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Partire per un posto migliore

«Stammi a sentire, Sherman. Credi proprio che a questo punto a lei freghi molto se sei un gentiluomo o no? Credi proprio che sia disposta volontariamente ad andar contro il suo interesse per aiutarti? Non vuol neanche parlare con te, Dio buono!»

«Non lo so.»

«Io lo so. Non ti sei ancora fatta un'idea precisa, eh? Lei ha sposato Ruskin, Dio buono, e checcavolo pensi che provasse per lui? Scommetto che ha studiato le tabelle attuariali. Capito? Scommetto con te che ha davvero studiato le tabelle attuariali.»

«Forse hai ragione. Ma questo non giustifica quello che farò io. Stiamo parlando di un funerale, il funerale del marito!»

Killian rise. «Chiamalo pure funerale, se vuoi. Per lei è Natale.»

«Ma fare una cosa simile a una vedova nel giorno del funerale di suo marito… praticamente sopra il cadavere!»

«E va bene. Adesso te la metto sotto un profilo diverso. Che cavolo vuoi: una stella d'oro per meriti morali… o il tuo funerale?»

Killian teneva i gomiti piantati sui braccioli della sua poltroncina alla scrivania. Si chinò in avanti e alzò la testa, come per dire: "Che cosa, Sherman? Non ti sento".

E in quel momento Sherman ebbe la visione di quel posto e di loro. Se doveva andare in prigione, anche per qualche mese… non parliamo di anni…

«Questa è la volta buona, lo sai, che la potrai vedere» disse Killian. «Lei deve farsi vedere allo stupido funerale di quel tipo. Lei affronterà te e dieci come te per il bottino che porterà a casa in quell'occasione funebre.»

Sherman abbassò gli occhi e disse: «D'accordo, lo farò».

«Credimi» disse Killian, «è assolutamente legale e, date le circostanze, assolutamente onesto. Tu non fai del male a Maria Ruskin. Tu ti difendi. Hai ogni diritto di farlo.»

Sherman alzò gli occhi su Killian e assentì, come se assentisse e autorizzasse la fine del mondo.

«Meglio cominciare» disse Killian, «prima che Quigley se ne vada a colazione. È lui che fa tutte le nostre installazioni.»

«Lo fate spesso?»

«Ti ho detto che è un procedimento diffuso, oggi. Non gli diamo una grande pubblicità, ma lo facciamo spessissimo. Adesso vado a cercare Quigley.»

Killian si alzò e uscì in corridoio. Lo sguardo di Sherman passò in rassegna lo spaventoso arredamento del piccolo studio. Che incredibile squallore! Eppure lui era lì. Era la sua ultima roccaforte, l'ultimo baluardo. Stava seduto, di sua libera elezione, in attesa di essere equipaggiato, al fine di rubare, attraverso l'inganno più inqualificabile, una prova testimoniale a una persona che lui aveva amato. Annuì, come se ci fosse stata un'altra persona nella stanza, e quel cenno di assenso diceva: "Sì, ma è quello che farò".

Killian tornò insieme a Quigley. Sopra la cintura di Quigley, sul fianco sinistro, c'era una pistola calibro 38 in una fondina, con l'impugnatura in avanti. Era entrato con una specie di borsa da avvocato. Sorrise a Sherman in modo sbrigativo, un sorriso di routine.

«Okay!» disse Quigley a Sherman. «Si tolga la camicia.»

Sherman fece quel che gli era stato richiesto. La vanità fisica del maschio non conosce limiti. La prima preoccupazione di Sherman fu che i suoi muscoli pettorali, addominali e tricipiti fossero abbastanza in rilievo da impressionare quei due uomini. Per un attimo questo fatto ebbe la meglio su ogni altra considerazione. Sapeva che estendendo le braccia all'ingiù come se le tenesse lungo i fianchi, i tricipiti si sarebbero flessi.

Quigley disse: «Adesso le metto il registratore sopra le reni. Indosserà una giacca, no?».

«Sì.»

«Okay. Allora niente problemi.»

Quigley si piegò su un ginocchio, aprì la borsa, tirò fuori i fili e il registratore, che aveva più o meno il formato di un mazzo di carte. Il microfono era un cilindro grigio del formato di una gomma, con una fascetta metallica simile a una normale matita. Per prima cosa fissò il registratore alla schiena di Sherman. Poi fissò il filo attorno alla vita, da dietro in avanti e poi lungo l'addome fino all'incavo tra i muscoli pettorali, proprio sopra lo sterno, dove sistemò il microfono.

«Ottimo!» esclamò. «È a posto. Non si vedrà per niente, soprattutto se si mette la cravatta.»

Sherman lo prese come un complimento. A posto… tra le massicce collinette dei virili muscoli del mio torace.

«Okay» disse Quigley, «si metta pure la camicia e facciamo una prova.»

Sherman si rimise camicia, cravatta e giacca. Be'… adesso era equipaggiato. Freddi frammenti metallici sui reni e sopra lo sterno… Era divenuto quell'odioso animale… il… il… Ma odioso era soltanto una parola, no? Ora che era davvero divenuto quella creatura, non provava più il minimo senso di colpa. La paura aveva modificato la mappa della geografia morale molto in fretta.

«Benissimo» disse di nuovo Killian. «Adesso ripassiamo quello che devi dire. A te bastano solo un paio di dichiarazioni sue, ma devi sapere esattamente come tirargliele fuori. D'accordo? Perciò, cominciamo.»

Indicò la sedia di plastica bianca, e Sherman ci si sedette per apprendere l'arte virile dell'adescamento. "Non l'adescamento" disse tra sé. "La verità."

Quella di Harold A. Burns, sulla Madison Avenue, era da molti anni l'impresa funebre più alla moda di New York, ma Peter Fallow non ci aveva mai messo piede. Le doppie porte verde scuro sulla Madison erano riquadrate da una serie di lesene. Il vestibolo non era più vasto di quattro metri per quattro. E tuttavia, fin dal momento del suo ingresso, Fallow fu colto da una sensazione insopportabile. La luce in quello spazio ridotto era intensissima, tanto intensa che lui non volle neppure cercarne la fonte, per paura di venirne accecato. Nel vestibolo stava un uomo calvo vestito di un abito grigio scuro. Tese a Fallow un programma e disse: «Firmi il registro, prego». C'era un piccolo podio, sul quale stavano un grosso registro e una penna a sfera legati assieme da una catenella d'ottone. Fallow aggiunse il suo nome all'elenco.

Quando i suoi occhi cominciarono ad adattarsi alla luce, si accorse che c'era un'ampia porta oltre il vestibolo e che una persona lo stava fissando. Non una persona, comunque, ma parecchie… non parecchie persone, ma… moltissime! La porta conduceva a una breve rampa di scale. Quanti occhi su di lui! I partecipanti al funerale erano seduti in quello che sembrava il presbiterio di una piccola chiesa, e lo fissavano tutti quanti. I banchi erano di fronte a un palco sul quale doveva aver luogo il servizio funebre e dove stava la bara dell'uomo recentemente scomparso. Il vestibolo era un po' arretrato, di lato, e i presenti girando un poco la testa potevano vedere ogni persona che arrivava. E tutti giravano la testa. Ma chiaro! Questa era Manhattan! L'Upper East Side! Il caro estinto riposa nella bara là, davanti! Ahinoi! Il povero diavolo è spacciato, andato per sempre. Ma i superstiti, i vivi? Ah! Be', sono tutt'altra cosa! Essi ancora bruciano e fremono dell'adorabile energia mondana della città! Non chi se ne va, ma chi se ne viene! Oh, lasciate che li si illumini in ogni modo possibile e che se ne misuri la radiosità!

Continuavano ad arrivare: il barone Hochswald, Nunnally Voyd, Bobby Shaflett, Red Pitt, Jackie Balch, i Bavardage. Tutti quanti, l'intera popolazione ospitata in carattere neretto nelle rubriche dei pettegolezzi mondani, tutti quelli che entravano nell'accecante luce del vestibolo con facce tanto ineccepibilmente tristi da far quasi scoppiare Fallow in una risata. Essi aggiungevano i loro nomi nel registro con grande solennità. Fallow avrebbe sicuramente dato un'occhiata a quell'elenco prima di andar via.

Presto il locale fu gremito. Un rumore frusciarne percorse la folla. Si aprì una porta di fianco al palco. La gente cominciò ad alzarsi dai posti per vedere meglio. Fallow si alzò a metà.

Be', eccola lì… o almeno Fallow decise che era lei. Alla testa di un piccolo corteo apparve la brunetta misteriosa, la vedova Ruskin. Era una donna ben fatta, che indossava un abito a giacca di seta nera a maniche lunghe e con larghe spalle, una camicetta di seta nera e un cappellino nero tipo fez dal quale partiva un voluminoso velo nero. L'insieme sarebbe costato alla proprietà Ruskin il ricavato di un certo numero di biglietti aerei per La Mecca. Con lei c'erano altre otto o nove persone. Due di loro erano i figli nati dal primo matrimonio del defunto, un paio di uomini di mezza età, l'uno e l'altro abbastanza vecchi da poter essere il padre di Maria. C'era una donna sulla quarantina che Fallow pensò essere la figlia avuta da Ruskin dalla seconda moglie. C'era una vecchia, forse la sorella di Ruskin, e poi altre due donne e due uomini che Fallow non riuscì a identificare. Si sedettero tutti in prima fila, vicino alla bara.

Fallow era dall'altra parte della stanza rispetto alla porta da cui era uscita Maria Ruskin e dalla quale avrebbe potuto sparire alla fine del servizio. Forse bisognava ricorrere a qualche forma di brusca aggressività giornalistica. Si chiese se la vedova Ruskin avesse assoldato delle guardie del corpo per l'occasione.

Una figura alta, slanciata, molto elegante salì i quattro o cinque scalini fino al palco. Era inappuntabilmente vestito per cerimonie funebri, con un abito blu scuro a doppio petto, cravatta nera, camicia bianca e scarpe nere appuntite. Fallow guardò il programma. Doveva essere un certo B. Monte Griswold, del consiglio di amministrazione del Metropolitan Museum of Art. Si cavò dal taschino un paio di occhialini, stese alcuni fogli di carta davanti a sé, abbassò lo sguardo, lo alzò, si levò gli occhiali, fece una pausa e disse con voce piuttosto flautata:

«Non siamo qui per piangere Arthur Ruskin ma per celebrare la sua vita tanto piena… e tanto generosa.»

Il debole degli americani per il personale e il sentimentale fece venire la pelle d'oca a Fallow. Gli yankee non riuscivano neppure a lasciar partire un morto con dignità. Ormai tutti i presenti ci stavano cadendo. Le sentiva arrivare: le inutili e patetiche banalità, le cucchiaiate abbondanti di sospiri e sentimentalismo. Era sufficiente per riportare un inglese nel grembo della chiesa d'Inghilterra, dove la morte e tutti i maggiori accadimenti della vita si trattavano agli alti livelli del divino, uno stato invariabile e formalmente ammirevole di estrema elevazione morale.

Gli elogi funebri di Ruskin furono ottusi e privi di gusto esattamente come Fallow aveva immaginato. Il primo fu reso da un senatore degli Stati Uniti di New York, Sidney Greenspan, dall'accento eccezionalmente volgare, perfino secondo i paradigmi americani. Mise in evidenza la generosità di Ruskin per l'Appello all'unità ebraica, una notazione infelice alla luce del fatto da poco rivelato che il suo impero finanziario era fondato sul trasporto dei musulmani alla Mecca. Il senatore fu seguito da uno dei soci di Ruskin, Raymond Radosz. Questi cominciò abbastanza bene raccontando un aneddoto su un certo momento in cui entrambi erano vicini al fallimento, ma poi partì per una tangente a dir poco imbarazzante sulle glorie della loro finanziaria, la Rayart Equities, che avrebbe tenuto in vita lo spirito di Artie… lo chiamava Artie… fino a quando ci fossero stati prestiti e obbligazioni convertibili. Poi arrivò un pianista jazz, "il preferito da Arthur", Manny Leerman, che suonò un pot-pourri di "canzoni preferite" di Arthur. Manny Leerman era un uomo grasso, dai capelli rossi, che indossava un abito a doppio petto blu verdastro, che lui sbottonò con qualche fatica dopo essersi seduto al piano, perché il collo dell'abito non salisse sopra il colletto della camicia. Venne fuori che le canzoni preferite di Arthur erano state Settembre sotto la pioggia, The day isn't long enough (When I'm with you), e // volo del calabrone. Quest'ultimo pezzo il florido pianista lo suonò con grande entusiasmo, ma non senza errori. Concluse la sua prestazione ruotando di centottanta gradi sullo sgabello del piano, prima di rendersi conto che non si trovava in un night club e non ci si aspettava che ringraziasse il pubblico. Si abbottonò la giacca a doppio petto, poi abbandonò il palco.

Fu il turno dell'oratore principale: Hubert Birnley, l'attore cinematografico, il quale aveva deciso che andava commemorato il lato lieve e divertente e umano di Arthur, il grande finanziere e il grande traghettatore del mondo islamico. Raccontò un aneddoto che verteva largamente sulla comprensione di ognuno dei problemi sorti dai sistemi di filtraggio nelle piscine di Palm Springs, California. Scese dal palco toccandosi delicatamente gli angoli degli occhi con un fazzoletto.

Ultima apparizione in programma fu quella del cantore Myron Branoskowitz, della congregazione Schlomoch'om di Bayside, Queens. Era un enorme giovanotto, sui centoquaranta chili, che attaccò a cantare in ebraico con voce tenorile forte e chiara. Le sue lamentazioni presero ad aumentare di volume. Erano senza fine e irrefrenabili. La voce si lanciò in vibrati e tremolii. Se si presentava la scelta tra il finire una frase all'ottava alta o a quella bassa, lui sceglieva invariabilmente quella alta, come un cantante d'opera in concerto tentato dal suo stesso virtuosismo. Infilava scoppi di pianto nella voce in modo tale da mettere in soggezione il peggior trombone impegnato nei Pagliacci. Da principio i condolenti furono impressionati. Poi, quando la voce crebbe di volume, sconcertati. Cominciarono a preoccuparsi seriamente quando il giovanotto parve gonfiarsi come una rana. E allora presero a guardarsi l'un l'altro, mentre ognuno di loro si chiedeva se il vicino stesse pensando la stessa cosa: "Questo ragazzo è completamente matto". La voce salì, salì, salì, fino ad arrivare in cima con una nota quasi da yodel prima di tuffarsi più in basso con una lacrimosa cascata di vibrati per fermarsi bruscamente.

Il servizio era finito. Il pubblico indugiò, ma Fallow no. Scivolò nel passaggio tra i banchi e, un po' curvo, cominciò ad avvicinarsi in fretta alla prima fila. Era a dieci o dodici banchi dalla fronte, quando una figura davanti a lui fece la stessa cosa.

Era un uomo in abito blu scuro, cappello floscio e occhiali scuri. Fallow colse soltanto una brevissima visione della sua testa di profilo… il mento… era Sherman McCoy. Si era messo il cappello e gli occhiali senza dubbio per entrare nella sala delle onoranze funebri senza venir riconosciuto. Girò intorno al primo banco e si trovò in mezzo al piccolo gruppo della famiglia. Fallow fece lo stesso e fu così in grado di gettare un'occhiata più decisa al profilo dell'uomo. Era proprio McCoy.

La folla era ormai entrata in quello stato di agitazione che precede il momento di lasciare una cerimonia funebre, e si stava liberando della carica accumulata in trenta o quaranta minuti di rispetto obbligatorio per un uomo ricco che, in vita, non era stato particolarmente simpatico e caloroso. Un funzionario delle onoranze funebri teneva aperta la piccola porta laterale per la vedova Ruskin. McCoy era alle spalle di un uomo alto che era in realtà, come ora Fallow poté vedere, Monte Griswold, il maestro di cerimonia. I vari autori degli elogi funebri si stavano unendo alla famiglia dietro le quinte. McCoy e Fallow erano ora parte di un gruppo dolente di abiti blu da uomo e vestiti neri da donna. Fallow unì le braccia sopra il petto per nascondere i bottoni di ottone sul blazer, per paura che sembrassero fuori posto.

Non c'erano problemi. Il portiere dell'impresa funebre era intento a far entrare tutti quelli che volevano entrare. La porta conduceva a una breve rampa di scale, in cima alla quale c'era una serie di stanze, come un piccolo appartamento. Si radunarono tutti in un salottino decorato con chiaroscuri e pannelli di stoffa con cornici di legno dorato, alla moda francese del XIX secolo. Tutti stavano facendo le condoglianze alla vedova, che quasi non si riusciva a vedere dietro il muro degli abiti blu. McCoy si teneva ai margini della folla, sempre con gli occhiali scuri. Fallow stava dietro a McCoy.

Sentiva il gorgoglio baritonale di Hubert Birnley che parlava alla vedova e senza dubbio diceva cose perfettamente appropriate e fatue con un sorriso "Birnley" triste ma accattivante sul viso. Poi venne il turno del senatore Greenspan: si sentì la sua voce nasale dire senza dubbio molte cose sbagliate insieme alle giuste. E poi Monte Griswold ebbe la sua occasione di dire cose ineccepibili, se ne poteva essere certi, e di attendersi i complimenti della vedova per la sua abilità di presentatore. Monte Griswold prese congedo dalla vedova Ruskin e - bang! - McCoy l'affrontò. Fallow gli era sempre alle spalle. Vide i lineamenti di Maria Ruskin attraverso il velo. Giovane e bella! Niente da dire! Il vestito accentuava i seni e sottolineava la conformazione del basso addome. Guardava in faccia McCoy. McCoy era tanto chino sul viso di lei che Fallow pensò stesse per baciarla. Ma lui stava solo bisbigliando. La vedova Ruskin disse qualcosa a bassa voce. Fallow si avvicinò ancora di più. Si rannicchiò dietro McCoy.

Non riusciva a capire, ma sentiva una parola qua e là… "franco"… "essenziale"… "tutti e due"… "automobile".,.

Automobile. Appena ebbe sentito quella parola, Fallow provò quella particolare sensazione per la quale vivono i giornalisti. Prima che il cervello potesse ruminare quello che le orecchie avevano appena udito, un segnale gli mise il sistema nervoso in allarme rosso. Un pezzo! È un evento nervoso, una sensazione palpabile come quelle registrate dai cinque sensi. Un pezzo!

Maledizione. McCoy stava mormorando di nuovo. Fallow si chinò avvicinandosi ulteriormente… "l'altro"… "rampa"… "sbandata"…

Rampa! Sbandata!

La voce della vedova si alzò. "Shahman!" Sì, pareva chiamarlo Shahman. "Possiamo parlarne più tardi?"

Ora la voce di McCoy salì, "…tempo, Maina!"… "…proprio là con me… sei il mio unico testimone!"

"Non posso pensare, ora, a quello, Shahman." La voce sforzata finiva in un piccolo tremito in gola. "Non capisci? Non sai dove sei? Mio marito è morto, Shahman."

Abbassò gli occhi e prese a vibrare tra singhiozzi soffocati. Immediatamente un uomo molto robusto le si mise al fianco. Era Raymond Radosz, uno di quelli che avevano parlato durante il servizio.

Altri singhiozzi. McCoy si affrettò verso l'uscita. Per un attimo Fallow pensò di seguirlo, ma poi fece dietrofront. Ora il pezzo, la storia vera, era la vedova Ruskin.

Radosz ora stringeva la vedova con tanta forza che le immense spalle del completo da lutto si stavano deformando. Lei pareva un po' sbilenca. «Va tutto bene, tesoro» disse lui. «Sei stata una bambina coraggiosa, e io so come ti senti, perché io e Artie ne abbiamo passate tante insieme. E andiamo indietro tanto, tanto nel tempo, anche prima che tu fossi nata, forse. E una cosa ti posso dire: // servizio sarebbe piaciuto ad Artie. Te lo assicuro. Gli sarebbe piaciuto sì, con il senatore e tutti gli altri.»

Si aspettava un complimento, un ringraziamento.

La vedova Ruskin si ricompose e soffocò il dolore. Era l'unico modo per sganciarsi dal suo ardente condolente. «Ma soprattutto con te, Ray» disse lei. «Tu lo conoscevi meglio di tutti, e sapevi come dire le cose. So che Arthur riposerà meglio, dopo quello che hai detto tu.»

«Ooooh! Be', grazie, Maria. Sai, quasi vedevo Artie davanti a me, mentre parlavo. Non avevo bisogno di pensare a quel che stavo per dire. È venuto fuori da solo.»

Subito dopo se ne andò, e Fallow si fece avanti. La vedova gli sorrise, appena appena un po' sconcertata poiché non sapeva chi fosse.

«Sono Peter Fallow» disse. «Come forse lei sa, ero insieme a suo marito quando morì.»

«Oh, sì!» disse lei, lanciandogli un'occhiata interrogativa.

«Volevo solo farle sapere» disse Fallow, «che non ha sofferto. Ha semplicemente perso conoscenza. Accadde…» Fallow alzò le braccia in segno di impotenza, «così. Volevo farle sapere che fu fatto tutto quello che si poteva fare, o almeno così mi pare. Io tentai la respirazione artificiale, e la polizia arrivò molto in fretta. So che in questi frangenti ci si possono fare un sacco di domande, e ho voluto farle sapere le risposte. Avevamo appena cominciato una cena eccellente e una piacevolissima conversazione. L'ultima cosa che ricordo è la stupenda risata di suo marito. In tutta franchezza, devo dirle, ci sono modi peggiori… è una perdita terribile, lo capisco, ma non è stata una line terribile.»

«Grazie» disse lei. «Lei è molto molto gentile a dirmi questo. Mi sono tanto rimproverata di essere stata lontana da lui quando…»

«Non deve farlo» disse Fallow.

La vedova Ruskin alzò lo sguardo su di lui e sorrise. Lui colse la scintilla negli occhi e la curiosa arricciatura delle labbra di lei. Era capace di dare un risvolto civettuolo al ringraziamento di una vedova.

Senza cambiare il tono della voce, Fallow disse: «Non ho potuto fare a meno di notare il signor McCoy che le parlava».

La vedova stava sorridendo con le labbra appena socchiuse. Per prima cosa il sorriso si spense. Poi le si chiusero le labbra.

«Per la verità, non ho potuto evitare di cogliere qualcosa della conversazione» proseguì Fallow. Poi, con uno sguardo affabile e smagliante sulla faccia e un accento perfetto da gentiluomo inglese durante un weekend in campagna, come se stesse chiedendo l'elenco degli ospiti a un pranzo importante: «Desumo che lei era in automobile con il signor McCoy quando lui incorse in quel disgraziato incidente nel Bronx».

Gli occhi della vedova diventarono un paio di tizzoni ardenti.

«Speravo che lei mi potesse dire quel che è successo veramente quella notte.»

Maria Ruskin lo fissò un attimo di più, e disse a denti stretti: «Senta, signor… signor…».

«Fallow.»

«… Testa di cazzo. Questo è il funerale di mio marito, e io non ti voglio qui. Capito? Perciò vai via… e sparati.»

Lei si voltò e si avviò verso Radosz e un gruppo di abiti blu da uomo e di vestiti neri da donna.

Nel lasciare le pompe funebri Harold A. Burns, Fallow provava le vertigini per tutte le cose che era venuto a sapere. La storia, il pezzo, non esisteva soltanto nel suo cervello, ma anche nel petto e nel plesso solare. Si diffuse come corrente elettrica in ogni cilindrasse e in ogni dendrite del corpo. Appena fosse giunto alla macchina per scrivere, il pezzo sarebbe uscito dalle dita… preconfezionato. Non avrebbe avuto bisogno di insinuare, avanzare l'ipotesi, speculare sul fatto che la bella, e ora favolosamente ricca, giovane vedova allegra Ruskin fosse o non fosse la brunetta misteriosa. McCoy lo aveva detto per lui. "Proprio là con me… il mio unico testimone!" La vedova Ruskin non aveva aperto bocca, ma non l'aveva negato. Né l'aveva negato quando il giornalista, il grande Fallow, quando io… quando io… quando io… ecco, proprio così. L'avrebbe scritto in prima persona. Un'altra esclusiva in prima persona, come MORTE STILE NEW YORK. Io, Fallow… Dio santo, aveva fame, aveva una voglia tremenda della tastiera! Il racconto vibrava nella sua testa, nel suo cuore, perfino nei suoi lombi.

Ma si costrinse a fermarsi nel vestibolo presso il registro a ricopiare i nomi di tutte le famose anime intervenute a porgere i propri rispetti alla graziosa vedova del Traghettatore-capo Kosher per La Mecca senza sospettare neppure il dramma che si era svolto sotto i loro pruriginosi nasi. Ma presto, molto presto avrebbero saputo. Io, Fallow!

Fuori, sul marciapiede, appena oltre il vestibolo, c'erano crocchi dei medesimi famosi personaggi, e la maggior parte stava tenendo quel tipo di conversazione allusiva e sorridente che la gente di New York spesso non riesce a evitare negli avvenimenti che esaltano la loro situazione di preminenza. I funerali non facevano eccezione. Il giovane immenso cantore, Myron Branoskowitz, stava parlando a - o stava parlando con un uomo più anziano dall'aria grave il cui nome Fallow aveva appena preso dal registro: Jonathan Buchman, direttore generale della Columbia Dischi. Il cantore parlava molto animatamente. Le mani compivano piccoli voli in aria. L'espressione di Buchman era rigida, paralizzata dalla logorrea sonora che si abbatteva incessantemente sul suo volto.

«Non c'è problema!» disse il cantore. Era praticamente un urlo. «Non c'è assolutamente problema! Ne ho già fatto delle cassette! Ho fatto tutti i pezzi forti di Caruso! Glieli faccio avere in ufficio domani. Ha un biglietto da visita?»

L'ultima cosa che Fallow vide, prima di allontanarsi, fu Buchman che estraeva da un elegante portacarte di lucertola un biglietto da visita, mentre il cantore Branoskowitz soggiungeva, con la stessa voce tenorile spiegata:

«Mario Lanza! Ho fatto anche Mario Lanza! Le farò avere anche quelle!»

«Be'!»

«Non c'è problema!»