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Gibraltar
Il mattino dopo, a Lawrence Kramer, appare lei, la ragazza dal rossetto marrone, come se uscisse da un'alba grigia e fioca. Gli sta vicino. Lui non riesce a vederne bene la faccia, ma sa che si tratta della ragazza dal rossetto marrone. Non afferra neppure una delle parole che sgorgano come perle minuscole da quelle labbra dal rossetto marrone, eppure sa cosa sta dicendo lei, Resta con me, Larry. Sdraiati con me, Larry. Lo vuole! Oh, come lo vuole! Non c'è niente al mondo che desideri di più. Allora perché non lo fa? Che cosa lo trattiene dal premere le sue labbra sopra quelle labbra dal rossetto marrone? Sua moglie, è evidente! Sua moglie, sua moglie, sua moglie, sua moglie, sua moglie…
Si svegliò al rollare e beccheggiare di sua moglie che, a quattro zampe, si avviava sino ai piedi del letto. Che spettacolo squallido, penoso! Il letto, molto grande, queen-size, che poggiava su una piattaforma di compensato, era largo quasi quanto la stanza, perciò bisognava scendere con cautela a quattro zampe oppure attraversare tutto il materasso per raggiungere il pavimento.
Adesso lei era in piedi, sul pavimento, china sopra una sedia a prendere il suo accappatoio. Da come la camicia da notte di flanella le scendeva lungo i fianchi, si sarebbe detta larga un chilometro. Lui si pentì subito di avere pensieri simili. Fece vibrare la corda del sentimento. Oh, la mia Rhoda! Dopotutto aveva partorito soltanto tre settimane prima. Osservò i lombi che avevano dato alla luce il suo primo figlio. Un maschio! Lei non aveva ancora riacquistalo la linea di un tempo. Bisognava darle atto che era troppo presto.
E tuttavia questo non migliorava per niente la visione.
La guardò mentre si contorceva nell'infilarsi la vestaglia. Si girò verso la porta. Dal soggiorno proveniva una luce. Senza dubbio la bambinaia, che era inglese, Miss Efficienza, era già in piedi e in stato di crescente efficienza. Per effetto della luce riuscì a vedere, di profilo, il viso pallido, gonfio, non truccalo di sua moglie.
Aveva solo ventinove anni e già era uguale alla madre.
Era la stessa persona, che tornava! Era sua madre. Non c'erano alternative! Era solo questione di tempo! Gli stessi capelli rossicci, le stesse lentiggini, lo stesso naso ciccioso e campagnolo, le stesse guance rotonde, perfino un incipiente doppio mento materno. Una yenta in embrione! La piccola Grelel dello shtetl!
Ridusse le palpebre a una fessura, perché lei non potesse capire che era sveglio. Poi lei uscì dalla camera. La sentì dire qualcosa alla bambinaia e al piccolo. Aveva un suo modo particolare di dire "Jo-shu-a" con cadenza infantile. Era un nome di cui lui stava cominciando a pentirsi. Se proprio si vuole un nome ebraico, cosa c'è di sbagliato in Daniel, David o Jonathan? Si rimise le coperte sulle spalle. Intendeva tornare alla sublime narcosi del sonno per altri cinque o dicci minuti. Intendeva tornare alla ragazza dal rossetto marrone. Chiuse gli occhi. Inutile. Non riusciva a riaverla. Riusciva solo a pensare che, se non si fosse alzato subito, avrebbe trovato una folla enorme nella metropolitana.
E così si alzò. Camminò sul materasso. Era come camminare su di una barca a remi rovesciata, ma non intendeva mettersi a quattro zampe. Era così squallido e penoso… Aveva addosso maglietta e short. Si rese conto di essere afflitto da un accadimento comune agli uomini giovani: un'erezione mattutina. Si avviò alla sedia e indossò il vecchio accappatoio scozzese. Sia lui sia la moglie avevano cominciato a portare accappatoi e vestaglie da quando la nurse inglese era entrata nella loro vita. Uno dei molti tragici difetti dell'appartamento consisteva nel fatto che non c'era possibilità di andare dalla stanza da letto al bagno senza attraversare il soggiorno, dove la bambinaia dormiva sul divano-letto e il bimbo in una culla sotto una scatola musicale mobile da cui pendevano minuscoli pagliacci imbottiti. La sentì in azione. La scatola suonava il ritornello di Send in the Clowns. E lo ripeteva di continuo. Plink plink plinkplink, plink plink plinkplink, PUNK plink plinkplink.
Abbassò lo sguardo. L'accappatoio non svolgeva appieno la sua funzione. Era come se sotto ci fosse un palo da tenda. Ma, se stava un po' chino, non si notava. Perciò poteva o attraversare il soggiorno impettito e far vedere alla bambinaia il palo da tenda, o camminare ingobbito come se avesse un dolore alla schiena. E così se ne rimase dov'era, in quello squallore.
Squallore era il termine esatto. La presenza della bambinaia aveva reso lui e Rhoda pesantemente coscienti della fogna in cui vivevano. L'intero appartamento, definito un tre locali e mezzo nel gergo immobiliare di New York, era ricavato da quella che un tempo era stata una gradevole ma niente affatto smisurata camera da letto al terzo piano di un palazzotto, con tre finestre sulla strada. La stanza - se così la si poteva definire - in cui lui si trovava in quel momento era soltanto un buco ottenuto inserendo una parete a pannelli. Il buco era dotato di una finestra. Il resto di quella che era stata la stanza originale ora veniva chiamato soggiorno e aveva le altre due finestre. Sul retro, vicino alla porta d'uscita, c'erano altri due buchi, uno usato come cucina in cui due persone non potevano entrare affiancate, e l'altro come bagno. Non c'erano finestre in nessuno dei due buchi. L'appartamento era simile a uno dei tanti piccoli formicai: si poteva anche comprare, ma a loro costava 888 dollari al mese, ad affitto semibloccato. Se non fosse stato per la legge che calmierava certe locazioni, probabilmente sarebbe costato millecinquecento dollari e sarebbe quindi stato fuori portata. Avevano avuto una bella fortuna a trovarlo! C'erano laureati della sua età, sui trentadue anni, Dio santo, in tutta New York che morivano dalla voglia di trovare un appartamento come quello, un tre locali e mezzo, con una buona vista, in un vecchio palazzotto dignitoso, soffitti alti, affitto semibloccato, nella zona intorno alla Settantesima Ovest! Davvero patetico, no? Loro ce la facevano a malapena lavorando tutti e due con stipendi che insieme arrivavano a cinquantaseimila dollari l'anno, quarantunomila dopo le detrazioni. Si era concordato che la madre di lei avrebbe fornito il denaro, più o meno un regalo per la nascita del bambino, necessario a pagare una bambinaia di professione per quattro settimane, finché Rhoda fosse stata in grado di rimettersi in piedi e tornare al lavoro. Intanto avrebbero trovato una ragazza au pair che abitasse con loro e si occupasse del bimbo. La madre di Rhoda aveva rispettato la sua parte dell'accordo, ma era ormai evidente che la ragazza au pair disposta a dormire su un divano convertibile nel soggiorno di un formicaio del West Side non esisteva. A Rhoda sarebbe stato impossibile tornare al lavoro. Dovevano tirare avanti con i suoi venticinquemila dollari al netto delle tasse; l'affitto annuale lì, in quella fogna, anche con l'aiuto del semiblocco, era di 10.656 dollari.
Be', perlomeno, queste amare considerazioni avevano riportato l'accappatoio a un aspetto decente. Emerse dalla camera da letto.
«Buongiorno, Glenda» disse.
«Oh, buongiorno, signor Kramer» disse la bambinaia.
Una voce molto fredda e britannica, la sua. Kramer era convinto d'infischiarsene assolutamente degli accenti britannici, o anche dei britannici come tali. In realtà lo intimidivano, i britannici e i loro accenti. Nell'oh della donna, un semplice oh, avvertì un condensato di "Si alza finalmente, eh?".
Massiccia, sulla cinquantina, la donna era già all'opera nella sua uniforme bianca. Aveva i capelli raccolti in una crocchia perfetta. Il letto provvisorio era già sparito e, sistemati i cuscini, il divano aveva assunto di nuovo la sua funzione diurna, da pezzo di mobilio anonimo ricoperto da un panno giallo sporco di materiale sintetico. Lei stava seduta sul bordo di quella cosa, la schiena perfettamente dritta, e beveva una tazza di tè. Il bambino era sdraiato supino nella culla, perfettamente a suo agio. Perfettamente doveva essere il secondo nome della donna. L'avevano trovata tramite l'Agenzia Gough: segnalata su un articolo del «Times», rubrica Casa, una delle migliori e più di moda. E così pagavano il prezzo molto di moda di cinquecentoventicinque dollari la settimana per una bambinaia inglese. Ogni tanto lei nominava altri posti dove aveva lavorato. Si trattava sempre di Park Avenue, Quinta Avenue, Sutton Place. Be', peggio per te! Adesso puoi bearti della vista in un alloggio messo su in qualche modo in una casa senza ascensore del West Side! Loro la chiamavano Glenda. Lei li chiamava signore e signora Kramer, invece che Larry e Rhoda. Era tutto sottosopra. Glenda era il ritratto della nobiltà, mentre prendeva il suo tè, mentre il signor Kramer, signore del formicaio, si affannava verso il bagno a piedi nudi, a gambe nude, scarruffato, con un accappatoio scozzese logoro addosso. In un angolo, sotto una Dracaena fragrans estremamente impolverata, il televisore era acceso. Uno spot commerciale stava finendo e subito alcune facce sorridenti presero a parlare nel "Today Show". Ma non c'era l'audio. La donna non poteva essere tanto poco perfetta da tenere la tivù a tutto volume. Cosa diavolo stava davvero pensando tra sé e sé, quell'arbitro britannico seduto in giudizio (su un raccapricciante sofàletto) a proposito dello squallore di chez Kramer?
In quanto alla padrona di casa, la signora Kramer, ecco che stava emergendo dal bagno, sempre in accappatoio e pantofole.
«Larry» disse, «guarda la mia fronte. C'è qualcosa qui, come una bolla. L'ho vista nello specchio.»
Ancora intontito, Kramer cercò di guardarle la fronte.
«Non è niente, Rhoda. È un foruncolo che sta uscendo, direi.»
C'era qualcos'altro. Da quando era arrivata la bambinaia, Kramer si era accorto che la moglie parlava con un pesante accento newyorchese. Prima non ci aveva quasi mai fatto caso. Si era laureata alla New York University. Da quattro anni era redattrice alla Waverly Place Books. Era un'intellettuale, quanto meno diceva di leggere un sacco di poesie di John Ashbery e Gary Snyder ai tempi del loro incontro, e aveva da dire un sacco di cose sul Sudafrica e il Nicaragua. Eppure la sua pronuncia era molto discutibile.
Come quella della madre, del resto.
Rhoda gli scivolò silenziosamente di fianco e Kramer entrò nel buco detto stanza da bagno. Il bagno si presentava simile a quello di una casa popolare. Biancheria appesa all'anello che sosteneva la tenda della doccia. Altra biancheria appesa a un filo che correva diagonalmente per tutta la stanza: una tutina con lampo, due bavaglini, qualche slip, parecchie mutande, e Dio sa quant'altro ancora, ma niente appartenente alla bambinaia, ovviamente. A Kramer toccò curvarsi per arrivare alla tazza. Un paio di mutandine bagnate gli sfiorarono l'orecchio. Disgustoso. Sopra il sedile del water c'era un asciugamano bagnato. Si guardò attorno alla ricerca di un posto dove appenderlo. Non c'era. Lo gettò sul pavimento.
Dopo aver urinato, si spostò di una trentina di centimetri fino al lavandino, si tolse accappatoio e maglietta e li posò sul sedile del water. A Kramer non spiaceva contemplarsi faccia e corporatura la mattina. Con un viso largo e piatto, un naso corto e schiacciato, il collo grosso, be'… nessuno lo aveva mai preso per ebreo, a prima vista. Avrebbe potuto essere greco, slavo, italiano, perfino irlandese… in ogni caso, un tipo abbastanza duro. Non che gli facesse molto piacere perdere i capelli, soprattutto sulla nuca, ma in un certo senso anche questo particolare contribuiva a dargli l'aspetto di un duro. Insomma, stava diventando calvo come molti giocatori professionisti di football. E la corporatura, il fisico… Ma quella mattina si scoraggiò. Quei possenti deltoidi, quei trapezoidi flessi e compatti, quei pettorali strettamente raggruppati, quella carne soda, i bicipiti… parevano sgonfi. Si stava atrofizzando, maledizione! Non aveva potuto fare esercizio fisico da quando erano arrivati bambino e bambinaia. Teneva i suoi pesi in una scatola vicino al vaso della Dracaena, e si allenava nello spazio libero tra la pianta e il divanoletto. Francamente, ora, non c'era più alcuna possibilità di esercitarsi, gemere, grugnire, fare sforzi violenti, ossigenarsi e dare occhiate d'apprezzamento nello specchio, davanti alla bambinaia inglese… o alla mitica ragazza au pair del futuro… Siamo sinceri! È tempo di rinunciare ai sogni infantili! Ora tu sei un padre di famiglia che lavora. Nient'altro.
Uscito dal bagno, trovò Rhoda seduta sul sofà accanto alla bambinaia inglese: tutt'e due avevano gli occhi incollati alla tivù, e questa volta il volume era alto. Era in onda il notiziario del "Today Show".
Rhoda sollevò lo sguardo e disse in tono concitato: «Guarda, Larry! È il sindaco! Ieri sera ci sono stati disordini a Harlem! Un tale gli ha tirato una bottiglia!».
Sullo schermo si svolgevano fatti stupefacenti. Un palcoscenico… una mischia feroce… caos… gente esagitata… poi una mano enorme riempì lo schermo e cancellò tutto quanto per un attimo. Ancora urla, smorfie e confusione, e poi il caos. A Kramer, Rhoda e bambinaia parve quasi che i rivoltosi si lanciassero attraverso lo schermo e planassero sul pavimento proprio vicino alla culla del piccolo Joshua. E questo era il "Today", non il notiziario locale. Quello che tutta l'America riceveva per colazione quel giorno, una visione stordente della gente di Harlem che si sollevava in una giusta ira e cacciava dal palcoscenico il sindaco bianco in una sala pubblica. Ecco adesso la sua nuca che passa in fretta sullo schermo alla ricerca di un riparo. Un tempo quell'uomo era il sindaco della città di New York. Adesso era il sindaco della New York bianca.
Alla fine del notiziario, i tre si guardarono in faccia, e Glenda, la bambinaia inglese, parlò, molto agitata.
«Be', mi sembra davvero disgustoso. La gente di colore ignora tutti i vantaggi che ha avuto in questo paese. Ve lo assicuro. In Inghilterra non ci sono molti uomini di colore in uniforme di poliziotto, e molti meno diventano importanti funzionari dello stato, come qui. Insomma, ho letto un articolo l'altro giorno. Ci sono più di duecento sindaci di colore in questo paese. E quelli lì maltrattano il sindaco di New York. Certa gente non sa quanto sta bene, ve lo dico io.»
Scosse la testa con rabbia.
Kramer e sua moglie si guardarono. Lui era certo che Rhoda stesse pensando la stessa cosa.
Grazie a Dio! Che sollievo! Ora potevano respirare liberamente. Miss Efficienza era faziosa, intollerante. Di questi tempi la faziosità era assai disprezzata. Era segno di un'origine modesta, di casa popolare, di classe sociale inferiore, o dì cattivo gusto. Perciò essi erano superiori alla loro bambinaia inglese, dopotutto. Che grandissimo sollievo!
Era appena finito di piovere quando Kramer si avviò verso la metropolitana. Indossava un vecchio impermeabile sopra il solito abito grigio, con camicia e cravatta. Aveva un paio di scarpe da corsa Nike, con strisce sui lati. Le scarpe di cuoio marrone le portava in una borsa di plastica da supermercato.
La fermata della sotterranea in coincidenza con il treno D per il Bronx era tra l'Ottantaduesima e Central Park West. Gli piaceva attraversare il Central Park West dalla Settantasettesima fino all'Ottantunesima, poiché così poteva sfilare davanti al Museo di Storia Naturale. Era un isolato molto bello, il migliore del West Side, secondo Kramer, molto vicino a uno spaccato di strada parigina, anche se non era mai stato a Parigi, per la verità. In quel punto la Settantasettesima Strada era molto larga. Il museo stava da un lato, splendido esempio di neoromanico in vecchia pietra rossa, un po' arretrato rispetto al fronte stradale, tra gli alberi di un piccolo parco. Anche in un giorno nuvoloso come quello le fresche foglie verdi primaverili parevano brillare. Verdeggianti era la parola che gli lampeggiò nel cervello. Dall'altra parte della strada, dove camminava lui, si ergeva una barriera di palazzi residenziali con portieri gallonati, sovrastante il museo. Colse con lo sguardo atri marmorei. E poi pensò alla ragazza dal rossetto marrone. Ora la vedeva distintamente, molto meglio che nel sogno. Strinse il pugno. Maledizione! Lo avrebbe fatto, sì! Le avrebbe telefonato! Sicuro! Avrebbe aspettato la fine del processo, chiaro. Ma lo avrebbe fatto.
Era stufo di guardare altra gente vivere… la Vita. La ragazza dal rossetto marrone! Loro due, che si guardavano negli occhi al tavolo di uno di quei ristoranti con rivestimenti di legno e mattoni rossi, piante ornamentali, ottone alle pareti, incisioni su vetro e menu con aragoste Natchez, vitello e banane fritte, pane di granturco al pepe di Cajenna!
Kramer era immerso in quella straordinaria visione quando proprio davanti a lui, dall'elegante portone del numero 44 della Settantasettesima Ovest, emerse una figura che lo fece sobbalzare.
Era un uomo giovane, all'apparenza quasi infantile, con una faccia rotonda e capelli scuri, pettinati accuratamente all'indietro. Indossava un soprabito leggero Chesterfield con bavero di velluto nocciola e portava una borsa di cuoio di Madler o T. Anthony di Park Avenue, straordinariamente liscia e levigata che urlava: "Io costo cinquecento dollari". Si intravedeva una porzione del braccio gallonato che gli teneva aperta la porta. Camminava a passettini rapidi e rigidi sotto la tenda, sul marciapiede, fino a una berlina Audi. Davanti c'era un autista. Sul finestrino posteriore un numero - 271-, quindi si trattava di un'auto a nolo. E ora il portiere corse fuori e il giovanotto si fermò perché l'altro potesse arrivare prima di lui ad aprirgli la porta posteriore della berlina.
Quel giovane era Andy Heller! Nessuna possibilità di errore. Era stato con Kramer, nello stesso corso, alla Columbia Law School. Kramer si era sentito immensamente superiore allora, quando Andy, il piccolo Andyvivace e paffuto, aveva fatto la solita cosa, e cioè era andato a lavorare in centro, da Angstrom & Molner. Andy e altri cento come lui avrebbero sprecalo i cinque o dieci anni a venire curvi sulla scrivania a controllare virgole e terminologia, citazioni e ingiunzioni, per comporre e sorreggere l'avidità dei creditori ipotecari, dei fabbricanti di prodotti di bellezza, degli arbitri di fusioni e acquisizioni, dei riassicuratoli eccetera… mentre lui, Kramer, sarebbe entrato nel cuore della vita autentica, avrebbe abbracciato la causa dei miserabili e dei dannati della terra e, ergendosi nelle aule dei tribunali, avrebbe lottato per loro, davanti alle massime autorità forensi.
E, per la verità, era successo proprio così. Perché, dunque, Kramer adesso si tirava indietro? Perché non avanzava fieramente e non se ne usciva a gran voce con un "Salve, Andy"? In fondo era a pochi metri dal suo vecchio compagno di corso. Invece si fermò, girò la testa verso la facciata del palazzo e si mise una mano sul viso, come se gli fosse entrato qualcosa nell'occhio. Non se la sentiva assolutamente di parlare con Andy Heller - mentre il portiere gli teneva aperta la portiera e l'autista attendeva solo un suo segno per partire -, non se la sentiva assolutamente di affrontare Andy Heller che lo guardava in faccia e gli diceva: Larry Kramer, come te la passi?». E lui avrebbe dovuto dirgli: «Be', sono sostituto procuratore distrettuale nel Bronx». Non avrebbe nemmeno dovuto aggiungere: «Guadagno trentaseimila dollari l'anno». Questo lo sapevano tutti. In ogni caso, Andy Heller avrebbe scrutato attentamente il suo impermeabile sporco, il vecchio abito grigio dai pantaloni troppo corti, le scarpe Nike, la borsa di plastica… Col cavolo! Kramer rimase fermo con la testa girata, fingendo di avere un granello di polvere in un occhio, finché non sentì sbattere la portiera dell'Audi. Il suono era quello di una cassaforte che si chiude. Si girò proprio in tempo per prendere in faccia una vaporosa nuvoletta di gas di scarico della lussuosa macchina tedesca, mentre Andy Heller salpava verso l'ufficio. Kramer si rifiutò perfino di pensare al probabile aspetto di quel posto maledetto.
In metropolitana, nel treno D, diretto al Bronx, Kramer restò in piedi nel passaggio, aggrappato a un palo di acciaio inossidabile mentre la vettura sobbalzava, sbandava e strideva. Sul sedile di plastica di fronte a lui stava seduto un vecchio ossuto che pareva emergere come un fungo da uno sfondo di graffiti. Stava leggendo un giornale. Il titolo a caratteri cubitali diceva LA FOLLA INSEGUE IL SINDACO A HARLEM. Le parole erano così grandi da occupare quasi tutta la pagina. In alto, a lettere più piccole, si diceva: "Torna in Centro!". Il vecchio aveva un paio di scarpe da ginnastica a strisce rosse e bianche. Facevano una strana impressione su di un uomo così vecchio, ma in realtà nulla era davvero strano, almeno sul treno D. Kramer scrutò il pavimento. Metà dei passeggeri portava scarpe di quel tipo, sporche di fango e terriccio, che parevano salsiere. Le portavano i ragazzi, le portavano i vecchi, le portavano madri con i figli in grembo e, quanto a questo, le portavano anche i figli. Ma non per le stesse ragioni di Forma Fìsica & Chic, per cui si vedevano in centro un sacco di giovanotti bianchi e ben vestiti che le avevano ai piedi andando al lavoro la mattina. Oh, no: sul treno D la ragione stava nel fatto che costavano poco. Sul treno D quelle scarpe erano come un piccolo cartello appeso al collo con la scritta GHETTO DI EL BARRIO.
Kramer non volle ammetterlo tra sé perché anche lui le portava. Lasciò scivolare qua e là lo sguardo. Non c'era molta gente che leggeva i giornali popolari con i titoloni sui disordini, ma il treno D diretto al Bronx non era un convoglio di gente che legge. No. Qualsiasi cosa accadesse a Harlem non faceva alcun effetto nel Bronx. Tutti quelli che erano nella vettura guardavano al mondo con il solito sguardo assente, evitando i contatti.
Proprio in quell'attimo si verificò una di quelle cadute di rumore, uno di quei buchi nel fragore che si hanno quando si apre una portiera di comunicazione tra le vetture di un convoglio sotterraneo. Entrarono tre ragazzi, neri, sui quindici o sedici anni, con grandi scarpe da tennis e stringhe enormi non ben allacciate, ma disposte in volute parallele, con cura, e giacconi seri. Kramer si raddrizzò e decise di assumere un'aria dura e annoiata. Tese i suoi muscoli sternocleidomastoidei per gonfiare il collo come quello di un lottatore; uno alla volta, poteva farli fuori tutti e tre. Ma non succedeva mai così: uno alla volta… Vedeva ragazzi di quel tipo ogni giorno, in tribunale. I tre procedevano lungo il passaggio. Camminavano caracollando con l'andatura nota come il Rollio del Pappone. Anche il Rollio del Pappone lo vedeva tutti i giorni in tribunale.
Nei giorni caldi, nel Bronx, c'erano innumerevoli ragazzi che si aggiravano con il Rollio del Pappone, strade intere ne parevano invase. Si avvicinarono con l'immutabile sguardo freddo e vuoto. Be', cosa potrebbero fare, in fondo? Lo superarono su entrambi i fianchi: non avvenne niente. Be', naturalmente… Un toro, un tipo tosto come lui: l'ultima persona al mondo con cui attaccare briga! Lui, comunque, era sempre felice, quando il treno si fermava alla stazione della Centosessantunesima Strada.
Kramer salì le scale e uscì sulla Centosessantunesima Strada. Il cielo si stava schiarendo. Proprio di fronte, si ergeva la grande boccia dello Yankee Stadium. Oltre lo stadio, stavano gli spettrali palazzoni del Bronx in via di disfacimento. Dieci o quindici anni prima lo stadio era stato rinnovato. Ci si erano spesi cento milioni di dollari. Si era ipotizzato che ciò avrebbe condotto a "rivitalizzare il cuore del Bronx". Uno scherzo di pessimo gusto! Da allora, quel distretto di polizia, il Quarantaquattresimo, proprio in quelle strade, era diventato il peggiore del Bronx per la criminalità. Anche questo notava Kramer, tutti i giorni.
Cominciò a risalire la Centosessantunesima verso la collina, sempre portando ai piedi le scarpe da ginnastica e tenendo in mano la borsa di plastica con le altre. La gente di quelle tristi strade stava davanti ai negozi e alle rivendite di cibi cotti.
Alzò lo sguardo e, per un istante, poté vedere il vecchio Bronx in tutto il suo splendore. In cima alla collina, dove la Centosessantunesima Strada incrociava il Grand Concourse, il sole aveva squarciato le nuvole e illuminato la facciata in calcare del Concourse Plaza Hotel. Da quella distanza poteva ancora passare per un albergo stile anni Venti di una città di villeggiatura in Europa. I giocatori degli Yankees un tempo ci abitavano durante la stagione, almeno quelli che potevano, le stelle. Se li immaginava sempre in vaste suite. Joe DiMaggio, Babe Ruth, Lou Gehrig: i soli nomi che ricordava, suo padre ne parlava tanto. Oh, colline dorate d'un tempo! Lassù in cima, tra la Centosessantunesima Strada e il Grand Concourse, il sogno ebraico aveva raggiunto il culmine della nuova Canaan, del nuovo comune ebraico di New York: il Bronx! Il padre di Kramer era cresciuto a diciannove isolati di distanza, nella Centosettantottesima Strada, e il suo grande sogno era stato quello di possedere un appartamento, un giorno o l'altro, in uno dei grandi palazzi in cima, sul Grand Concourse. Il Grand Concourse era stato creato come una specie di Park Avenue del Bronx, ma la nuova terra di Canaan era sicura di poter fare meglio. Il Concourse era più largo di Park Avenue e fornito di uno scenario naturale più rigoglioso: e qui saltava fuori un altro scherzo di pessimo gusto. Vuoi un appartamento sul Concourse? Oggi te lo puoi permettere. Il Grand Hotel del sogno ebraico, oggi, è un ostello dell'assistenza sociale e il Bronx, la Terra Promessa, è per il settanta per cento nero e portoricano.
Oh, il povero e triste Bronx ebraico! A ventidue anni, quando stava cominciando la scuola di specializzazione in giurisprudenza, Kramer aveva cominciato a pensare a suo padre come al piccolo ebreo che nel corso della sua vita aveva, alla fine, compiuto la grande migrazione della Diaspora dal Bronx a Oceanside, Long Island, lontana trenta chilometri, e che continuava a fare il pendolare ogni giorno tra la sua abitazione e un deposito di scatole di cartone a Manhattan, dov'era "controllore". Lui, Kramer, sarebbe diventato l'avvocato, il cosmopolita… E ora, dieci anni più tardi, che cos'era avvenuto? Lui abitava in un formicaio e la casetta stile coloniale, con tre stanze da letto, del padre a Oceanside gli pareva San Simeon; lui prendeva il treno D - il treno D! - per andare a lavorare tutti i giorni nel… nel Bronx!
Proprio davanti agli occhi di Kramer il sole cominciava a illuminare il palazzo in cima alla collina, il palazzo in cui lavorava, il palazzo della contea del Bronx. Era una specie di prodigioso Partenone, costruito nei primi anni Trenta in stile civico moderno. Era alto nove piani e si estendeva per tre isolati dalla Centosessantunesima alla Centocinquantottesima Strada. Quale straordinario ottimismo doveva aver animato chiunque avesse pensato e sognato di erigere quell'edificio, a quei tempi!
Malgrado tutto, il tribunale gli toccava l'anima. Le quattro grandi facciate erano un'assoluta esaltazione della scultura e del bassorilievo. A ogni angolo c'erano gruppi di figure classiche. L'Agricoltura, il Commercio, l'Industria, la Religione; e le Arti, la Giustizia, il Governo, la Legge e l'Ordine, e ancora i Diritti dell'Uomo: nobili romani con indosso la toga, nel Bronx! Il sogno dorato di un futuro apollineo, armonioso!
Oggi, se uno di quegli attraenti signori dei tempi classici scendesse per caso da lassù, non sopravviverebbe abbastanza a lungo per bersi una cioccolata calda. Lo farebbero fuori solo per arraffargli la toga. Non era uno scherzo il Quarantaquattresimo Distretto. Sul lato della Centocinquantottesima Strada, il tribunale dava sul Franz Sigel Park, che da una finestra del sesto piano era un bello spaccato di paesaggio all'inglese, un'incantevole visione di alberi, cespugli, erba e rocce affioranti, che si estendeva sul lato meridionale della collina. Nessuno, in pratica, tranne lui, conosceva il nome del Franz Sigel Park ormai, poiché nessuno, con un briciolo di senno, si sarebbe inoltrato nel parco fino ad arrivare alla targa su cui era inciso quel nome. Soltanto la settimana prima, un poveraccio era stato pugnalato a morte alle dieci del mattino sopra una di quelle panchine di cemento messe nel parco nel 1971, durante la campagna per "fornire di arredi urbani il Franz Sigel Park, per ridargli vita e restituirlo alla comunità". La panchina era a tre metri dall'ingresso del parco. Qualcuno aveva ucciso l'uomo per la sua radio portatile, una di quelle grandi, note alla Procura distrettuale come le valigette diplomatiche del Bronx. Nessun funzionario o impiegato della Procura se ne andava a far colazione nel parco in un giorno di sole, in maggio, neppure uno in grado di piazzare cento chili di muscoli su di una panchina. Nemmeno un agente giudiziario, che portava un'uniforme e una calibro 38, legittimamente, si azzardava a commettere una simile imprudenza. Rimanevano nel palazzo, l'isola-fortezza del potere, degli uomini bianchi come lui: in questa Gibilterra del misero Mar dei Sargassi, nel Bronx.
In Walton Avenue, la strada che stava per attraversare, c'erano uno dietro l'altro tre cellulari color arancione e blu in attesa di entrare nel cortile del palazzo. I furgoni recavano prigionieri dalle case circondariali del Bronx e di Rikers Island, e dalla Corte criminale del Bronx, un isolato più in là, destinati a comparire davanti alla Suprema corte di contea, il tribunale che trattava reati gravi. Le aule giudiziarie erano ai piani superiori, e i prigionieri venivano portati all'interno, e poi trasportati con gli ascensori nelle celle sui piani delle aule.
Non si poteva vedere dentro i furgoni, poiché i finestrini erano bloccati da grate metalliche fittissime. Kramer, però, non aveva bisogno di guardare. Nei furgoni c'era certamente la solita massa di neri e portoricani, oltre a qualche italiano della zona di Arthur Avenue e, raramente, un giovane irlandese di Woodlayyvn, o magari un barbone che aveva avuto la sfortuna di scegliere il Bronx per mettersi nei guai.
"Il cibo" disse Kramer a se stesso. Se qualcuno lo avesse osservato, avrebbe visto che le sue labbra si muovevano.
Di lì a quarantacinque secondi circa avrebbe appreso che qualcuno in effetti lo stava guardando. Ma per il momento tutto era come al solito: i cellulari blu e arancione, e lui che mormorava: «Il nostro pane quotidiano».
Kramer era giunto al punto nella vita di un sostituto procuratore distrettuale del Bronx in cui si viene assaliti dal Dubbio. Ogni anno quarantamila persone, quarantamila inetti, imbecilli, ubriaconi, psicopatici, vagabondi, poveri diavoli usciti improvvisamente dai gangheri, e gente classificabile soltanto come totalmente malvagia, venivano arrestati nel Bronx. Settemila di questi venivano rinviati a giudizio e quindi entravano nelle fauci del sistema giudiziario penale - proprio qui - attraverso i cancelli di Gibraltar, dove sostavano in fila i cellulari. Il che significava centocinquanta nuovi casi, centocinquanta nuovi batticuori e sguardi torvi ogni settimana, quando si aprivano tribunali e uffici della Procura. E a che fine? Gli stessi stupidi, deprimenti, patetici, orrendi delitti commessi ogni giorno o quasi: sempre gli stessi. Qual era il risultato dell'incessante lavoro di ognuno, di tutti i sostituti procuratori? Il Bronx continuava a sgretolarsi un po' alla volta, e sempre più si verificavano fatti di sangue. Il Dubbio! Un risultato, comunque, era assicurato. Il sistema riceveva la sua giusta mercé, e i cellulari portavano il nutrimento. Cinquanta giudici, trentacinque cancellieri, dueccntoquarantacinque sostituti procuratori distrettuali, un procuratore distrettuale: il solo pensiero fece arricciare le labbra di Kramer in un sorrisetto, poiché senza dubbio Weiss in quel momento era lassù al sesto piano a strillare con Canale 4 o 7 o 2 o 5 per la mancata presenza televisiva di ieri, e che esigeva oggi… e Dio solo sapeva quanti avvocati penalisti, difensori d'ufficio, cronisti giudiziari, agenti di scorta, agenti addetti alla libertà provvisoria, assistenti sociali, addetti alle cauzioni, investigatori speciali, periti, psichiatri… accidenti, quanta gente da nutrire! E ogni mattino arrivava il cibo, il cibo e il Dubbio.
Kramer aveva appena messo piede sulla strada che una grande Pontiac Bonneville bianca si avvicinò beccheggiando; un'autentica nave, con straordinarie sporgenze davanti e dietro, il tipo di fregata lunga sei metri che avevano smesso di costruire intorno al 1980. Si andò a fermare sull'angolo lontano con stridori di gomme, e quasi in picchiata. La portiera della Bonneville, una gigantesca distesa di lamiera metallica stampata, larga più di un metro e mezzo, si aprì con un rumore preoccupante, e un giudice, Myron Kovitsky, ne uscì a fatica. Era sulla sessantina, piccolo, magro, rigido, calvo, naso pronunciato, occhi infossati e una smorfia fissa sulla bocca. Attraverso il finestrino posteriore della Bonneville Kramer vide una persona scivolare al posto di guida lasciato libero dal giudice. Doveva essere la moglie.
Il rumore causato dall'apertura dell'enorme portiera della vecchia automobile, e la vista della piccola sagoma che ne usciva, erano deprimenti. Il giudice, Mike Kovitsky, veniva al lavoro in un barcone vecchio di almeno dieci anni. Come giudice della Corte suprema, guadagnava 65.100 dollari l'anno. Kramer sapeva a memoria le cifre. Dedotte le tasse, gli restavano forse 45.000 dollari. Per un uomo di sessant'anni al vertice, o quasi, della carriera giudiziaria… be', era patetico. In centro, nel mondo di Andy Heller, pagavano più o meno quello stipendio ai giovani appena usciti dalle università. E quest'uomo, con una macchina che pareva disintegrarsi ogni volta che se ne apriva la portiera, era al vertice della gerarchia dell'isola-fortezza. Lui, Kramer, occupava una posizione intermedia non ben definita. Se avesse giocato bene le sue carte e fosse riuscito a ingraziarsi le organizzazioni democratiche del Bronx, questo… vertice era il massimo a cui avrebbe potuto aspirare di lì a trent'anni.
Kramer era ancora in mezzo alla strada quando la faccenda ebbe inizio:
«Ehi, tu! Kramer!»
Un vocione tonante. Kramer non riuscì a capire da che parte venisse.
«Ehi, pompinaro!»
Eeeh? Si fermò di colpo. Una sensazione, un rumore, come uno sbuffo di vapore, gli riempì la testa.
«Ehi, Kramer, pezzo di merda!»
La voce era diversa. Veniva… accidenti! Da dove venivano quelle voci? «Ehi! Figlio di puttana!»
Le voci venivano dal furgone, il cellulare blu e arancione, quello più vicino, a una decina di metri. Non li vedeva. Non riusciva a riconoscerli attraverso la grata dei finestrini.
«Ehi, Kramer! Culo di Hymie!»
Hymie! Come facevano a sapere che lui era ebreo? Non ne aveva l'aspetto! Kramer non era un… perché quelli… Era sconvolto!
«Kramer! Finocchio! Baciami il culo!»
«Eeeeehiiiii, fiiiiglio! Fiiiccaaaatel inn cuulo! Fiiccateeel in cuuulo!»
Una voce latina, portoricana: la pronuncia ignobile fece entrare un altro po' il coltello nel petto.
«Ehi! Faccia di merda!»
«Eeeeeehi! Baaciam il cuuulo! Baciam il cuuulo!»
«Ehi, tu! Kramer! Poooorco!»
«Eeeeehiiii, fiiiigliiiio! Foottuuto! Foottuuto!»
Era un coro! Una pioggia fitta di porcherie! Un Rigoletto delle fogne, dalle budella maleodoranti del Bronx!
Kramer stava ancora in mezzo alla strada. Che fare? Fissò il cellulare. Non si decideva. Quali? Quali tra quelli… nell'infinita teoria di neri e latini minacciosi… Ma no! Non guardare! Distolse lo sguardo. Chi lo stava osservando? Che fare? Tollerare un trattamento simile e riprendere a camminare verso l'entrata di Walton Avenue, mentre quelli gli rovesciavano addosso altra spazzatura, o affrontarli a viso aperto? Ma come? Come? No! Meglio fingere che non stessero insultando lui. Chi poteva capire la differenza? Meglio camminare per la Centosessantunesima Strada e svoltare poi per raggiungere l'entrata principale! Nessuno doveva sapere che era lui l'oggetto degli insulti! Studiò il marciapiede vicino all'entrata di Walton Avenue, vicino ai cellulari. Soltanto i soliti cittadini tristi, anch'essi fermi, bloccati quasi. Guardavano in direzione del cellulare. La guardia! L'uomo di guardia all'entrata di Walton Avenue lo conosceva! L'uomo di guardia avrebbe capito che tentava di battersela, svicolando! Ma la guardia non c'era. Probabilmente si era infilata nel portone per evitare a sua volta di dover magari intervenire. Poi Kramer vide Kovitsky. Il giudice era a pochi metri dall'entrata. Era fermo, e fissava il cellulare. Poi guardò in faccia Kramer. Merda! Mi conosce! Lui sa che stanno urlando contro di me! Quella piccola sagoma, appena emersa dalla sua scassatissima Bonneville, stava tra Kramer e la sua possibilità d'una ordinata ritirata.
«Ehi! Kramer! Faccia di culo!»
«Ehi! Verme schifoso e pelato!»
«Eeeeeehiiii! Infilaaaaatell in cuulooo! Infilaaaatell in cuulooo! Peeelalo!»
Pelato? Perché? Lui non era calvo. Sì, perdeva qualche capello, brutti bastardi, ma da lì a essere calvo ce n'era di strada! Un momento! Lui non c'entrava: avevano individuato il giudice, Kovitsky. Ora avevano due bersagli.
«Ehi, tu! Kramer! Cosa ci hai nella borsa, piccolo?»
«Ehi, vecchio scoreggione pelato!»
«Vecchio pelato di merda!»
«Ci hai le palle nella borsa, Kramer?»
Erano nella stessa barca tutti e due, lui e Kovitsky. Ora gli era impedita la fuga fino all'entrata della Centosessantunesima. E così riprese ad attraversare la strada. Gli pareva di muoversi sott'acqua. Lanciò un'occhiata a Kovitsky. Questi non lo stava più guardando. Camminava a capo chino verso il cellulare. Era furibondo. Lo si poteva vedere dal luccichio nel bianco degli occhi. Le pupille erano incendiate da due raggi di morte che filtravano sotto le sopracciglia. Kramer l'aveva visto così in tribunale: testa bassa e occhi fiammeggianti.
Le voci all'interno del furgone tentarono di respingerlo.
«Cosa guardi, vecchio uccellaccio raggrinzito?»
«Ma sììììì, vieni, vieni, cazzo a verme!»
Ma il coro stava perdendo il ritmo. Non sapevano come affrontare la tremenda piccola furia in arrivo.
Kovitsky arrivò al furgone e tentò di guardare attraverso la grata. Mise le mani sui fianchi.
«Ah, sì? Ma cosa credi di guardare?»
«Cooome no! Adesso ti faccio vedere io una cosa, fratello!»
Ma le voci stavano perdendo baldanza. Kovitsky si portò davanti al cellulare. Pose gli occhi di fuoco sull'autista.
«Ma lei… non li sente?» disse il piccolo giudice additando la parte posteriore del furgone.
«Eeeh?» fece l'autista. «Che cosa?» Non sapeva che rispondere.
«È sordo come una campana?» disse Kovitsky. «I prigionieri… i suoi prigionieri! Lei è un agente…»
Prese ad agitare l'indice davanti all'uomo.
«I suoi prigionieri… Lei ha permesso ai suoi prigionieri di rovesciare tutte queste immondizie sui cittadini di questa comunità e sui funzionari di questo tribunale, eh?»
L'autista era un uomo grasso e scuro, sui cinquant'anni o giù di lì, piccolo e tozzo, da una vita nell'amministrazione pubblica: all'improvviso spalancò occhi e bocca, senza che ne uscisse un sol suono; poi sollevò le spalle, rovesciò le palme verso l'alto mentre gli angoli della bocca assumevano una piega amara.
Era la primordiale scrollata di spalle delle strade di New York e lo sguardo diceva: "Ehi, ma cosa vuoi? Ma cosa vuoi da me?". E nel caso specifico: "Ma cosa vuoi che faccia, che m'infili in quella gabbia insieme a quella gentaglia?".
Era l'antica invocazione di pietà di New York, innegabile e incontestabile.
Kovitsky fissò l'uomo e scosse la testa come si fa quando si è appena visto un caso disperalo. Poi si voltò e si diresse verso il retro del furgone.
«Arriva Hymie!»
«Ahaa! ahaa! ahaaa!»
«Succhiamelo, Vostro Onore!»
Kovitsky fissò il finestrino, sempre nel tentativo di individuare il suo nemico attraverso la fitta grata. Poi aspirò profondamente, e si udì il terribile rumore di un naso che tirava su e un rimbombo nel petto e in gola. Pareva incredibile che un rumore tanto fragoroso potesse uscire da un corpo così minuto. E poi sputò, lanciando una prodigiosa quantità di catarro verso il finestrino del furgone. Colpì la grata e rimase sospeso, un'enorme ostrica liquida, gialla, parte della quale prese a cedere e afflosciarsi, come certi spaventosi pezzi di gomma o caramella molle masticati, con una massa grumosa all'estremità inferiore. E lì rimase, scintillante nel sole, perché quelli dentro, chiunque fossero, potessero contemplarlo a piacimento.
Li tramortì. Il coro si fermò di schianto. Per un insolito, febbrile momento non ci fu altro al mondo, nel sistema solare, nell'universo, nell'intero creato, se non la gabbia e quell'unico lucente, colante, pendulo blocco di sputo illuminato dal sole.
Poi, tenendo la mano destra vicino al petto perché dal marciapiede nessuno lo vedesse, il giudice mostrò un dito ammonitorio e girò sui tacchi marciando verso l'entrata dell'edificio.
Era a mezza via quando quelli ripresero fiato.
«Sììììì, e vaffanculo anche tu!» «Se ti va… tieeeeni… prendi questo…» Ma non ci stavano più con il cuore. Il sinistro spirito di rivolta del cellulare si era afflosciato di fronte al furibondo piccolo uomo d'acciaio.
Kramer corse dietro a Kovitsky e lo raggiunse mentre entrava nella porta di Walton Avenue. Aveva dovuto raggiungerlo. Per dimostrargli che era sempre con lui, al suo fianco. Erano stati loro due a subire gli insulti, là fuori.
L'uomo di guardia era riapparso sul portone. «Buongiorno, giudice» disse, come se fosse un giorno come un altro all'isola-fortezza di Gibraltar.
Kovitsky lo sfiorò appena con lo sguardo. Era preoccupato. Teneva la testa bassa.
Kramer gli toccò la spalla. «Ehilà, giudice, lei è stato eccezionale, davvero!» Kramer era raggiante, come se loro due avessero appena vinto una grande battaglia, fianco a fianco. «Sono ammutoliti! Incredibile! Sono ammutoliti!»
Kovitsky si arrestò e squadrò Kramer da capo a piedi, come se guardasse una persona mai vista prima. «Maledetto incapace» disse il giudice. Ce l'ha con me perché non mi sono mosso, non l'ho aiutato… ma subito dopo Kramer si rese conto che Kovitsky stava parlando dell'autista del cellulare.
«Quel povero figlio di puttana» disse Kovitsky «è paralizzato dal terrore. Io mi vergognerei di fare un lavoro simile se fossi un tale fottuto vigliacco!»
Pareva parlare più a se stesso che a Kramer. Continuò a parlare di questo fottuto e di quel fottuto. Il turpiloquio non faceva alcuna impressione a Kramer. Il tribunale era come l'esercito. Dai giudici fino agli agenti di custodia: c'era un unico aggettivo, o participio, o qualsiasi altra cosa venisse nominata, onnicomprensivo, e dopo qualche tempo diventava naturale come respirare. No, il cervello di Kramer correva più avanti. Aveva paura che le successive parole pronunciate dalla bocca di Kovitsky potessero essere: "Perché se ne stava lì, senza fare un cazzo di niente?". Stava già inventando qualche scusa. "Non riuscivo a capire da dove veniva… Non sapevo se veniva dal furgone oppure…"
L'illuminazione fluorescente dava all'atrio quel lucore squallido e tossico di un ambulatorio radiologico.
«… questa storia di Hymie» stava dicendo Kovitsky. Poi rivolse a Kramer un'occhiata che esigeva chiaramente una risposta.
Kramer non aveva alcuna idea di che cosa stesse parlando.
«Hymie?»
«Sì, "Arriva Hymie" disse Kovitsky. «E poi "Cazzo a verme". Poco male, "Cazzo a verme".» Rise, sinceramente divertito all'idea. «"Cazzo a verme"… Ma "Hymie"? Questo è veleno fottuto. È odio! È antisemitismo. E perché? Senza gli ebrei starebbero ancora asfaltando strade ed evitando canne di schioppo nella Carolina del Sud, questo starebbero facendo quei poveri, fottuti bastardi del cazzo.»
Suonò l'allarme. Un fragore frenetico riempì l'atrio. A Kramer entrava in testa a ondate. Il giudice Kovitsky dovette alzare la voce per farsi sentire, ma non alzò neppure gli occhi per guardarsi intorno. Kramer non batté ciglio. L'allarme significava che un prigioniero era fuggito, o che lo sparuto fratellino di un delinquente aveva tirato fuori una pistola in un'aula, o cose del genere. Magari soltanto che era scoppiato un incendio. Le primissime volte che Kramer aveva udito l'allarme nell'isola-fortezza di Gibraltar, gli occhi gli erano schizzati dalle orbite, poi si era fatto coraggio nel vedere una schiera di guardie in stivali militari e pistole calibro 38 in mano che correvano sui pavimenti di marmo tentando di mettere le mani su qualche lunatico in scarpette da tennis molto pittoresche che, in preda al terrore, fa i cento metri in otto secondi e quattro decimi. Ma dopo un po' apprese a ignorarlo. Era lo stato normalissimo di allarme rosso, panico e disordine nel palazzo della contea del Bronx. Tutt'intorno a Kramer e al giudice, la gente girava la testa in ogni direzione. Che facce tristi! Entravano a Gibraltar per la prima volta, Dio solo sapeva per quali tristi missioni.
D'un tratto Kovitsky indicò il pavimento e disse: «… e queste, Kramer?».
«Queste?» ripeté Kramer tentando disperatamente d'intuire quello di cui stava parlando il giudice. «Queste fottute scarpe» disse Kovitsky. «Ah! Le scarpe» ripeté Kramer. «Sono scarpe da jogging, giudice!»
«È una trovata di Weiss?»
«Noooo» rispose Kramer, sogghignando come se fosse stato travolto dall'arguzia del giudice.
«Jogging per la Giustizia? È questo che vi fa fare Abe a voi ragazzi? Jogging per la Giustizia!»
«No, no, no, no.» Ancora risatine e un largo sorriso poiché Kovitsky ovviamente amava la battuta: Jogging per la Giustizia.
«Cristo, ogni ragazzotto che aggredisce un crumiro arriva nel mio tribunale con queste maledette cose ai piedi; e adesso anche voialtri?»
«Nooo-ho-ho.»
«Lei pensa di venire dalle mie parti in questo modo?»
«Nooooooooo-ho-ho-ho! Non ci penso neppure, giudice.»
L'allarme continuava a suonare. I nuovi, i nuovi dalle facce tristi che non erano mai stati prima all'interno della cittadella, si guardavano in giro con occhi sgranati e bocche spalancate: vedevano un vecchio bianco, calvo, in abito grigio, camicia bianca e cravatta, e un giovane bianco stempiato in abito grigio, camicia bianca e cravatta, che stavano lì a parlare, sorridere, cicalare, sparare freddure… e perciò se questi due bianchi, così chiaramente schierati dalla parte del Potere, se ne stavano lì tranquilli, senza neppure alzare un occhio, poteva esserci un pericolo grave?
Mentre l'allarme gli rimbombava in testa, Kramer si sentì ancora più depresso.
In quel preciso momento prese una decisione. Bisognava fare qualcosa: qualcosa di sorprendente, qualcosa di avventato, qualcosa dì disperato, poco importava. Doveva andarsene da lì. Doveva emergere da quell'orrenda stalla. Doveva illuminare il suo cielo, afferrare la Vita per viverla…
Rivide la ragazza dal rossetto marrone così chiaramente che fu come se lei si trovasse al suo fianco, in quel posto desolato e squallido.