«Ehiiiii!» L'ometto si girò verso i compagni e alzò la sigaretta per aria. (Visto che roba?) Uno degli uomini seduti sulla panca si mise a ridere. L'ometto fece una boccaccia a un simile tradimento della solidarietà. Poi guardò Sherman. Sherman non sapeva se mostrare comprensione o guardare da un'altra parte. Finì per fissarlo e basta. L'uomo si avvicinò e si accovacciò proprio accanto a lui. La sigaretta spenta gli pendeva dalla bocca.

«Visto che roba?» chiese.

«Sì» annuì Sherman.

«Uno vuole accendere, loro dovrebbero darti una fiamma, no? Figlio di una troia! Ehiii! Hai una sigaretta?»

«No, mi hanno portato via tutto. Perfino i lacci delle scarpe.»

«Ma va?» Guardò le scarpe di Sherman. Lui aveva ancora i lacci, notò Sherman.

Sherman udì una voce di donna. Qualcosa doveva averla irritata. La donna apparve nel corridoio fuori della cella. Era accompagnata da Tanooch. Era una donna alta e sottile con capelli ricci marrone e una pelle molto scura. Indossava pantaloni neri e una strana giacchetta con spalle molto ampie. Tanooch la stava scortando verso la stanza delle impronte digitali. D'un tratto lei si voltò verso una persona che Sherman non poteva vedere. «Tu, gran sacco di…» Non completò la frase. «Ehi, non me ne starò qui tutto il giorno in questa fogna, come te! Pensaci, Ciccio!»

Grandi risate di scherno tra i poliziotti sullo sfondo.

«Sta' attenta o ti stende, Mabel.»

Tanooch la spingeva. «Avanti, Mabel.»

Si rivolse a Tanooch. «Se mi parli, chiamami con il nome giusto! Non mi chiamo Mabel!»

Tanooch disse: «Tra un minuto ti chiamo anche peggio» e continuò a spingerla verso la stanza delle impronte.

«Duecentoventi-trentuno» disse l'ometto. «Spaccio di droghe.»

«Come lo sai?»

L'ometto spalancò gli occhi e assunse l'aria di chi se ne intende. (Per certe cose, non c'è neppure bisogno di perdere tempo a parlare.) Poi scosse il capo e disse: «È arrivato il bus del cazzo».

«Bus?»

Pareva che di solito la gente arrestata venisse portata subito a una stazione di polizia e rinchiusa là dentro. Di tanto in tanto un furgone della polizia faceva il giro delle varie stazioni e trasportava i prigionieri all'ufficio centrale di Immatricolazione per le impronte digitali e la comparsa in giudizio. Perciò doveva essere appena arrivata una nuova infornata. Sarebbero finiti tutti in quel recinto, salvo le donne, che venivano messe in un altro recinto, in fondo al corridoio, dopo una curva a gomito. E niente si muoveva, poiché «Albany si era rotta».

Arrivarono altre tre donne. Erano più giovani della prima.

«Duecentotrenta» disse l'ometto. «Prostitute.»

L'ometto che conosceva i numeri aveva ragione. Era arrivato il bus. Era cominciata la processione dalla scrivania dell'Angelo alla stanza delle impronte digitali, alla cella. La fitta di paura di Sherman riprese a diffondersi. Uno alla volta, tre giovanotti neri alti con teste rasate, giacche a vento e grosse scarpe da tennis bianche entrarono nella cella. Tutti i nuovi arrivati erano neri o ispanici. Per la maggior parte giovani. Parecchi sembravano ubriachi. L'ometto che conosceva i numeri si alzò e tornò dai suoi compagni per assicurarsi il posto sulla panca. Sherman era deciso a non muoversi. Voleva essere invisibile. In qualche modo, fino a che non muoveva un muscolo, non lo avrebbero visto.

Sherman fissava il pavimento e cercava di non pensare alle budella e alla vescica doloranti. Una delle righe nere tra le piastrelle cominciò a muoversi. Uno scarafaggio! Poi ne vide un altro, poi un terzo! Affascinante e orrendo! Sherman si guardò attorno per vedere se qualcun altro li aveva notati. Nessuno pareva averlo fatto: ma colse gli occhi di uno dei tre giovani neri. Tutti e tre lo fissavano! Che volti magri, duri e ostili! Immediatamente il suo cuore entrò in tachicardia. Vide il piede sobbalzare per la violenza delle pulsazioni cardiache. Fissò gli occhi sugli scarafaggi nel tentativo di calmarsi. Uno degli scarafaggi si era fatto strada fino all'ispanico ubriaco, che intanto era scivolato a terra. Lo scarafaggio prese a salire lungo il tacco della scarpa. Poi cominciò a salire lungo la gamba. Sparì per un attimo. Poi riapparve. Si arrampicò sul risvolto e poi verso il ginocchio. Arrivato al ginocchio, si piazzò tra le incrostazioni di vomito.

Sherman alzò lo sguardo. Uno dei ragazzi di colore avanzava verso di lui. Aveva un sorrisetto in faccia. Sembrava tremendamente alto. Gli occhi erano chiusi a fessura. Indossava pantaloni neri a tubo e grandi scarpe da tennis chiuse da lacci che parevano cinghie. Si abbassò davanti a Sherman. La feccia non aveva più alcuna espressione. E tuttavia era terrificante, più che mai! Guardò Sherman in volto.

«Ehi, tu, hai una sigaretta?»

Sherman rispose: «No». Ma non voleva fargli pensare di essere un duro, o magari addirittura un uomo non socievole, per cui soggiunse: «Mi spiace. Mi hanno portato via tutto».

Nell'atto stesso di dire ciò, capì che era un errore. Era un atto di scusa, un segno di debolezza.

«Non importa, uomo.» Il giovanotto pareva quasi cordiale. «Perché sei dentro?»

Sherman esitò. «Omicidio colposo» disse. Comportamento pericoloso non era sufficiente.

«Sììì. Brutta cosa» disse il giovane imitando un tono preoccupato. «Com'è stato?»

«Niente» disse Sherman. «Non so neanche di cosa parlano. E… tu, perché sei qui?»

«Un centosessanta-quindici» disse il ragazzo. Poi aggiunse: «Rapina a mano armata».

Il ragazzo strinse le labbra in una smorfia. Sherman non era in grado di dire se questo significava: "Rapina a mano armata: non è niente di speciale" oppure "è tutta una palla".

Il giovanotto sorrise a Sherman, sempre guardandolo fisso in viso. «Okay, signor Omicidio colposo» disse, si rialzò in piedi, si voltò e tornò all'altro lato della cella.

Signor Omicidio colposo! Aveva capito subito che poteva trattarlo in modo sprezzante e altezzoso! Cosa potevano fare? Non certo… C'era stato un incidente. Dove? Alcuni detenuti, in una cella, avevano bloccato la visuale attraverso le sbarre con i loro corpi mentre gli altri… Ma gli altri, gli ispanici, sarebbero stati complici di quei tre?

La bocca di Sherman era secca, inaridita. La voglia di urinare era violenta. Il cuore batteva nervosamente, anche se non così in fretta come prima. In quel momento si aprirono le sbarre. Poliziotti. Uno di loro portava due vassoi di cartone, di quelli usati dai negozi di specialità gastronomiche. Li posò sul pavimento. Su uno c'era una pila di panini, sull'altro una serie di tazze di plastica.

Si alzò e disse: «Okay, gente, ecco il mangime. Dividere in parti uguali, e niente casino, capito?».

Non ci fu corsa al cibo. E comunque Sherman fu lieto di non essere troppo lontano dai vassoi. S'infilò la giacca sporca sotto il braccio destro, si spostò in avanti e prese un panino avvolto nel cellofan e una tazza di plastica contenente un liquido rosa chiaro. Poi tornò a sedersi sulla giacca e gustò la bevanda. Aveva un sapore dolciastro. Posò la tazza vicino a sé e scartò il panino. Separò le due fette di pane e sbirciò il contenuto. C'era una fetta di carne. Aveva un colore giallastro poco rassicurante. Nella luce fluorescente della cella pareva quasi verde pallido. La superficie era liscia, viscida. Portò il panino alla faccia e lo annusò. Dalla carne arrivò uno sgradevole odore di sostanza chimica. Tirò fuori la fetta di carne e l'avvolse nel cellofan, poi la depose sul pavimento. Avrebbe mangiato solo il pane. Ma questo emanava a sua volta un odore così sgradevole preso dalla carne che non riuscì a sopportarlo. A fatica, aprì di nuovo il cellofan, ridusse a palline il pane e riavvolse tutta la porcheria assieme, carne e pane. Si accorse che c'era qualcuno in piedi davanti a lui. Scarpe bianche e cinghie.

Alzò lo sguardo. Il giovanotto nero guardava in giù con un curioso sorrisetto. Si piegò sulle cosce fin quasi a portare la testa appena appena sopra quella di Sherman.

«Ehi, uomo» disse. «Ho un po' di sete. Dammi la tua tazza.»

Dammi la tua tazza! Sherman fece un cenno verso i vassoi.

«Non c'è rimasto niente. Dammi la tua.»

Sherman frugò disperatamente nella sua testa in cerca di qualcosa da dire. Scosse la testa.

«Hai sentito l'uomo. Dividere in parti uguali. Credevo che tu e io eravamo amici.»

Che tono sprezzante di finta delusione! Sherman sapeva che era tempo di tracciare una linea divisoria, di porre fine a questo… questo… Più in fretta di quanto fu in grado di seguire l'occhio di Sherman, il braccio del giovane si protese e afferrò la tazza di plastica sul pavimento accanto a Sherman. Si rialzò, tirò indietro la testa, prosciugò con ostentazione la tazza, la tese sopra Sherman e disse:

«Te l'avevo chiesto educatamente. Capisci? Qui dentro, devi usare la testa e farti degli amici.»

Poi aprì il pugno, lasciò cadere la tazza in grembo a Sherman, e se ne andò. Sherman si accorse che tutta la stanza stava guardando. Dovrei… dovrei… ma era paralizzato dalla paura e dalla confusione mentale. Di fronte, un ispanico stava togliendo la carne dal panino, poi la buttò sul pavimento. C'erano fette di carne dappertutto. Qua e là pezzi di cellofan appallottolati e panini interi ancora avvolti nelle loro confezioni e buttati a terra. Il piccolo ispanico aveva cominciato a mangiare il pane e aveva gli occhi puntati su Sherman. Lo guardavano… in quel recinto umano… carne nauseante, pane, cellofan, tazze di plastica… scarafaggi! Qui… là… Guardò nella direzione dell'ubriaco. Era ancora sdraiato a terra. C'erano tre scarafaggi che grufolavano tra le pieghe del pantalone di destra, sul ginocchio. D'un tratto Sherman vide qualcosa che si muoveva nell'apertura della tasca dei pantaloni. Un altro scarafaggio… no, troppo grande… grigio… un topo!… un topo che usciva strisciando dalla tasca dell'uomo… Il topo rimase aggrappato alla stoffa per un attimo, poi sgambettò fino al pavimento di piastrelle e si fermò di nuovo. Quindi sfrecciò in avanti verso un pezzo di carne giallastra. Si fermò di nuovo, come per valutare meglio quel ricco giacimento.

«¡Mira!» Uno degli ispanici aveva visto il topo.

Dalla panca scattò un piede. Il topo slittò veloce per il pavimento piastrellato come un disco da hockey. Un'altra gamba volò. Il topo tornò di rimbalzo verso la panca. Una risata, schiamazzi. «¡Mira!» Un altro piede. Il topo partì slittando sulla schiena, fino a un mucchietto di carne che lo riportò in posizione normale. Risate, urla… «¡Mira! ¡Mira!» Un altro calcio. Il topo arrivò roteando verso Sherman, sul dorso. Rimase lì, a pochi centimetri dal suo piede, stordito, le zampette a tratti in agitazione. Poi riuscì con immensa fatica a rovesciarsi e si fermò. Il piccolo roditore era alla fine. Neppure la paura riusciva a farlo muovere. Avanzò appena di un paio di passettini. Altre risate. Devo dargli un calcio in segno di solidarietà con i miei compagni di cella? A questo pensava. Senza riflettere, si alzò. Poi si chinò e raccolse il topo. Lo tenne con la mano sinistra e si avvicinò alle sbarre. Nella cella si fece silenzio. Il topo dava qualche debole strattone nella palma di Sherman. Questi aveva quasi raggiunto le sbarre… Figlio dì puttana! Un dolore terribile all'indice. Il topo l'aveva morsicato! Sherman fece un salto e aprì la mano. Il topo si era attaccato al dito con i denti. Sherman agitò rapidamente il dito su e giù come se stesse scuotendo un termometro. L'animaletto non intendeva mollare la presa! «¡Mira! ¡Mira!» Schiamazzi, risate. Uno spettacolo stupendo! Si stavano divertendo immensamente! Sherman batté con forza la palma della mano su una delle traverse delle sbarre. Il topo volò fuori proprio davanti a Tanooch, che aveva in mano un mucchietto di fogli di carta e che si stava avvicinando alla cella. Tanooch fece un salto indietro.

«Cazzo!» disse. Poi guardò bieco Sherman. «Sei uscito di testa?»

Il topo giaceva a terra. Tanooch lo schiacciò con il tacco della sua scarpa. L'animale stava appiattito sul pavimento, a bocca aperta.

La mano di Sherman, dove aveva colpito la sbarra, gli faceva un male tremendo. La massaggiò con l'altra mano. È rotta! Vide i segni dei denti del topo sul dito indice e una piccola macchia di sangue. Con la mano sinistra, in un movimento semicircolare, arrivò alla tasca posteriore destra ed estrasse il fazzoletto. Il gesto richiese una torsione tremenda. Tutti lo stavano osservando. Ah, sì! Tutti. Spazzò via il sangue e avvolse il fazzoletto attorno alla mano. Sentì Tanooch dire a un altro poliziotto:

«Il tipo dì Park Avenue. Ha buttato fuori un topo.»

Sherman tornò arrancando al posto dove aveva lasciato la giacca appallottolata sul pavimento. Ci si sedette sopra. La mano non gli faceva più così male. Forse non è rotta. Ma il dito può essere stato avvelenato dal morso! Scostò un poco il fazzoletto per poter guardare il dito. Non aveva un'aria così brutta. La macchia di sangue non c'era più.

Il giovane nero stava tornando vicino a lui! Sherman alzò lo sguardo su di lui, e poi lo distolse. Il giovane si accoccolò davanti a lui, come prima.

«Ehi, uomo» disse, «vuoi sapere una cosa? Ho un po' freddo.»

Sherman cercò d'ignorarlo. Voltò la testa. Sapeva però di avere un'aria stizzita in viso. L'espressione sbagliata! Da debole!

«Tu! Guardami in faccia quando ti parlo!» Sherman girò la testa verso di lui. Ostilità pura! «Ti chiedo da bere, e tu non sei carino, ma adesso ti do l'opportunità di farti perdonare. Capisci… io ho freddo, uomo. Voglio la tua giacca. Dammi la tua giacca.»

La mia giacca! I miei indumenti! Il cervello di Sherman correva impazzito. Non riusciva a parlare. Scosse il capo in segno di negazione.

«Che cosa ti prende, uomo? Dovresti cercare di essere amichevole signor Omicidio colposo. Il mio amico qui dice che ti conosce. Ti ha visto in tivù. Hai rovinato un asso, e abiti in Park Avenue. Mica male, uomo. Ma qui non siamo in Park Avenue. Capito? Meglio che ti fai qualche amico, capito? Mi hai trattato proprio male, male, male, ma ti do una possibilità di rimediare. Su, dammi quella giacca del cazzo.»

Sherman smise di pensare. Aveva il cervello in fiamme! Mise le mani sul pavimento, sollevò le anche e poi si spostò fino a rimanere su un solo ginocchio. Poi balzò in piedi stringendo la giacca nella destra. Agì con tanta rapidità da sorprendere il ragazzo di colore.

«Sta' zitto!» disse. «Tu e io non abbiamo niente d spartire!»

Il giovanotto nero lo fissò senza espressione. Poi sor rise. «Sta' zitto?» disse. «Sta' zitto!» Sogghignò e sbuffò. «Sta' zitto a me!»

«Ehi! Voi microbi! Dateci un taglio!» Era Tanooch alle sbarre. Li guardava. Il giovane di colore gratificò Sherman con un gran sorriso e infilò la lingua nella guancia. (Divertiti! Salverai la tua pelle mortale per altri sessanta secondi!) Tornò alla panca e si sedette, sempre fissando Sherman.

Tanooch lesse da un foglio di carta: «Solinas! Gutiérrez! McCoy!»

McCoy! Sherman s'infilò in tutta fretta la giacca, perché la sua nemesi non si precipitasse a strappargliela di mano prima che lui potesse lasciare la cella. La giacca era molto umida, sporca, puzzolente, del tutto sformata. I pantaloni gli scivolarono sulle anche mentre si metteva la giacca. C'erano noccioline appiccicose sparse per la giacca e… un movimento! Due scarafaggi si erano infilati tra le pieghe. Li buttò per terra in fretta e furia, spazzandoli. Respirava sempre rapidamente e rumorosamente.

Quando Sherman uscì dalla cella dietro i latini, Tanooch gli disse a bassa voce: «Visto? Non ci siamo scordati di te. Il tuo nome era in realtà sei posti più in giù nell'elenco».

«Grazie» disse Sherman. «Lo apprezzo molto.»

Tanooch alzò le spalle. «Preferisco farti uscire di lì camminando, piuttosto che a colpi di scopa.»

La stanza principale adesso era piena di poliziotti e detenuti. Alla scrivania, la scrivania dell'Angelo, Sherman venne dato in consegna a un agente della polizia giudiziaria che lo ammanettò dietro la schiena e lo mise in riga con gli ispanici. Ora i pantaloni gli cadevano inesorabilmente sui fianchi. Impossibile reggerli. Continuava a guardarsi dietro le spalle, temendo che il giovane nero potesse essere subito dietro di lui. Era invece l'ultimo di una breve fila. Gli agenti li condussero a una stretta scala. In cima a questa scala c'era un'altra stanza senza finestre. Altri agenti stavano seduti a certe scrivanie metalliche in cattive condizioni. Oltre le scrivanie… altre celle! Erano più piccole, più grigie, più squallide ancora delle celle in piastrelle bianche di sotto. Erano davvero celle di prigione. Sulla prima c'era un cartello scrostato che diceva: SOLO UOMINI DA VENTUN ANNI IN SU - CAPIENZA DA OTTO A DIECI. Il DA VENTUN ANNI IN SU era stato cancellato con una croce. La fila dei prigionieri fu fatta entrare nella cella. Le manette non vennero tolte. Sherman continuò a tenere gli occhi incollati all'entrata. Se il giovane di colore fosse arrivato e messo nella piccola cella insieme a lui… lui… lui… la paura lo faceva impazzire. Sudava a profusione. Aveva perso la cognizione del tempo. Abbassò la testa per cercare di migliorare la circolazione.

Poi furono fatti uscire dalla cella e condotti verso una porta con le sbarre d'acciaio. Al di là della porta Sherman vide una fila di detenuti seduti sul pavimento di un corridoio. Il corridoio era largo meno di un metro. Uno dei detenuti era un giovanotto bianco con un gesso enorme alla gamba destra. Portava pantaloni corti, per cui tutto il gesso era visibile. Stava seduto sul pavimento. Un paio di stampelle erano appoggiate alla parete, vicino a lui. Alla fine del corridoio c'era una porta. Un poliziotto la sorvegliava. Aveva una grossa pistola sul fianco. A Sherman venne in mente che era la prima arma che vedeva da quando era entrato in quel posto. A ogni prigioniero che lasciava la zona di detenzione e passava dalla porta venivano tolte le manette. Sherman si lasciò andare contro la parete, come gli altri. Nel corridoio non circolava aria. Non c'erano finestre. Un clamore fluorescente riempiva il locale insieme al lezzo di troppi corpi. Il tappo umano! Lo scivolo verso il mattatoio! Dove portava?

La porta alla fine del corridoio si aprì e una voce dall'altra parte disse: «Lantier». L'agente all'interno del corridoio disse: «Okay, Lantier». Il giovanotto con le grucce si dette da fare per alzarsi. L'ispanico che gli era vicino lo aiutò. E quello saltellò sul piede buono finché riuscì ad afferrare le stampelle e a sistemarle sotto le ascelle. Cosa mai aveva potuto combinare in quelle condizioni? Il poliziotto gli aprì la porta, e Sherman sentì una voce dall'altra stanza pronunciare alcuni numeri e poi: «Herbert Lantier? L'avvocato difensore di Herbert Lantier?».

L'aula! Alla fine dello scivolo e della caduta c'era l'aula del giudizio!

Quando arrivò il suo turno, si sentì stordito, malfermo, febbricitante. La voce dall'altra parte disse: «Sherman McCoy». Il poliziotto nella stanza ripeté: «McCoy». Sherman si affannò attraverso la porta, reggendosi i calzoni, facendo scivolare i piedi in modo da non perdere le scarpe. Ebbe la sensazione di trovarsi in una vasta stanza moderna luminosa con molta gente che andava su e giù. Il banco del giudice, i tavoli, i sedili erano tutti in un legno chiaro di poco costo. Da un lato la gente si muoveva a onde attorno al banco sopraelevato in legno chiaro del giudice, e dall'altra si muoveva a onde in quella che pareva la sezione riservata al pubblico. Quanta gente… quanta luce… quanta confusione… quanto movimento… Tra le due sezioni c'era uno sbarramento divisorio, anch'esso in legno chiaro. E lì stava Killian. C'era! Aveva un'aria molto fresca e riposata nei suoi panni ricercati. Sorrideva. Era il sorriso rassicurante che si riserva agli invalidi e ai malati. Mentre gli si avvicinava arrancando, Sherman prese piena coscienza di quale dovesse essere il suo aspetto: la giacca sporca e bagnata come i pantaloni, le noccioline di polistirolo, la camicia piena di grinze, le scarpe bagnate senza lacci. Sentiva il suo stesso lezzo di sporcizia, disperazione e terrore.

Una persona stava leggendo dei numeri, e poi udì il suo nome, quindi senti Killian che ripeteva il suo nome. Il giudice disse: «Come si dichiara?». Killian disse a Sherman, sottovoce: «Di' "non colpevole"». Sherman gracchiò le parole suggerite.

Nell'aula pareva esserci gran movimento. La stampa? Da quant'era lì dentro? Poi scoppiò una discussione. C'era un giovane ben piazzato, stempiato e molto deciso davanti al giudice. Doveva essere uno della Procura distrettuale. Il giudice disse buzz buzz buzz buzz signor Kramer. Signor Kramer.

A Sherman il giudice pareva molto giovane. Era un bianco paffuto con capelli ricciuti un po' radi e una toga che sembrava affittata per la cerimonia di laurea.

Sherman sentì Killian mormorare: «Figlio di puttana».

Kramer stava dicendo: «Mi rendo conto, Vostro Onore, che il nostro ufficio aveva concordato una cauzione di solo diecimila dollari per questo caso. Ma sviluppi successivi, particolari giunti alla nostra attenzione da allora, rendono impossibile al nostro ufficio di accettare una cauzione così bassa. Vostro Onore, questo caso apre una ferita grave, forse fatale, e noi abbiamo conoscenza precisa e specifica che al fatto era presente un teste che non si è presentato e che tale teste era nell'automobile guidata dall'imputato, il signor McCoy, e noi abbiamo ogni ragione di credere che sono stati compiuti o saranno compiuti tentativi per impedire a tale teste di comparire in giudizio, mentre noi non riteniamo che servirà gli interessi della giustizia…».

Killian disse: «Vostro Onore…».

«Permettere che questo imputato vada libero dietro una cauzione simbolica…»

Un brontolio, un ringhio, un immenso mormorio di rabbia si levarono dal settore del pubblico, e una sola voce urlò: «Niente cauzione!». Poi un possente coro: «Niente cauzione!». «Mettetelo dentro!»

«In galera!»

Il giudice batté il martelletto. Il mormorio cessò.

Killian disse: «Vostro Onore, il signor Kramer sa benissimo…». Il brontolio si alzò di nuovo.

Kramer procedette, sulle parole di Killian: «Date le emozioni suscitate in questa comunità, del tutto giustificabili nella fattispecie, dove la giustizia è apparsa…».

Killian al contrattacco, che urlava: «Vostro Onore, questa è una evidente sciocchezza!».

Un brontolio possente.

Il brontolio sfociò in un ruggito. Il mormorio in un gran grido rauco: «Ohhh, uomo!», «BUUUU!» «Ahhhhh!» «Chiudi il tuo sporco becco e fa' parlare quell'uomo!»

Il giudice tornò a battere il martelletto. «Silenzio!» Il ruggito si spense. Poi a Killian: «Lasci finire la dichiarazione. Poi potrà replicare».

«Grazie, Vostro Onore» disse Kramer. «Vostro Onore, vorrei richiamare l'attenzione della Corte sul fatto che questo caso, anche nella fase istruttoria allo stadio iniziale, ha posto in evidenza una forte richiesta di rappresentanza da parte della comunità e, in particolare, degli amici e vicini della vittima di questo caso, Henry Lamb, tuttora in gravi condizioni all'ospedale.»

Kramer si girò e indicò il settore riservato al pubblico. Era pieno zeppo. C'era gente in piedi. Sherman notò un gruppo di neri in tuta da lavoro blu. Uno di loro era molto alto e aveva un orecchino d'oro.

«Ho una petizione» disse Kramer: sollevò alcuni fogli di carta e li agitò sopra la testa. «Il documento è stato firmato da più di cento membri della comunità e consegnato alla Procura distrettuale del Bronx con un appello al nostro ufficio perché li rappresenti, affinché sia fatta giustizia in questo caso, e naturalmente il rappresentarli fa parte del nostro stesso dovere.»

«Gesù Cristo!» mormorò Killian.

«Il vicinato, la comunità, la gente del Bronx, intende sorvegliare e seguire questo caso, con diligenza, a ogni grado del procedimento giudiziale.»

Giusto! Sìììì! Ah-haaaah! Diglielo in faccia! Un tremendo borbottio si levò nella sezione del pubblico.

Il giudice paffuto batté il martelletto e gridò: «Silenzio! Questa è un'udienza, non un comizio. È tutto, signor Kramer?».

Brontolii, brontolii, mormorii, mormorii, buuuuu!

«Vostro Onore» disse Kramer, «sono stato istruito dal mio ufficio dallo stesso signor Weiss, di richiedere una cauzione di duecentocinquantamila dollari per il caso in esame.»

«Giusto! Sìììì! Diglielo in faccia!» Urla di gioia, applausi, gran battere di piedi sul pavimento.

Sherman guardò Killian. Dimmi… dimmi… dimmi che questo non può succedere! Ma Killian era tutto teso verso il giudice. Aveva la mano protesa in aria. Le labbra stavano già muovendosi. Il giudice batté il martelletto.

«Se va avanti così, faccio sgombrare l'aula!»

«Vostro Onore» disse Killian, dopo che il baccano fu cessato «il signor Kramer non si contenta di violare un accordo tra il suo ufficio e il mio cliente. Lui vuole il circo! Stamattina il mio cliente è stato sottoposto a un arresto da circo, malgrado il fatto che egli fosse disposto a testimoniare davanti a una giuria in ogni momento. E ora Kramer fabbrica la minaccia fittizia di un teste anonimo e chiede alla corte di fissare una cauzione assurda. Il mio cliente è residente da sempre in questa città, proprietario di una casa, ha famiglia e radici profonde nella sua comunità, e l'accordo su di una cauzione era stato raggiunto, come perfino Kramer riconosce, e nulla è accaduto per modificare i termini di tale accordo.»

«È cambiato molto, Vostro Onore!» disse Kramer.

«Sìì» disse Killian, «è cambiato l'ufficio della Procura distrettuale del Bronx!»

«D'accordo!» disse il giudice. «Signor Kramer, se il suo ufficio ha informazioni consistenti per aumentare l'entità della cauzione, la invito a dar corpo a tali informazioni e a presentare un'istanza formale a questa Corte; la materia sarà riveduta in quell'occasione. Per il momento, la Corte concede la libertà provvisoria all'imputato, Sherman McCoy, con una cauzione dell'ammontare di diecimila dollari, in attesa del giudizio davanti alla giuria.»

Muggiti e urla! Buuuu! Yeeeehh! Noooooo! Dentro! E poi si alzò una specie di cantilena: «Niente cauzione; sbattetelo in prigione!» «Niente cauzione; sbattetelo in prigione!».

Killian lo stava allontanando dal banco. Per uscire dall'aula dovevano passare attraverso la sezione riservata al pubblico, in mezzo a una massa di gente arrabbiata che adesso era tutta in piedi. Sherman vide pugni levati in aria. Poi vide dei poliziotti che venivano verso di lui: erano almeno una mezza dozzina. Avevano camicie bianche, cinturoni e colossali fondine con il calcio delle pistole in bella vista. Erano proprio agenti di polizia giudiziaria. Lo circondarono. Mi riportano in prigione! Poi si rese conto che stavano formando un cuneo per far sì che attraversasse indenne la folla. Quante facce che lo guardavano di sbieco, bianche e nere. Assassino! Figlio di una troia! Avrai quello che ha avuto Henry Lamb! Recita le tue preghiere, Park Avenue! Ti faremo fuori! Macché McCoy… McMorto, bambino! Avanzava barcollando, in mezzo ai suoi protettori dalla camicia bianca. Li sentiva sbuffare e sforzarsi a respingere la folla. «Fate largo! Fate largo!» Qua e là altri volti emergevano, labbra si aprivano e chiudevano. L'inglese alto dai capelli biondi… Fallow… la stampa… poi ancora urla. Attento, naso a spillo! Attento! Conta tutti i respiri, bambino! Prendiamolo! Scappa, scappa, stronzo! Ma guardatelo… Park Avenue!

Perfino nell'occhio del ciclone Sherman si sentiva stranamente indifferente a quel che stava accadendo. Il pensiero gli diceva che era una cosa tremenda, ma lui non la sentiva così. Dal momento che sono già morto.

Il ciclone dall'aula si abbatté in un atrio pieno di gente. Sherman vide la loro espressione cambiare dalla costernazione alla paura. Si affrettarono ad aprirsi per far posto alla galassia impazzita di corpi appena volati fuori dall'aula. Ora Killian e i poliziotti lo spingevano dentro un ascensore. C'era un orribile murale alla parete. L'ascensore era in discesa. Pressione alle spalle. Cadde in avanti, finendo sulla schiena di un agente sul gradino sotto. Per un attimo parve che una valanga di corpi… ma l'agente si aggrappò alla ringhiera. Ora la galassia urlante sfociò attraverso le porte d'ingresso sulla scalinata che dava sulla Centosessantunesima Strada. Un muro di corpi si parò davanti. Telecamere, almeno sei o sette, microfoni, almeno quindici o venti, gente urlante… la stampa.

Le due masse di umanità s'incontrarono, si mischiarono, si fusero del tutto. Killian si erse davanti a Sherman. I microfoni erano di fronte alla sua bocca, e Killian stava declamando in tono oratorio.

«Voglio che l'intera città di New York veda quel che voi avete appena visto qui dentro. Voglio che voi glielo facciate vedere.» Con un assoluto distacco, curiosamente, Sherman si sorprese a cogliere ogni inflessione dialettale e volgare nella voce del damerino. «Avete visto un arresto da circo, e poi una chiamata in giudizio da circo. Poi avete visto l'ufficio della Procura distrettuale prostituirsi e farsi gioco della legge per le vostre telecamere e per ottenere l'approvazione di una folla partigiana!»

Buuuuu! Yeeeeh! Partigiano sarai tu, bastardo col naso a becco! Da qualche punto alle sue spalle, a poco più di mezzo metro, una voce stava intonando in un falsetto lamentoso: «Recita le tue preghiere, McCoy! Il tuo giorno è venuto! Recita le tue preghiere, McCoy! Il tuo giorno è venuto!».

Killian disse: «Ieri abbiamo concluso un accordo con il procuratore distrettuale…».

La cantilena in falsetto: «Recita le tue preghiere, McCoy. Conta i tuoi respiri».

Sherman alzò gli occhi al cielo. La pioggia era cessata. Il sole stava uscendo di prepotenza. Era una giornata piacevole e tonificante di giugno. Una cupola d'azzurro chiaro stava sopra il Bronx.

Guardava il cielo e ascoltava i suoni, soltanto i suoni, i tropi e gli aforismi magniloquenti, le cantilene in falsetto, le urla inquisitorie, i nitriti soffocati, e pensò: Qui non ci tornerò mai più. Non importa quel che dovrò fare per starne lontano, anche se dovessi ficcarmi un fucile in bocca.

L'unica arma che possedeva era, per la verità, una doppietta. Un vecchio e grosso fucile. Se ne rimase in piedi nella Centosessantunesima Strada, a un isolato dal Grand Concourse, nel Bronx, a chiedersi se sarebbe riuscito a far entrare tutte e due le canne in bocca.