21
Il favoloso koala

Mai in vita sua aveva visto le cose, le cose della vita di tutti i giorni, con maggiore chiarezza. E i suoi occhi le avvelenavano tutte quante!

Alla banca di Nassau Street, dov'era entrato centinaia di volte, dove cassieri, guardie, funzionari minori e lo stesso direttore lo conoscevano come il rispettabile signor McCoy della Pierce & Pierce e lo chiamavano per nome e cognome, dov'era stimato davvero, tanto che gli avevano accordato un prestito personale di un milione e ottocentomila dollari per comprarsi l'appartamento - un prestito che gli costava ventunomila dollari al mese! - e da dove sarebbero saltati fuori adesso? - Oh Dio! - ora notava i dettagli più infimi: la cornice a ovolo al primo piano, le vecchie protezioni di bronzo alle lampade sopra gli scrittoi nel centro dell'atrio, le scanalature a spirale dei pilastri che reggevano il parapetto divisorio tra l'atrio e lo spazio dove stavano i funzionari… Tutto così solido! così preciso! così ordinato! Ma, ora, così ingannevole! Una presa in giro! Tanto erano inutili, incapaci di offrire protezione di sorta.

Tutti gli sorridevano. Anime gentili, rispettose, ignare. Oggi, ancora signor McCoy, signor McCoy, signor McCoy, signor McCoy, signor McCoy: com'era triste pensare che in questo posto, solido, ordinato… domani…

Diecimila in contanti. Killian aveva detto che il denaro per la cauzione doveva essere in contanti. La cassiera era una giovane donna nera, venticinque anni al massimo, con una camicetta dal collo alto e una spilla d'oro… una nuvola e un volto che soffiava il vento… d'oro. Gli occhi di lui si appuntarono sulla strana tristezza del volto d'oro del vento. Se le presentava un assegno per diecimila dollari, gli avrebbe fatto delle domande? Avrebbe dovuto andare da un funzionario a spiegarsi? Che cosa dire? Per la cauzione? Il rispettabile signor McCoy, signor McCoy, signor McCoy, signor McCoy…

Per la verità, lei disse soltanto: «Sa che dobbiamo denunciare tutte le operazioni di diecimila dollari o più, vero, signor McCoy?».

Denunciare? A un funzionario di banca!

Doveva aver visto il suo imbarazzo in viso, perché lei disse: «Al governo. Dobbiamo compilare un modulo speciale».

Poi gli venne in mente. Era una norma studiata per creare difficoltà ai trafficanti di droga che facevano i loro affari con grosse cifre in contanti.

«Quanto ci vuole? È una trafila lunga?»

«No, compiliamo il modulo e basta. Abbiamo già le informazioni in archivio: indirizzo e tutto.»

«Be'… Benissimo, d'accordo.»

«Come li vuole? In biglietti da cento?»

«Ah! sì, da cento.» Non aveva idea di come si presentassero diecimila dollari in biglietti da cento.

Lei lasciò lo sportello e poco dopo ritornò con quello che pareva un piccolo mattone di carta, e una fascetta di carta attorno. «Ecco, sono cento biglietti da cento dollari.»

Lui sorrise nervoso. «Tutto qui? Non sembra un granché, vero?»

«Be'… dipende. Tutte le banconote sono confezionate in pacchi da cento, quelli da un dollaro come quelli da cento. Quando lei vede cento di questi, fanno una certa impressione, direi.»

Sherman posò la sua borsa sul ripiano di marmo sotto lo sportello, l'aprì, prese il mattone di carta, lo infilò all'interno, la richiuse e poi dette un'altra occhiata al viso della ragazza. Lei sapeva! Sapeva che ci doveva essere qualcosa di sordido se uno aveva bisogno di ritirare una simile quantità di contanti. Non poteva essere altrimenti!

In realtà il suo viso non tradiva approvazione né disapprovazione. Sorrise, educatamente, per mostrare la sua buona volontà, e un'ondata di paura lo investì. Che cosa penserà lei o qualsiasi altra persona di colore che dovesse guardare in faccia Sherman McCoy, domani, la faccia dell'uomo che ha investito uno studente modello nero, lasciandolo lì a morire!

Nel camminare per Nassau Street, verso Wall Street e lo studio Dunning Sponget & Leach, ebbe un attacco di ansia da denaro. I diecimila dollari avevano praticamente prosciugato il suo conto corrente. Aveva altri seimila dollari più o meno in un altro deposito che potevano sempre venir passati sul conto corrente. Era denaro che teneva lì per… le spese accessorie! I soliti conti che arrivavano, ogni mese! E che avrebbero continuato ad arrivare! Come onde sulla spiaggia… e adesso? Tra pochissimo sarebbe stato costretto a intaccare il capitale e ce n'era molto poco. Si costrinse a smettere di preoccuparsi per la questione economica. Pensò, invece, a suo padre. Tra cinque minuti gli sarebbe stato davanti. Non riusciva a vedercisi. E quell'incontro era niente in confronto a quando avrebbe dovuto affrontare Judy e Campbell.

Al suo ingresso nell'ufficio del padre, questi si alzò dalla sedia dietro la scrivania. Gli occhi avvelenati di Sherman colsero un dettaglio dei più insignificanti, un dettaglio squallido: proprio di fronte alla finestra di suo padre, a una finestra del nuovo palazzo in vetro e alluminio prospiciente, una giovane donna bianca stava fissando la strada in basso e pulendo l'incisura intertragica dell'orecchio sinistro con uno speciale stecchino; una giovane donna molto qualunque, bruttina, dai capelli ricci, che guardava la strada e si puliva l'orecchio. Che squallore! La strada era così stretta che gli parve quasi di poter allungare una mano e bussare al cristallo dove stava lei. Il nuovo palazzo aveva gettato il piccolo ufficio del padre in una semioscurità perpetua. Doveva tenere le luci accese tutto il giorno. Allo studio Dunning Sponget & Leach i vecchi soci, come John Campbell McCoy, non venivano costretti a ritirarsi, ma ci si aspettava da loro che facessero quel che era giusto fare. E cioè rinunciare agli uffici grandiosi con vista grandiosa per lasciarli agli avvocati emergenti di mezza età, tra i quaranta e i cinquanta, cinquantadue anni, ancora pieni di ambizioni e voglia di avere a disposizione uffici eleganti con vista grandiosa.

«Entra pure, Sherman» disse suo padre. Il Leone di un tempo… con il suo solito sorriso e anche con una certa circospezione. Senza dubbio aveva capito dal tono di voce del figlio, al telefono, che quella non sarebbe stata una visita come le altre. Il Leone era ancora una figura imponente, con il mento aristocratico, i folti capelli bianchi pettinati all'indietro, l'abito inglese e la pesante catena dell'orologio attraverso il panciotto. Ma la pelle pareva sottile e delicata, come se da un momento all'altro l'intera sua leoninità potesse crollare nei suoi stupendi indumenti. Indicò la poltrona di pelle accanto alla scrivania e disse, affabilmente: «Il mercato delle obbligazioni dev'essere in crisi se di colpo ricevo una tua visita nel bel mezzo della giornata».

Una visita in pieno giorno: il vecchio ufficio del Leone non solo era d'angolo, ma dominava il porto di New York. Che gioia era stato andare nello studio di papà, da bambino! Dal momento in cui usciva dall'ascensore al diciottesimo piano, diventava Sua Maestà il Bambino. Tutti, la centralinista, i soci più giovani, perfino gli uomini delle pulizie, conoscevano il suo nome e lo dicevano a gran voce come se niente potesse recare felicità maggiore ai fedeli sudditi di Dunning Sponget che la vista del suo faccino e del suo mento aristocratico in boccio. Ogni altro traffico pareva fermarsi quando Sua Maestà il Bambino veniva scortato lungo l'atrio e i corridoi lino allo studio del Leone sull'angolo, dove si apriva la porta e - stupendo! - il sole incombeva alto sopra il porto che si stendeva di sotto davanti ai suoi occhi. La statua della Libertà, i traghetti per Staten Island, i rimorchiatori, le lance della polizia, le navi da carico che entravano dagli stretti lontani… Che spettacolo! E, per lui, che immensa felicità!

Parecchie volte, in quell'ufficio straordinario, erano arrivati quasi sul punto di sedersi e avere un vero dialogo. Giovane com'era, Sherman aveva intuito che il padre stava cercando di aprire una porta nel suo formalismo per farlo entrare. E lui non era mai riuscito a farlo. Ora, in un baleno, Sherman aveva trentotto anni e non c'era più alcuna porta. Come comportarsi? In tutta la sua vita mai aveva osato mettere in imbarazzo il padre confessandogli una debolezza e, meno che meno, una questione morale e di estrema vulnerabilità.

«Come va alla Pierce & Pierce?»

Sherman fece una triste risata. «Non lo so. Per quanto mi consta, vanno avanti senza di me.»

Suo padre si chinò in avanti. «Non te ne andrai, per caso?»

«In un certo senso.» Ancora non sapeva come metterla. Così, debolmente, colpevolmente, ricadde nell'approccio violento, nella richiesta aperta di simpatia umana che aveva funzionato con Gene Lopwitz. «Papà, sarò arrestato domani mattina.»

Suo padre lo fissò per quello che parve un lungo momento, poi aprì la bocca e la richiuse, emise un breve sospiro, come per respingere tutte le normali reazioni umane di sorpresa o incredulità quando viene annunciato un disastro. Quel che disse alla fine, benché assolutamente logico, sorprese e lasciò esterrefatto Sherman:

«Da chi?»

«Dalla… polizia. La polizia di New York City.»

«In base a quali imputazioni?» Che sorpresa e dolore sul volto. Oh, l'aveva stupito, d'accordo, e probabilmente aveva demolito la sua capacità di arrabbiarsi, ma com'era spregevole una strategia simile!

«Comportamento e guida gravemente pericolosa, omissione di soccorso e di denuncia del fatto.»

«L'automobile» disse suo padre, come se parlasse tra sé. «E ti arresteranno domani?»

Sherman annuì e cominciò il suo ignobile racconto, sempre studiando il volto del padre e notando, con un misto di sollievo e colpa, come rimaneva sempre sbigottito. Sherman trattò l'argomento di Maria con pudore vittoriano. La conosceva appena. L'aveva incontrata soltanto tre o quattro volte in situazioni del tutto innocue. Non avrebbe mai dovuto flirtare con lei, chiaro. Flirtare.

«Chi è questa donna, Sherman?»

«È sposata con un certo Arthur Ruskin.»

«Ah, mi pare di sapere chi è. È un ebreo, vero?»

Ma che differenza fa? «Sì.»

«E lei chi è?»

«Viene dalla Carolina del Sud.»

«Come si chiamava da ragazza?»

Il nome da ragazza? «Dean. Non credo che venga dalla buona società sudista, papà.»

Quando arrivò ai primi articoli sui quotidiani, Sherman capì che suo padre non aveva alcuna intenzione di ascoltare altri sordidi dettagli, di sapere quanto era realmente successo poiché subito lo interruppe di nuovo.

«Chi ti difende, Sherman? Immagino che tu abbia un avvocato.»

«Sì. Si chiama Thomas Killian.»

«Mai sentito. Chi è?»

Con riluttanza: «Lavora allo Studio Dershkin, Bellavista, Fishbein & Schlossel».

Le narici del Leone tremarono e i muscoli delle mascelle si tesero, come se cercasse di non vomitare. «Come diavolo hai fatto a trovare quella gente?»

«Sono specializzati in penale. Freddy Button me li ha raccomandati.»

«Freddy? Hai lasciato che Freddy…» Scosse la testa. Non riuscì a trovare le parole.

«È il mio avvocato!»

«Lo so, Sherman, ma Freddy…» Il Leone lanciò un'occhiata verso la porta e poi abbassò la voce. «Freddy è una persona assolutamente perbene, ma questa è una cosa seria!»

«Mi hai mandato tu da Freddy, papà, tanto tempo fa!»

«Lo so! Ma non per cose importanti!» Scosse, di nuovo, la testa. Uno sbalordimento dopo l'altro.

«Be', comunque sia, mi difende un avvocato che si chiama Thomas Killian.»

«Ah, Sherman.» Un'immensa stanchezza. I buoi erano scappati. «Se fossi venuto da me prima, quando è successo. Adesso, a questo… be', quel che è stato… vero? Così, vediamo di partire da qui. Di una cosa sono certissimo. Devi cercare di trovarti la migliore difesa possibile. Devi trovare avvocati di cui fidarti, senza riserve, perché tu metti moltissimo nelle loro mani. Non puoi andartene da certa gente che si chiama Dershein… o come si chiamano. Adesso telefono a Chester Whitman e a Ed LaPrade e li consulto.»

Chester Whitman e Ed LaPrade? Due vecchi giudici federali in pensione o sul punto di andarci. La probabilità che sapessero qualcosa delle macchinazioni di un procuratore distrettuale del Bronx o di un mestatore di Harlem era così remota… E d'un tratto Sherman si sentì triste, non tanto per se stesso quanto per il vecchio che gli stava di fronte, aggrappato a rapporti sociali che significavano qualcosa negli anni Cinquanta o nei primi anni Sessanta.

«Signorina Needleman?» Il Leone era già al telefono. «Mi chiamerebbe il giudice Chester Whitman, per favore? Che cosa? Ah, capisco. Be', quando è libera, allora.» Appese il telefono. Come socio anziano, non aveva più una segretaria personale. Ne divideva una con una mezza dozzina di altri, e naturalmente lei, la signorina Needleman, non balzava in piedi quando il Leone apriva bocca. Nell'attesa il Leone guardò fuori della sua finestra isolata, strinse le labbra e parve molto vecchio e stanco.

E in quel momento Sherman fece la tremenda scoperta che prima o poi tutti gli uomini fanno a proposito dei propri padri. Per la prima volta si rese conto che l'uomo davanti a lui non era un padre che stava invecchiando, ma un ragazzo, un ragazzo molto simile a lui, un ragazzo cresciuto che aveva avuto un figlio suo e che, facendo del suo meglio indipendentemente dal senso del dovere e, forse, dall'amore, aveva assunto il ruolo di padre perché questo figlio avesse al suo fianco un essere mitico e infinitamente importante: un protettore che lo avrebbe difeso da tutte le eventualità di caos e di catastrofi nella vita. E ora il ragazzo, quell'ottimo attore, era diventato vecchio, fragile e stanco, soprattutto ora, più che mai, al pensiero di dover rientrare dentro la corazza del protettore, tanto tardi nella vita.

Il Leone distolse lo sguardo dalla finestra e lo posò su Sherman, sorridendo, con quello che Sherman interpretò come un vago imbarazzo.

«Sherman» disse, «promettimi una cosa. Non perderti d'animo. Avrei voluto che fossi venuto da me prima, ma non importa. Avrai il mio aiuto, e quello di tua madre. Faremo tutto quel che è possibile per te.»

Per un attimo Sherman pensò che stesse parlando di soldi. A ripensarci, però, capì che non era così. In base ai parametri vigenti nel resto del mondo, del mondo fuori di New York, i suoi genitori erano ricchi. In realtà producevano il reddito appena necessario per mantenere la casa della Settantatreesima Strada e la casa di Long Island, per provvedere di personale qualche giorno alla settimana tutti e due í posti, e per affrontare le spese quotidiane imposte dal ruolo che occupavano in società. Ma intaccare il capitale sarebbe stato come svenarli. No, non poteva farlo all'uomo bene intenzionato e dai capelli grigi che gli stava seduto davanti in un piccolo studio un po' squallido. E, quanto a questo, non era affatto sicuro che gli venisse offerto.

«E Judy?» chiese il padre.

«Judy?»

«Come l'ha presa?»

«Non sa ancora niente.»

«Davvero?»

«Davvero.»

Ogni traccia d'espressione abbandonò la faccia del vecchio ragazzo dai capelli grigi.

Quando Sherman chiese a Judy di seguirlo in biblioteca, aveva ogni intenzione, almeno a livello di consapevolezza, di essere completamente onesto. Ma dal momento in cui aprì la bocca, si accorse di avere con sé il suo segreto alter ego: l'ipocrita. Fu l'ipocrita che conferì un formidabile tono baritonale alla sua voce, che invitò Judy a sedersi nella poltrona a schienale alto come avrebbe potuto fare un impresario di pompe funebri, che chiuse la porta della biblioteca con lugubre determinazione e poi si voltò e aggrottò le sopracciglia attorno al naso perché Judy potesse capire, senza aver sentito ancora una sola parola, che la situazione era grave.

L'ipocrita non si sedette dietro la scrivania - sarebbe stato un atteggiamento troppo burocratico - ma in poltrona. E poi disse:

«Judy, desidero che tu ti faccia forza. Io…»

«Se stai per parlarmi della tua piccola faccenda, non preoccuparti. Non puoi immaginare quanto poco m'interessi.»

Sorpreso: «La mia piccola che cosa?».

«La tua… relazione, se lo è davvero. Non voglio neppure sentirne parlare.»

La fissò con la bocca leggermente aperta, e frugò il cervello alla ricerca di qualcosa da dire: "Solo in parte si riferisce alla cosa", oppure: "Se fosse tutto qui", o: "Temo che tu sarai costretta a sentirne parlare", o: "È andata ben oltre"… Tutto così debole, piatto: perciò ripiegò sull'annuncio bomba. Sì, decise per la bomba.

«Judy… domattina verrò arrestato.»

La colse di sorpresa. Le cancellò il sorrisetto ironico sul volto. Le crollarono le spalle. Era soltanto una piccola donna in una grande poltrona.

«Arrestato?»

«Ricordi la sera che sono venuti qui i due poliziotti? La faccenda del Bronx?»

«Sei stato tu?»

«Sì, sono stato io.»

«Non ci credo.»

«Purtroppo è così. Ero io.»

L'aveva colpita. Lei vacillava. Si sentì di nuovo meschino e colpevole. Le dimensioni della catastrofe si estesero di nuovo al terreno morale.

Cominciò a raccontare la sua disavventura. Prima che cominciassero a uscirgli di bocca le parole cruciali, intendeva essere del tutto sincero su Maria. Ma… che bene ne sarebbe venuto? Perché distruggere del tutto sua moglie? Perché lasciarla con un marito da odiare? E così le disse che si era trattato soltanto di un modesto flirt. La conosceva da appena tre settimane.

«Le promisi soltanto che sarei andato a prenderla all'aeroporto. Così, all'improvviso, glielo dissi. Probabilmente io avevo… immagino che avessi in mente… non voglio prendere in giro te e anche me… ma, Judy, ti giuro che non ho mai neppure baciato quella donna, figuriamoci se ho avuto una relazione. Poi avvenne quella cosa incredibile, quell'incubo, e non l'ho più vista da allora a parte quella sera quando all'improvviso me la sono trovata vicina dai Bavardage. Judy, devi credermi, te lo giuro, non c'è stata alcuna relazione.»

La scrutò in volto per vedere se per un caso fortuito gli credesse. Uno sguardo vacuo. Sbalordito. Si buttò.

«So che avrei dovuto parlartene quando il fatto accadde. Ma successe subito dopo quella mia stupida telefonata. E poi, lo sapevo, tu avresti pensato che avessi una relazione, ma non era così, Judy. Quella donna l'ho vista sì e no cinque volte in vita mia, e sempre in pubblico. Insomma, anche andare a prendere una persona all'aeroporto è… in pubblico.»

Si fermò e tentò di valutarla di nuovo. Nulla. Trovava insopportabile il silenzio di lei. Si sentì costretto a fornire lui le parole mancanti.

Proseguì parlando degli articoli sui giornali, dei suoi problemi in ufficio, di Freddy Button, Thomas Killian, Gene Lopwitz. Mentre snocciolava un argomento con voce monotona, il cervello faceva una fuga in avanti verso il seguente. Le doveva parlare della conversazione con suo padre? Forse gli avrebbe procurato una certa simpatia, poiché lei si sarebbe resa conto del dolore che gli aveva inflitto. No! Forse si sarebbe arrabbiata nell'apprendere che ne aveva parlato prima con il padre. Ma prima di arrivare a una decisione, si accorse che lei non lo stava più ascoltando. Uno sguardo strano, quasi sognante, le si era dipinto in viso. Poi prese a ridacchiare. L'unico suono che usciva dalla sua gola era un leggero singulto.

Urtato e offeso: «Tutto questo guaio ti sembra tanto buffo?».

Appena un accenno di sorriso: «Rido di me. Per tutto il fine settimana sono stata male perché tu ti eri comportato così da cretino dai Bavardage. Avevo paura che potesse pregiudicare le mie possibilità di diventare presidentessa della fondazione che sostiene il museo».

Malgrado tutto, a Sherman fece male apprendere di essere stato cretino dai Bavardage.

Judy disse: «È buffo, non ti pare? Io che mi preoccupavo della fondazione?».

Quasi in un sibilo: «Mi spiace di essere di peso alle tue ambizioni».

«Sherman, adesso voglio che tu mi ascolti.» Lo disse con tono gentile, quasi dolce e materna: era sinistro. «Non reagisco come una brava moglie, vero? Vorrei. Ma come posso! Vorrei offrirti il mio amore o, se non proprio il mio amore, la mia - come dire? - la mia simpatia, la mia vicinanza, il mio sostegno. Ma non posso. Non posso neppure fingere. Non mi hai permesso di starti vicina. Lo capisci? Non mi hai permesso di starti vicina. Mi hai ingannato, Sherman. Lo sai che cosa significa ingannare una persona?» Pronunciò l'ultima frase con la stessa gentilezza materna del resto del discorso.

«Ingannata? Buon Dio, era un flirt, e forse neppure questo. Se tu… strizzi l'occhio a qualcuno… puoi anche chiamarlo inganno, se vuoi, ma io non lo chiamerei così.»

Lei sfoderò di nuovo il pallido sorriso e scosse la testa. «Sherman, Sherman, Sherman.»

«Giuro che è la verità.»

«Oh, non so che cosa hai fatto con la tua Maria Ruskin, e non me ne importa. Davvero. È la cosa che conta meno, ma non credo che tu lo capisca.»

«Conta meno di cos'altro?»

«Di quello che hai fatto a me e non solo a me. A Campbell.»

«A Campbell?»

«Alla tua famiglia. Noi siamo una famiglia. Questo, questo pasticcio che riguarda tutti noi, è avvenuto due settimane fa, e tu non ne hai parlato. Me l'hai nascosto. Te ne stavi seduto vicino a me, proprio in questa stanza, e guardavi il notiziario alla tivù, la manifestazione, e non hai detto una parola. Poi è venuta la polizia a casa: la polizia!… a casa nostra! Te ne ho chiesto la ragione e tu hai finto che fosse una coincidenza. E poi, la stessa sera, stavi seduto vicino alla tua… alla tua amica… alla tua complice… alla tua socia… dimmi tu come chiamarla… e ancora una volta non hai detto niente. Mi hai lasciato credere che non ci fosse niente di sbagliato. Mi hai lasciato continuare a sognare quei miei sciocchi sogni, hai permesso a Campbell di avere i suoi sogni infantili, di credere di essere una bambina come le altre, in una famiglia come le altre, che gioca con le amichette, che disegna i coniglietti, le tartarughe, i pinguini. La sera, quando tutto il mondo veniva a sapere della tua scappatella, Campbell ti faceva vedere un coniglio d'argilla fatto da lei. Te lo ricordi? Sì? E tu lo hai ammirato e hai detto tutte le cose che si devono direi E adesso te ne vieni a casa…» d'un tratto gli occhi le si riempirono di lacrime «alla fine della giornata e mi dici che… stai per essere… arrestato… domani… mattina.»

La frase uscì a bocconi, tra i singhiozzi. Sherman si alzò. Doveva cercare di abbracciarla? O avrebbe solo peggiorato la situazione? Fece un passo in avanti, verso di lei.

Lei si drizzò e protese le mani con fare incerto, discreto.

«No!» esclamò lei in tono sommesso. «Ascolta quel che ho da dirti.» Le guance erano rigate di lacrime. «Cercherò di aiutarti, e cercherò di aiutare Campbell, in ogni modo possibile. Ma non posso darti né amore, né tenerezza. Non sono un'attrice così brava. Vorrei esserlo, poiché avrai bisogno di amore e tenerezza, Sherman.»

Sherman chiese: «Non mi puoi perdonare?».

«Forse sì» disse lei. «Ma cosa cambierebbe?»

Lui non aveva risposte.

Con Campbell parlò nella camera da letto della bambina. Il solo fatto di entrarci fu sufficiente a spezzargli il cuore. Campbell era seduta al suo tavolo (un tavolo rotondo ricoperto di tessuto di cotone a fiori di Laura Ashley lungo fino a terra per un valore di ottocento dollari con sopra una lastra di vetro molato da duecentottanta dollari o piuttosto ci stava abbarbicata, con la testa china fin quasi a toccarlo, in una posa d'intensa concentrazione, a scrivere lettere con una grossa matita rosa. Era la cameretta ideale per una ragazzina.

Bambole e animali di peluche erano dappertutto. Ce n'erano sulle librerie smaltate di bianco con i sostegni a coste, e sulle due piccole poltroncine da boudoir (anch'esse ricoperte di tessuto a fiori di Laura Ashley). Erano sulla testiera Chippendale e sulla pedana del letto sopra il mucchietto merlettato e composto con cura di cuscini, sui due tavolini rotondi vicino al letto ricoperti di un altro costoso profluvio di tessuto fino a terra. Sherman non aveva mai contestato un centesimo delle enormi somme di denaro spese da Judy in questa sola camera, e certamente non lo fece ora. Aveva il cuore spezzato al pensiero di dover trovare le parole per dire a Campbell che il mondo di sogno di questa stanza era finito. Troppo presto.

«Ciao, tesoro, che cosa stai facendo?»

Senza alzare gli occhi: «Scrivo un libro».

«Scrivi un libro? Ma è magnifico! Di cosa parla?»

Silenzio. Senza alzare lo sguardo. Concentrata sul lavoro.

«Cara, vorrei parlarti di una cosa, una cosa molto importante.»

Lei alzò lo sguardo. «Papà, sai fare un libro?»

Fare un libro? «Fare un libro? Non sono certo di capire quel che vuoi dire.»

«Fare un libro!» Un po' esasperata dalla sua ottusità.

«Vuoi dire farne uno davvero? No, non è possibile. Un libro si fa in una tipografia.»

«MacKenzie ne sta facendo uno. Il suo papà l'aiuta. Io ne voglio fare uno.»

Garland Reed e i suoi maledetti cosiddetti libri. Evitando l'argomento: «Be', ma prima lo devi scrivere il tuo libro».

Un grande sorriso: «L'ho scritto!». Indicò il foglio sul tavolo.

«L'hai scritto?»

«Sì! Mi aiuti a fare un libro?»

Debolmente, tristemente: «Proverò».

«Lo vuoi leggere?»

«Campbell, c'è una cosa molto importante di cui voglio parlarti. E voglio che tu ascolti attentamente quello che devo dirti.»

«Lo vuoi leggere?»

«Campbell…» Un sospiro: cosa fare contro la sua idea fissa? «E va bene, mi piacerebbe leggerlo e cercherò di aiutarti a farne un libro.»

Modestamente: «Non è molto lungo». La bambina raccolse vari fogli di carta e glieli porse.

In grandi caratteri, scritti con estrema cura:

IL KOALA

di Campbell McCoy

Una volta c'era un koala. Si chiamava Kelly.

Viveva nei boschi. Kelly aveva un sacco di amici.

Un giorno uno andò a fare una gita e mangiò

il cibo di Kelly.

Egli era molto triste. Voleva vedere la città.

Kelly andò in città. Voleva anche vedere i palazzi.

Aveva appena alienato una maniglia per aprire una porta,

quando un cane gli corse incontro! Ma non prese Kelly.

Kelly saltò da una finestra. E per sbaglio schiacciò

l'allarme. Allora arrivarono di corsa le macchine

della polizia. Kelly aveva paura. Alla fine Kelly scappò.

Qualcuno prese Kelly e lo portò allo zoo.

Adesso Kelly ama lo zoo.

A Sherman parve che la testa gli si riempisse di vapore. Era la sua storia! Per un attimo si chiese se la bambina in qualche modo inspiegabile avesse intuito ciò che gli era accaduto… forse cogliendo le sinistre esternazioni… come se il suo dramma fosse in qualche modo nell'atmosfera stessa della casa. Per sbaglio schiacciò l'allarme. Allora arrivarono di corsa le macchine della polizia! No! Non poteva essere… eppure la bambina lo aveva scritto!

«Ti piace?»

«Sì, ehm… io, ehm…»

«Papà! Ti piace?»

«È stupendo, amore. Hai tantissimo talento. Non molte bambine della tua età… non molte… È stupendo!»

«E allora mi aiuti a fare il libro?»

«Io… io devo dirti una cosa, Campbell. D'accordo?»

«D'accordo! Ma ti piace davvero?»

«Sì, è stupendo. Campbell, voglio che tu mi stia a sentire. Okay? Ora, Campbell, tu sai che la gente non dice sempre la verità sulle altre persone.»

«La verità?»

«A volte la gente dice cose brutte, cose che non sono vere.»

«Che cosa?»

«A volte la gente dice brutte cose su altra gente, cose che non dovrebbe dire, cose che fanno star male. Capisci quel che voglio dire?»

«Papà, devo fare un disegno di Kelly per il libro?»

Kelly? «Ti prego, stammi a sentire, Campbell. È importante.»

«Ooooo-keeeeyyyy!» Un sospiro profondo, stanchissimo.

«Ti ricordi che una volta MacKenzie disse una cosa su di te che non era simpatica, una cosa che non era vera?»

«MacKenzie?» Adesso aveva catturato la sua attenzione.

«Sì. Ti ricordi, disse che tu…» Non riusciva a ricordare quel che aveva detto MacKenzie. «Mi pare che disse che tu non eri sua amica.»

«MacKenzie è la mia migliore amica, e io sono la sua migliore amica.»

«Lo so. È proprio questo il punto. Lei disse una cosa che non era vera. Non voleva dirla, ma l'ha detta e, a volte, la gente fa così. Dice cose che fanno male ad altra gente, e forse non intende farlo, ma lo fa, e fa male ad altra gente, e non è la cosa giusta da fare.»

«Che cosa?»

Sherman continuò a fatica: «E questo non capita solo ai bambini. A volte lo fanno anche i grandi. I grandi possono essere tanto fattivi anche loro. Anzi, anche di più. Ora, Campbell, voglio che mi ascolti. Certa gente dice cose molto cattive su di me, cose che non sono vere».

«Davvero?»

«Sì. Dicono che ho investito un ragazzo con la mia automobile e che gli ho fatto molto male. Ti prego, guardami, Campbell. No, non è vero. Io non ho fatto una cosa simile, ma ci sono delle persone cattive che lo dicono, e forse sentirai delle persone che lo dicono, ma tu devi sapere solo che non è vero. Anche se dicono che è vero, tu sai che non è vero.»

«Perché non gli dici che non è vero?»

«Lo farò, ma forse quella gente non vuole credermi. C'è gente cattiva che vuole credere cose cattive degli altri.»

«Ma perché non glielo dici?»

«Lo farò. Ma quella gente cattiva scriverà cattiverie sui giornali e le dirà alla televisione, e così la gente ci crederà, perché lo leggerà sui giornali e lo vedrà alla televisione. Ma non è vero. E non m'importa cosa pensano loro, ma m'importa cosa pensi tu, perché ti voglio bene, Campbell, ti voglio tanto bene, e voglio che tu sappia che il tuo papà è una brava persona che non ha fatto quello che quella gente dice.»

«Sarai sui giornali? Sarai alla televisione?»

«Ho paura di sì, Campbell. Forse anche domani. E le tue compagne a scuola potrebbero dirti qualcosa. Ma non devi dar retta a loro, perché tu saprai che quel che c'è sui giornali e alla televisione non è vero. Chiaro, tesoro?»

«Vuol dire che sarai famoso?»

«Famoso?»

«Sarai nella storia, papà?»

La storia? «No, non sarò nella storia. Campbell. Ma sarò disprezzato, insultato, gettato nel fango.»

Sapeva che la bambina non poteva capire. Quelle frasi erano sbottate fuori spontaneamente, sotto la spinta della frustrazione nata dal suo tentativo di spiegare come funzionano la stampa e i mezzi di comunicazione di massa a una bambina di sei anni.

Lei, però, qualcosa riuscì a capire, qualcosa che aveva letto sulla faccia del padre. Con grande serietà e tenerezza lo guardò negli occhi e disse:

«Non preoccuparti, papà. Io ti voglio bene.»

«Campbell…»

La prese tra le braccia e affondò la testa nelle spalle della bambina per nascondere le lacrime.

Una volta c'era un koala e c'era una cameretta graziosa dove abitavano creature dolci e morbide e dove si dormiva il sonno fiducioso dell'innocenza; c'erano state, una volta, e ora non c'erano più.