse!»

Arguello era paonazzo. Paralizzato dalla rabbia. Riuscì soltanto a lanciare un raggio di puro odio a Sherman. Sherman, l'unico giustamente autorizzato a essere adirato, si voltò per andarsene, e nel farlo notò con soddisfazione che il giovanotto stava chiudendo con lentezza i grandi fogli del «The Racing Form».

Adirato! E giustamente! Sherman era euforico. C'era gente che guardava. Bene! La pigrizia era un peccato non contro se stesso o contro Dio, ma contro Mammona e la Pierce & Pierce. Se doveva essere proprio lui a fare i conti con questo sudamericano, questo "palle unte", allora… ma gli spiacque di aver usato quel termine, perfino solamente nel pensiero. Si considerava parte di una nuova era e di una nuova generazione, un egualitario di Wall Street, un Padrone dell'Universo che rispettava solamente il successo personale. Wall Street o la Pierce & Pierce non volevano più dire "buona famiglia protestante". C'erano moltissimi importanti banchieri d'investimenti ebrei. Lo stesso Lopwits era ebreo. C'erano anche moltissimi irlandesi, greci e slavi. Il fatto che neppure uno degli ottanta membri del settore obbligazionario fosse nero, o donna, non lo turbava. Perché avrebbe dovuto? Non turbava Lopwitz, per il quale la sala delle contrattazioni obbligazionarie della Pierce & Pierce non era luogo da gesti simbolici.

«Ehi, Sherman!»

Stava passando davanti alla scrivania di Rawlie Thorpe. Rawlie era calvo, a parte un'aureola di capelli attorno alla nuca, eppure aveva ancora un'aria giovanile.

«Cos'è stato tutto quel casino?» chiese a Sherman.

«Incredibile!» disse Sherman. «È lì con "The Racing Form" a elucubrare scommesse su qualche cavallo del cazzo.» Si sentì costretto ad arricchire un po' la trasgressione.

Rawlie cominciò a ridere. «Be', è giovane. Probabilmente gliele hanno passate con le ciambelle elettriche.»

«Con che cosa?»

Rawlie sollevò il telefono e indicò il ricevitore. «La vedi? Questa è una ciambella elettrica.»

Sherman guardò a lungo. In qualche modo assomigliava davvero a una piccola ciambella tonda, con tanti piccoli buchi al posto di uno grande.

«Mi è venuto in mente proprio stamattina» disse Rawlie. «Tutto il giorno non faccio altro che parlare con altre ciambelle elettriche. Ho appena finito di parlare con un tizio di Drexel. Gli ho venduto un milione e mezzo di obbligazioni Joshua Tree.» A Wall Street non si diceva il controvalore di un milione e mezzo di dollari in obbligazioni. Si diceva: un milione e mezzo di obbligazioni. «È un posto sperduto dell'Arizona. L'uomo si chiama Earl. Non so nemmeno il suo cognome. Negli ultimi due anni scommetto che ho fatto almeno ventiquattro affari con lui: cinquanta, sessanta milioni di obbligazioni, e non so neppure il suo cognome, e non l'ho mai visto, né lo vedrò mai, probabilmente. È una ciambella elettrica.»

Sherman non lo trovò divertente. In un certo senso, era la negazione del suo trionfo sul giovane argentino: un cinico rifiuto della sua stessa rettitudine. Rawlie era un uomo molto divertente, ma non era più stato lo stesso dopo il divorzio. Forse non era neppure più un grande comandante di squadrone.

«Sì» disse Sherman, tirando fuori a fatica un mezzo sorriso per il vecchio amico. «Be', devo andare a chiamare qualche mia ciambella.»

Tornato al suo posto, Sherman riprese il lavoro in corso. Guardò i piccoli simboli verdi che attraversavano veloci lo schermo del computer davanti a lui. Alzò il telefono. L'obbligazione francese garantita dall'oro: una situazione strana ma promettente, e lui l'aveva scoperta quando uno degli amici di passaggio, una sera da Harry, del tutto casualmente, aveva accennato all'obbligazione.

Molto tempo prima, nel 1973, in quegli anni ancora ingenui, alla vigilia della grande baraonda, il governo francese aveva emesso un'obbligazione nota come la Giscard, dal nome del presidente francese Giscard d'Estaing, per il valore nominale di sei miliardi e mezzo di dollari. La Giscard aveva una particolarità interessante: era ancorata all'oro. Perciò, quando variava il prezzo dell'oro, lo stesso faceva il prezzo della Giscard. Da allora, sia il prezzo dell'oro sia quello del franco francese erano andati su e giù, come impazziti. Gli investitori americani avevano da molto tempo perso interesse nelle Giscard. Ma ultimamente, con l'oro stabile intorno ai quattrocento dollari, Sherman aveva scoperto che un compratore americano di Giscard era in grado di farsi due o tre volte gli interessi pagati da qualsiasi obbligazione emessa dal governo americano, oltre a un utile del trenta per cento nel momento in cui le Giscard venivano a scadenza. Era una "Bella Addormentata". Il grande pericolo era rappresentato da un eventuale crollo del valore del franco. Sherman l'aveva neutralizzato con uno schema di vendite di franchi a copertura.

L'unico vero problema era la complessità dell'intero affare. Ci volevano investitori grossi e sofisticati per capirlo. Sì, investitori grossi, sofisticati e fiduciosi; un novellino non sarebbe stato capace di convincere una sola persona a mettere milioni di dollari nelle Giscard. Ci voleva un operatore con un buon curriculum alle spalle. Ci voleva un operatore di talento. Un genio! Un Padrone dell'Universo! Come Sherman McCoy, il più grande produttore della Pierce & Pierce. Aveva convinto Gene Lopwitz a destinare seicento milioni di dollari della Pierce & Pierce alle Giscard. Con cautela e circospezione, quasi furtivamente, aveva acquistato le obbligazioni dai vari possessori europei, senza rivelare la potente mano della Pierce & Pierce, usando vari intermediari prestanome. Adesso veniva la grande prova per un Padrone dell'Universo. C'erano soltanto una dozzina di giocatori che erano possibili compratori di un bene tanto esoterico quali le Giscard. Fino a quel momento Sherman era riuscito a iniziare le contrattazioni con cinque di questi: due banche fiduciarie, la Traders' Trust Co. (nota come Trader T) e la Metroland; due grandi amministratori; e uno dei suoi migliori clienti privati, Oscar Suder di Cleveland, che aveva detto di volerne comperare dieci milioni. Ma finora il più importante cliente era di gran lunga la Trader T, che stava pensando di prendere metà di tutto il pacchetto, trecento milioni di dollari.

L'affare avrebbe portato alla Pierce & Pierce l'uno per cento di commissione - sei milioni - per l'ideazione e il capitale rischiato. La parte di Sherman, compresi commissioni, bonus, ripartizioni di utili e diritti di rivendita, sarebbe arrivata a un milione e settecentocinquantamila dollari con cui intendeva saldare il pesante debito personale di un milione e ottocentomila dollari contratto per comperare l'appartamento.

Perciò al primo posto, nell'ordine dei lavori, quel giorno veniva una telefonata a Bernard Levy, un francese che si occupava dell'affare alla Trader T: una telefonata rilassata, amichevole, la telefonata di uno dei migliori venditori (Padrone dell'Universo) per ricordare a Levy che, sebbene oro e franco avessero perso valore il giorno prima e quel giorno (sulle borse europee) niente era cambiato, tutto andava bene, benissimo anzi. Per la verità aveva incontrato Bernard Levy di persona solo una volta, quando gli aveva fatto la proposta originaria. Avevano conferito al telefono per mesi… Ciambelle elettriche? Il cinismo era una forma di superiorità così vile. La grande debolezza di Rawlie. Però Rawlie, i suoi assegni, li incassava. In quei casi non era poi tanto cinico! Se proprio voleva mettere in mostra il suo cinismo perché non riusciva a venire a patti con la moglie era, comunque e tristemente, affar suo.

Mentre Sherman, dopo aver composto il numero, aspettava di avere Bernard Levy in linea, il ruggito assordante della tempesta di avidità lo riavviluppò. Dalla scrivania di fronte, un tipo alto, dagli occhi sporgenti (Yale, 1977), diceva: «Le gennaio '88 sono a trentuno…»

Da una scrivania alle sue spalle: «Mi mancano settanta milioni di decennali!».

Da chissà dove: «Ci hanno messo sopra le loro mani del cazzo!».

«Sono in un guaio!»

«… centoventicinque, lunghe…»

«… un milione di quadriennali Midland…»

«Chi sta addosso alle W-I?»

«Te l'ho detto, sono nei guai!»

«… sono a ottanta e mezzo…»

«… comprale a sei, o poco più…»

«… raccogliere sulla base di due punti e mezzo…»

«Lascia perdere! È un brutto momento!»

Dopo le dieci, Sherman, Rawlie e altri cinque confluirono nella sala di riunione degli uffici riservati di Eugene Lopwitz per decidere sulla strategia della Pierce & Pierce a proposito dell'avvenimento principale del giorno sul mercato obbligazionario, e cioè un'asta del Tesoro degli Stati Uniti di dieci miliardi di obbligazioni ventennali. Misura significativa dell'importanza del ramo obbligazionario per la Pierce & Pierce era il fatto che gli uffici di Lopwitz si aprivano direttamente sulla sala delle contrattazioni obbligazionarie.

La sala di riunione non aveva un tavolo di riunione. Pareva il salone di un albergo inglese per americani dove viene servito il tè. Era piena di tavolinetti e stipi antichi. Erano così vecchi, fragili e lucidati che si aveva l'impressione di mandarli in frantumi soltanto premendovi sopra con una certa forza il dito medio. Contemporaneamente, una parete di cristallo ti sbatteva in faccia una veduta dell'Hudson e dei moli del New Jersey in via di decomposizione.

Sherman sedeva in una poltroncina Giorgio II. Rawlie gli stava vicino in una vecchia sedia con schienale a forma di scudo. In altre sedie antiche, o di foggia antica, con tavolinetti d'appoggio vicino, stavano l'incaricato delle emissioni di Stato, George Connor, che aveva due anni meno di Sherman; il suo vice, Vic Scassi, che aveva solo ventotto anni, e Arnold Parch, vicepresidente esecutivo e braccio destro di Lopwitz.

Tutti i presenti in sala sedevano su una sedia in stile e fissavano il piccolo altoparlante di plastica marrone sopra uno stipo, un'opera degli Adam che risaliva a duecentoventi anni prima, a quel periodo in cui i fratelli Adam amavano eseguire dipinti e fregi ornamentali su mobili di legno. Nel riquadro centrale c'era un dipinto ovale con una fanciulla greca seduta in una valletta o in una caverna in cui foglie merlettate sfumavano via via in toni di verde più intenso fino a un cielo color verde bottiglia scuro. L'oggetto era costato una cifra sbalorditiva. L'altoparlante aveva le dimensioni di una radio-sveglia da comodino. Tutti lo fissavano, in attesa della voce di Lopwitz che si trovava a Londra, dove in quel momento erano le quattro del pomeriggio e che doveva presiedere la riunione per telefono.

Dall'altoparlante uscì un rumore indistinto. Poteva trattarsi di una voce e poteva anche trattarsi del rombo di un aeroplano. Arnold Parch si alzò, si avvicinò all'Adam, guardò l'altoparlante e disse: «Gene, mi senti bene?».

Guardò l'oggetto di plastica con aria implorante, senza distogliere lo sguardo, come se fosse in realtà Gene Lopwitz, trasformato, come un principe delle favole viene trasformato in ranocchio. Per un attimo il ranocchio di plastica non disse niente. Poi parlò.

«Sì, ti sento, Arnie. Qua intorno c'erano un sacco di applausi e urla.» La voce di Lopwitz pareva uscire da un tubo di grondaia per acque piovane, ma la si sentiva.

«Dove sei, Gene?» chiese Parch.

«Sono a una partita di cricket.» Poi, in modo meno chiaro: «Come si chiama questo posto?». Era insieme ad altre persone, chiaro. «Tottenham Park, Arnie. Sono su una specie di terrazza.»

«Chi gioca?» Parch sorrise, come per far vedere al ranocchio di plastica che non era una domanda seria.

«Non chiedermi troppi particolari, Arnie. Un sacco di simpatici giovanotti con maglioni lavorati a mano e pantaloni bianchi di flanella; più di così non saprei dirti.»

Risate d'apprezzamento si levarono per la sala, e Sherman sentì anche le sue labbra piegarsi in un sorriso in qualche modo obbligatorio. Si guardò attorno. Tutti sorridevano e sogghignavano all'altoparlante di plastica marrone, a parte Rawlie che aveva invece gli occhi al cielo nell'espressione tipica di "Oh, santo cielo".

Poi Rawlie si piegò verso Sherman e disse, in un bisbiglio sonoro: «Guarda questi idioti che sogghignano. Forse pensano che quella scatola di plastica abbia gli occhi».

Sherman non lo trovò divertente, specie perché anche lui aveva sogghignato. Temeva che il fedele aiutante di Lopwitz, Parch, potesse ritenerlo complice di Rawlie nel prendere in giro il capo supremo.

«Be', ci sono tutti, Gene» disse Parch alla scatola, «e adesso ti faccio dire da George qual è la situazione dell'asta.»

Parch guardò George Connor, annuì e tornò alla sua sedia, mentre Connor lasciava la sua, si avvicinava all'Adam, fissava la scatola di plastica marrone e diceva: «Gene? Sono George».

«Ehilà, George» disse la rana. «Sputa!»

«L'affare si presenta abbastanza bene, direi» cominciò Connor, incapace di distogliere gli occhi dalla scatola di plastica, «le vecchie ventennali sono sull'otto per cento. Ci dicono che le nuove usciranno a otto e 05, ma noi pensiamo che ci prendano un po' in giro. Secondo noi, si comincerà proprio a otto. Perciò io la vedo così. Saliremo a otto e 01, otto e 02, otto e 03, con un tetto di otto e 04. Io sarei pronto ad arrivare al sessanta per cento dell'emissione.»

Il che, tradotto, significava: Connor proponeva di comperare sei miliardi di azioni sui dieci miliardi offerti all'asta, con un utile preventivato di due trentaduesimi di dollaro - sei centesimi e un quarto - ogni cento dollari investiti. E cioè, in gergo, "due tick".

Sherman non poté resistere e gettò un altro sguardo a Rawlie. Questi aveva un sorrisetto sgradevole sulla faccia, e lo sguardo pareva sorvolare il mobile degli Adam per cadere lontano, sui moli di Hoboken. La presenza di Rawlie era un bicchiere di acqua ghiacciata in faccia. Sherman provò, di nuovo, una sensazione ostile nei suoi confronti. Intuiva che cosa avesse in mente l'amico. Ecco qui questo arrivista oltraggioso - Sherman sapeva che Rawlie lo considerava tale -, ecco quel Lopwitz, che cerca di fare il raffinato gentiluomo che dalla terrazza di un club inglese assiste a una partita di cricket e nello stesso tempo conduce una riunione che si svolge a New York per decidere se la Pierce & Pierce deve puntare due miliardi, quattro miliardi o sei miliardi su un'unica emissione di obbligazioni dello Stato di lì a tre ore. Senza dubbio Lopwitz aveva un pubblico al circolo di cricket che seguiva la sua prestazione, mentre le sue parole rimbalzavano, tramite un satellite di comunicazione nell'empireo, fino a Wall Street. Be', non era impossibile trovarci un lato ridicolo, ma in ogni caso Lopwitz era un Padrone dell'Universo. Lopwitz aveva all'incirca quarantacinque anni. A Sherman sarebbe piaciuto essere come lui, di lì a sette anni, a quarantacinque anni. Dall'altra parte dell'Atlantico a giostrare con miliardi! Rawlie poteva anche sghignazzare e rotolarsi per terra: bastava pensare a che cosa teneva in mano Lopwitz ora, a che cosa guadagnava ogni anno, anche soltanto con la Pierce & Pierce, e cioè almeno venticinque milioni di dollari, pensare al tipo di vita che conduceva… e, subito, Sherman pensò alla giovane moglie, Biancaneve. Rawlie la chiamava così. Capelli neri come l'ebano, labbra rosse come il sangue, pelle bianca come la neve… Era la quarta moglie di Lopwitz: francese, contessa, non più di venticinque o ventisei anni, un accento simile a quello di una Catherine Deneuve che fa gli spot pubblicitari per schiuma da bagno. Era davvero speciale! Sherman l'aveva conosciuta a una festa dai Peterson. Lei gli aveva appoggiato una mano sull'avambraccio, soltanto per dar enfasi alla conversazione, ma come aveva fatto pressione sul suo braccio e come lo aveva fissato da vicino! Era un animale giovane e vivace. Lopwitz si era preso quel che voleva. Aveva voluto un animale giovane e vivace con labbra rosse come il sangue e pelle bianca come la neve; e proprio quello si era preso. Quel che era successo delle altre tre signore Lopwitz era cosa che Sherman non aveva mai sentito porre in discussione. Quando si arrivava al livello di Lopwitz, non importava più.

«Sì, mi pare perfetto, George» disse la rana di plastica. «E Sherman? Sei lì, Sherman?»

«Salve, Gene!» disse Sherman, emergendo dalla poltrona Giorgio II. La sua stessa voce gli suonò stranissima, ora che parlava a una scatola di plastica, e non osò neanche lanciare una rapida occhiata a Rawlie mentre si avviava verso lo stipo Adam, prendeva posizione e fissava attento, quasi rapito, la macchina.

«Gene, tutti i miei clienti parlano di otto e 05. Sotto sotto, però, sento che sono con noi. Il mercato è sostenuto. Penso che possiamo fare un'offerta anticipando l'interesse del cliente.»

«Okay!» disse la voce nella scatola. «Tu e George dovete però stare attenti a controllare le contrattazioni. Non voglio sentir dire che Salomon o gli altri ci stanno facendo scherzi giocando al ribasso.»

Sherman si sorprese a stupirsi per la saggezza della rana. Una specie di rombo soffocato arrivò dall'altoparlante. Tutti lo guardarono.

Tornò la voce di Lopwitz. «Un tale ha appena colpito la palla come un dio» disse. «Però è tutto fermo. Be', Dovreste esser qui.» Non era chiaro che cosa intendesse dire. «Be', senti, George. Mi senti, George?»

Connor sussultò, si alzò dalla sua sedia, si precipitò verso lo stipo opera degli Adam.

«Sì, ti sento, Gene.»

«Stavo proprio per dire che se te la senti di andare al piatto, dacci dentro, ma sul serio, oggi. La faccenda suona bene.»

E fu tutto.

Quarantacinque secondi prima della scadenza dell'asta all'una del pomeriggio, George Connor, da un telefono nel centro della sala delle contrattazioni, impartì le disposizioni sulle offerte finali graduate a un funzionario della Pierce & Pierce, al telefono dentro il palazzo federale, che era il luogo fisico dell'asta. In media le offerte erano di 99,62643 dollari per il controvalore di cento dollari di obbligazioni. Pochi secondi dopo l'una, la Pierce & Pierce possedeva, come progettato, sei miliardi di obbligazioni ventennali. Il settore obbligazionario aveva quattro ore per creare un mercato favorevole. Vic Scaasi guidava la carica dal banco dei trader, rivendendo le obbligazioni soprattutto alle agenzie di brokeraggio… per telefono. Sherman e Rawlie guidavano i venditori, rivendendo le obbligazioni soprattutto a compagnie assicuratrici e banche fiduciarie… per telefono. Alle due il ruggito nella sala, alimentato più dalla paura che dalla grinta e dall'avidità di guadagno, era inumano. Urlavano tutti, sudavano e bestemmiavano e divoravano le loro ciambelle elettriche.

Alle cinque del pomeriggio avevano venduto il quaranta per cento - 2,4 miliardi di dollari - dei sei miliardi a un prezzo medio di 99,75062 dollari per il controvalore di cento dollari di obbligazioni, con un profitto non di due, ma di quattro tick! Quattro tick! Un profitto di dodici centesimi e mezzo per ogni cento dollari. Quattro tick! Per il compratore finale al minuto di queste obbligazioni, fosse un privato o una società o un altro ente, una differenza impercettibile. Ma… quattro tick! Per la Pierce & Pierce significava un profitto di quasi tre milioni di dollari per un pomeriggio di lavoro. E non era finita. Il mercato reggeva bene e tendeva al rialzo. Entro la prossima settimana avrebbero potuto guadagnare facilmente da cinque a dieci milioni di dollari in più sulle restanti obbligazioni per i 3,6 miliardi di dollari restanti. Quattro tick!

Alle quattro Sherman volava sulle ali dell'adrenalina. Faceva parte del potere devastante della Pierce & Pierce. I Padroni dell'Universo. L'audacia dell'affare mozzava il fiato. Rischiare sei miliardi di dollari in un solo pomeriggio per fare due tick… sei centesimi e un quarto ogni cento dollari… quale audacia! C'era forse un potere più stimolante sulla faccia della terra? Che Lopwitz veda pure tutte le partile di cricket che vuole! Che giochi con la rana di plastica! Padrone dell'Universo… quale audacia!

Quella sensazione sfrenata scorreva per gli arti, i canali linfatici e i lombi di Sherman. La Pierce & Pierce era il potere, e lui era legato a doppio filo al potere, e il potere ronzava e tumultuava nei suoi visceri.

Judy… Da ore non aveva più pensato a lei. Ma che cos'era un'unica, anche se stupida, telefonata… di fronte allo stupendo libro contabile della Pierce & Pierce? Il cinquantesimo piano era per gente che non aveva paura di prendersi ciò che voleva. E, Cristo, lui non voleva poi molto in confronto a quello che lui, un Padrone dell'Universo, avrebbe dovuto giustamente avere. In fondo voleva soltanto farsi un po' di "erba" quando gli andava e prendersi i piaceri semplici che spettano a tutti i forti guerrieri.

Dove voleva andare a parare, creandogli tante difficoltà?

Se la mezza età desidera il sostegno e la scorta continua di un Padrone dell'Universo, deve di certo consentirgli l'uso della valuta pregiata da lui guadagnata, e cioè giovinezza, bellezza, succhi succosi e piccanti, lombi lascivi…

Non era logico! In qualche modo, per ragioni inesplicabili, Judy aveva sempre avuto un complesso di superiorità nei suoi confronti. Lo guardava dall'alto in basso, ma da una posizione del tutto fittizia: e, tuttavia, lo guardava dall'alto in basso. Era pur sempre la figlia del professor Ronald E. (stava per Egbord!) Miller della DesPortes University, Terwilliger, Wisconsin; il povero, incolore, tedioso professor Miller, con i suoi tweed logori, il cui unico tentativo di raggiungere la fama era stato affidato a un attacco piuttosto ipocrita e farraginoso (Sherman l'aveva letto una volta con grande fatica) portato al suo conterraneo, del Wisconsin, il senatore Joseph McCarthy, sulla rivista «Aspects» nel lontano 1955. Eppure, nel bozzolo dorato del nido del Village, durante il primo periodo della loro vita in comune, Sherman aveva corroborato le pretese di superiorità di Judy. Aveva provato addirittura piacere nel dirle che lui, sì, lavorava a Wall Street, ma non apparteneva a Wall Street e stava solo usando Wall Street. Aveva provato addirittura piacere quando lei si era degnata di apprezzare la sua incoraggiante apertura mentale. In qualche modo lei lo aveva convinto, e rassicurato che suo padre John Campbell McCoy, il Leone di Dunning Sponget, era una figura piuttosto banale, dopotutto: una specie di guardia giurata d'alta classe per il capitale altrui. Perché poi questo fatto dovesse essere importante per lui, Sherman non lo sapeva e neppure sapeva come specularci sopra. Il suo interesse per la teoria psicanalitica, mai davvero vivo, era finito un giorno a Yale quando Rawlie Thorpe l'aveva definita "una scienza ebraica" (esattamente lo stesso atteggiamento mentale che aveva tanto turbato e fatto andare su tutte le furie Freud, settantacinque anni prima).

Ma tutto quello faceva parte del passato, dell'infanzia, la sua infanzia nella Settantatreesima Strada Est e la sua infanzia nel Village. Questa era un'altra, nuova era! Questa era un'altra, nuova Wall Street! Judy era… un residuato dell'infanzia… e tuttavia viveva, invecchiava, diventava più sottile… una donna piacente.

Sherman si lasciò andare sulla sedia e gettò un'occhiata circolare alla sala. Le teorie di caratteri verdi fosforescenti ancora scorrevano sugli schermi dei terminali, ma il ruggito aveva ceduto il passo a qualcosa che sembrava più simile all'allegro schiamazzo di uno spogliatoio. George Connor stava accanto alla sedia di Vic Scaasi con le mani in tasca e chiacchierava. Vic arcuava la schiena, faceva ruotare le spalle, pareva sul punto di sbadigliare. Rawlie, rannicchiato nella sedia, parlava al telefono, sorridendo e passandosi una mano sulla testa pelata. Guerrieri vittoriosi dopo la mischia! Padroni dell'Universo…

E lei aveva avuto l'impudenza di procurargli un patema d'animo per una telefonata!