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La maschera della morte rossa

Sherman e Judy arrivarono al palazzo dei Bavardage sulla Quinta Avenue in una berlina Buick nera, guidata da un autista dai capelli bianchi, noleggiata per la serata dalla Mayfair Town Car, Inc. Abitavano a soli sei isolati dai Bavardage, ma andarci a piedi era fuori discussione. Innanzi tutto, per via dell'abito di Judy. Era a spalle nude, ma con maniche corte a sbuffo delle dimensioni di paralumi cinesi che le coprivano la parte superiore delle braccia. La vita era aderente, ma si rigonfiava nella gonna in una forma che ricordava a Sherman un pallone aerostatico. L'invito a cena dai Bavardage prescriveva "abito informale". Ma in questa stagione, come tout le monde sapeva, le donne si vestivano in modo molto più stravagante per pranzi informali nelle case private importanti che per le serate in cui, nelle grandi sale da ballo, era di rigore l'abito da sera. In ogni caso, a Judy era impossibile camminare per strada con quell'abito.

Ma c'era una ragione ancor più fondata per noleggiare un'automobile con autista. Sarebbe stato certamente possibile a loro due arrivare per cena in un Buon Palazzo (il termine corrente) nella Quinta Avenue in taxi, e sarebbe costato meno di tre dollari. Ma che cosa avrebbero fatto dopo il ricevimento? Come avrebbero potuto uscire da casa Bavardage con tutta la gente, tout le monde, che li vedeva in mezzo alla strada, i McCoy, la coppia perfetta, con le mani in aria, coraggiosamente, disperatamente, pateticamente protese nel gesto di richiamare un taxi? I portieri non sarebbero stati d'aiuto perché occupatissimi a scortare tout le monde alle automobili di lusso in attesa. Perciò aveva noleggiato macchina e autista, l'autista dai capelli bianchi, che doveva trasportarli per sei isolati, aspettarli tre ore e mezzo, poi ritrasportarli per sei isolati, e sparire. Compresi il quindici per cento di mancia e l'imposta, tutto il servizio sarebbe costato centonovantasette dollari e venti centesimi o duecentoquarantasei dollari e mezzo a seconda che la prenotazione fosse per quattro o cinque ore complessive.

Emorragia di denaro! E chissà se lo aveva ancora, un lavoro! Una tremenda paura… Lopwitz… Di certo Lopwitz non lo avrebbe cacciato… per tre giorni infelici… e sei milioni, cretino! Bisognava cominciare a tagliare le spese… domani… Ma stasera, naturalmente, era obbligatorio avere macchina e autista.

A peggiorare ulteriormente l'umore, l'autista non riuscì a fermare là macchina lungo il marciapiede vicino all'entrata, poiché c'erano troppe limousine di mezzo. Invidia… invidia… Dalle targhe Sherman intuiva che non erano auto noleggiate. Erano di proprietà, appartenevano a quelle persone i cui morbidi sederi si adagiavano sui sedili. Un autista, uno bravo disposto a lavorare per molte ore e fino a tardi, costava come minimo trentaseimila dollari l'anno, un posto in una rimessa, riparazioni, assicurazione, ed erano altri quattordicimila dollari almeno: per un totale di cinquantamila dollari l'anno, neanche uno dei quali era deducibile. Io guadagno un milione di dollari all'anno, eppure non me lo posso permettere!

Arrivò al marciapiede. Checc… A sinistra, vicinissimo, nella semioscurità, una sagoma… un fotografo!

Terrore puro!

La mia foto sul giornale!

L'altro ragazzo, quello grosso, il bruto, mi vede e va subito alla polizia!

La polizia! I due agenti! Quello grasso! Quello con la testa sempre storta! McCoy va alle feste dei Bavardage, pensate! Ora sì che sentono odore di sangue!

Terrorizzato, fissa il fotografo e scopre che è soltanto un uomo giovane che porta a spasso il cane. Si era fermato presso la tenda che porta all'entrata, senza neppure guardare Sherman, ma per fissare una coppia che si avvicinava alla porta: un vecchio in abito scuro e una donna giovane, una bionda, in abito corto.

Calmati! Per l'amor di Dio! Non impazzire! Non diventare paranoico!

Ma una voce beffarda, insultante, dice: Hai qualcosa da tirar fuori dall'armadio?

Sherman e Judy attraversarono la tenda, a soli tre o quattro passi dal vecchio e dalla bionda, in marcia verso l'entrata. Un portiere in sparato bianco inamidato l'aprì. Portava guanti bianchi di cotone. Prima entrò la bionda. Il vecchio, non molto più alto di lei, aveva l'aria cupa e assonnata. I radi capelli bianchi erano pettinati all'indietro. Aveva un grosso naso e palpebre pesanti, come un indiano da film. Un momento! Io lo conosco! No. Eppure l'aveva visto. Ma dove? Bang! Ma, naturalmente sui giornali: era il barone Hochswald, il finanziere tedesco.

Proprio quello di cui Sherman aveva bisogno, in una notte come quella! Dopo la catastrofe degli ultimi tre giorni, e l'infimo punto a cui era giunta la sua carriera a Wall Street, imbattersi in quest'uomo, dal successo così totale, così permanente, dalle ricchezze così vaste e inattaccabili, dover posare gli occhi su questo solido e vecchio tedesco.

Magari il barone ci abitava in quell'immobile. Ti prego, Signore, fa' che non si vada allo stesso ricevimento! In quel preciso momento udì il barone dire al portiere con marcata pronuncia europea: «Bavardage». Il guanto bianco del portiere fece un gesto verso la parte posteriore dell'ingresso. Sherman si perse d'animo. Si perse d'animo per la serata e per la vita. Perché non s'era ritirato a Knoxville sei mesi prima? Una piccola casa georgiana, una falciatrice, una rete da badminton nel cortile per Campbell… Ma no! Doveva seguire passo passo il tedesco dagli occhi nocciola, diretto verso la casa degli stessi volgarissimi, insopportabili esseri di nome Bavardage, un venditore ambulante baciato dalla fortuna e sua moglie. Sherman disse al portiere: «I Bavardage, per favore». Calcò pesantemente sull'ultima parola, perché nessuno potesse pensare che lui si fosse preoccupato del fatto che un nobile, il barone Hochswald, avesse detto lo stesso nome. Il barone, la bionda, Judy e Sherman si diressero verso l'ascensore. L'ascensore era foderato di pannelli di mogano. Risplendeva. La venatura era vistosa, ma ricca e matura. Nell'entrare Sherman sentì il barone Hochswald dire il nome Bavardage all'addetto. Così Sherman lo ripeté, come prima. «I Bavardage.» Affinché il barone non avesse l'impressione che lui, Sherman, fosse consapevole della sua esistenza. Ora tutti e quattro sapevano che andavano allo stesso ricevimento e dovevano prendere una decisione. Comportarsi in modo giusto, decente, amichevole, all'americana, come, senza esitazioni, avrebbe fatto chiunque si fosse trovato nell'ascensore di un immobile simile, a Bewcon Hill o Rittenhouse Square, o in un immobile di New York, quanto a questo, se il ricevimento fosse stato dato da persone di buon sangue e nerbo, come Rawlie o Pollard (in questa compagnia, Pollard d'un tratto sembrava assolutamente a posto, un vecchio knickerbocker esemplare). Sì, certo, ci si sarebbe comportati in modo giusto, umano, e cioè ci si sarebbe sorrisi e presentati a vicenda… Oppure, fingendo di non conoscere la destinazione comune, fissando con ostentazione la nuca di chi manovrava l'ascensore, mentre la gabbia di mogano saliva, lungo il suo pozzo cieco, ci si sarebbe comportati in modo volgare, maleducato e snob, ignorando l'altrui presenza?

Sherman lanciò un'occhiata esplorativa verso Hochswald e la bionda. L'abito della ragazza era una guaina nera che si fermava a molti centimetri sopra il ginocchio e che le fasciava i fianchi sontuosi e il lascivo pendio del basso ventre, ma che invece s'increspava in alto in tanti petali di fiore. Cristo, com'era sexy! Le sue spalle bianche candidissime e la parte superiore del seno premevano verso l'alto come se lei morisse dalla voglia di liberarsi della guaina e di correre nuda tra le begonie.

I capelli biondi erano tirati indietro per mettere in evidenza un paio di enormi orecchini di rubino. Non aveva più di venticinque anni… un bocconcino! Un animaletto pulsante! Il vecchio porco si era preso quel che aveva voluto, eh!? Hochswald indossava un abito nero di serge, una camicia bianca dal colletto largo e una cravatta nera di seta con un nodo ampio e quasi sfatto. Tutto così impeccabilmente all'ultima moda, così… Sherman fu lieto che Judy l'avesse indotto a mettersi l'abito blu scuro e la cravatta blu. Eppure, se paragonato al suo abito, quello del barone, al confronto, sembrava tremendamente elegante.

Sorprese il vecchio barone mentre squadrava Judy e lui dall'alto in basso. I loro sguardi s'incrociarono per un brevissimo istante. Poi tutti e due si concentrarono sulla nuca e il colletto dell'addetto all'ascensore.

Salivano, un addetto all'ascensore e quattro muti di mondo, verso un piano alto. La risposta: avete fatto la cosa poco educata e più snob.

L'ascensore si fermò, e i quattro muti uscirono e si ritrovarono sul pianerottolo dei Bavardage. Era illuminato da una serie di minuscoli paralumi di seta su entrambi i lati di uno specchio dai bordi dorati. Una porta aperta, un chiarore rosato, una folla, il ronzio concitato di un alveare…

Passarono la soglia ed entrarono nell'ingresso a galleria. Quelle voci! Quell'eccitazione! Quelle risate! Sherman stava per affrontare la catastrofe della carriera, la catastrofe del matrimonio: la polizia lo stava mettendo con le spalle al muro - eppure l'alveare - l'alveare - l'alveare! - le onde sonore dell'alveare facevano vibrare le sue parti più recondite. Facce di cui si notavano i denti, sorridenti, scintillanti, smaglianti! Oh! Quanto siamo straordinari, favolosi e fortunati, noi, pochi privilegiati, che ci troviamo in queste stanze superne e raggianti di rosso splendore!

L'ingresso era più piccolo che quello di Sherman, ma il suo (progettato e sistemato da sua moglie, l'arredatrice) era solenne e austero, mentre questo era abbagliante, effervescente. Le pareti erano tappezzate con seta brillante rosso lacca, la seta era delimitata da modanature dorate, le modanature riquadrate da larghe fasce terra di Siena bruciata, a loro volta riquadrate da altre modanature dorate, e la luce di una fila di candelabri da parete in ottone faceva brillare le guarnizioni dorate, e il riflesso delle parti dorate e della seta rosso lacca rendeva tutti i visi sorridenti e i lucenti abiti da sera ancora più sgargianti.

Studiò la folla e immediatamente provò una sensazione precisa: presque vu! presque vu! quasi visto! E, tuttavia, non riusciva a tradurla in parole. Non ne era all'altezza. Tutti gli uomini e le donne in quella sala erano disposti a gruppi, ciocchi, parevano essere, in un certo senso, mazzi di fiori composti da uomini e donne che conversavano. Non c'erano solitari, cani sciolti. Erano tutte facce bianche. (Facce nere potevano anche comparire, di tanto in tanto, a quei grandi pranzi mondani di beneficenza, ma non a pranzi mondani in case private!) Non c'erano uomini sotto i trentacinque anni, ed erano pochi quelli sotto i quaranta. Le donne erano di due specie. La prima composta di donne sulla trentina abbondante, sulla quarantina o anche più (donne "di una certa età"), tutte pelle e ossa (morte di fame fin quasi alla perfezione assoluta). A compensare la concupiscenza che mancava alle loro costole rinsecchite e ai loro glutei atrofizzati, si rivolgevano ai grandi stilisti. Questa era la stagione in cui sbuffi, gale, pieghe, crespe, pettorine, fiocchi, nappe, imbottiture, smerli, trine, pince, o increspature tagliate di sbieco non erano mai eccessivi. Quelle donne erano lastre ai raggi X, per usare la metafora germogliata nella mente di Sherman. La seconda specie era formata dalle cosiddette Torte al limone. Erano donne tra i venti e i trenta, quasi tutte bionde (il limone della Torta) ed erano le seconde, terze, quarte mogli o le eterne fidanzate di uomini sui quaranta, cinquanta o sessanta (o settanta) anni. Il tipo di donna che, senza riflettere, gli uomini definiscono ragazza. L'attuale moda permetteva a queste Torte al limone di sfruttare i vantaggi naturali della giovinezza mettendo in mostra le gambe molto sopra al ginocchio ed evidenziando i culetti rotondi (un attributo che nessuna donna ai raggi X possedeva). Quel che mancava del tutto chez Bavardage era quel tipo di donna né molto giovane né molto vecchia, che ha messo su uno strato di grasso sottocutaneo e brilla per la sua rotondità e per il volto roseo, che, senza aver bisogno di parole, parla di casa, di focolare, di pasti caldi già pronti alle sei, di racconti letti ad alta voce la sera e di conversazioni, quando ci si siede sul bordo del letto, poco prima di abbandonarsi a Morfeo. In altre parole, nessuno invitava mai… la Mamma.

L'attenzione di Sherman fu attirata da un mazzo di volti estatici ed effervescenti nelle immediate vicinanze. Due uomini e una donna impeccabilmente scarnificata ridacchiavano al cospetto di un colossale giovanotto dai capelli biondo pallido, un ciuffo ribelle sulla fronte… L'ho visto, ne sono certo… ma chi è? Ci sono! Ancora un volto visto sulla stampa… Il "Montanaro d'oro", il "Tenore dai capelli di stoppa": così lo chiamavano. Il suo vero nome era Bobby Shaflett. Un giovane tenore emergente del Metropolitan, un individuo molto grasso saltato fuori, non si sa come, da una sperduta vallata dei monti Appalachi. Era quasi impossibile leggere una rivista o un quotidiano senza vedere la sua fotografia. Mentre Sherman lo osservava, la bocca del giovane si spalancò. Ha ha ha ha ha ha ha ha ha, scoppiò in una risataccia immensa, e le facce sorridenti intorno a lui parvero ancor più raggianti, più estasiate di prima.

Sherman inalberò il suo mento Yale, squadrò le spalle, raddrizzò la schiena, si tese in tutta la sua altezza e assunse il portamento, il portamento di una New York più vecchia, più bella; la New York di suo padre, il Leone di Dunning Sponget.

Un maggiordomo si materializzò e chiese a Judy e a Sherman cosa volevano bere. Judy chiese «un'acqua minerale» (dire Perrier o qualsiasi altra marca era diventato troppo trito). Sherman aveva avuto intenzione di non bere allatto. Aveva avuto intenzione di starsene in disparte, di non confondersi con quella gente, con quei Bavardage e con le loro bevande alcoliche. Ma l'alveare si era fatto pressante, e la testa color pannocchia dal ciuffo ribelle del Montanaro d'oro svettava e ronzava più che mai.

«Gin and tonic» disse Sherman McCoy dall'altezza del suo mento.

Una smagliante donnina ossuta saltò fuori dai gruppi dell'ingresso e si avvicinò a loro. Era una raggi X con capelli biondi cotonati e tagliati alla paggio, e moltissimi denti sorridenti. Il corpo emaciato era inserito in un abito nero e rosso con sbuffi imperiosi alle spalle, una vita strettissima, e una gonna lunga. Aveva una faccia larga e rotonda, senza un grammo di carne. Il collo era molto più disseccato di quello di Judy. Le clavicole sporgevano talmente che Sherman ebbe la sensazione di poter allungare le mani e di poterla afferrare da quelle due grandi ossa. Vedeva in trasparenza attraverso la cassa toracica.

«Cara Judy!»

«Inez!» disse Judy e le due donne si baciarono o, meglio, si strusciarono a vicenda le guance, prima da una parte, poi dall'altra, una consuetudine europea che Sherman, ora, di nuovo figlio del solido e leale knickerbocker; del patriarca di una Vecchia Famiglia, del grande fustigatore dei costumi John Campbell McCoy, trovava pretenziosa e volgare.

«Inez! Non mi pare che tu conosca Sherman!» Judy forzò la voce fino ad assumere un tono esclamativo per essere udita al di sopra del ronzio dell'alveare. «Sherman, Inez Bavardage!»

«Come sta?» chiese il rampollo del Leone.

«Ma è come se la conoscessi!» disse la donna, guardandolo apertamente negli occhi, facendo lampeggiare i suoi minuscoli denti e protendendo la mano verso di lui. Sopraffatto, la prese. «Ah, se sentisse come parla di lei Gene Lopwitz!» Lopwitz! Quando? Sherman si sorprese ad aggrapparsi a questo filo di speranza. (Forse aveva lavorato così bene nel passato, che la disfatta delle Giscard non lo avrebbe finito!) «Io conosco anche suo padre. Mi fa una paura terribile!» E con ciò la donna afferrò l'avambraccio di Sherman, incollò i suoi occhi a quelli di lui e scoppiò in una risata straordinaria, una risata secca, non ha ha ha, ma hack hack hack hack hack hack hack hack hack, una risata di tale violenza e abbandono totale che Sherman si sorprese a ridacchiare scioccamente e a dire: «Dice davvero?».

«Sì!» Hack hack hack hack hack hack hack. «Non te l'ho mai detto Judy?» Si protese e infilò un braccio sotto quello di Judy e l'altro sotto quello di Sherman e li attiro a sé tutti e due, come se loro fossero stati i due più cari amici che avesse mai avuto in tutta la sua vita. «C'era un uomo terribile, un certo Derderian, che aveva fatto causa a Leon. Continuava a mettere insieme cose assurde. Pure molestie. E così un week-end eravamo a Santa Catalina da Angie Civelli.» Lasciò cadere il nome del famoso comico senza neppure un attimo di suspense. «Stavamo pranzando, quando Leon comincia a parlare di tutti i fastidi che gli stava dando quel Derderian, e Angie disse - credetemi, era assolutamente serio - disse: "Vuoi che me ne occupi io?".» Con ciò, Inez Bavardage spinse il naso da un lato con l'indice per indicare la gente dal Naso Storto. «Be', voglio dire, avevo sentito parlare di Angie e dei Ragazzi, e non ci credevo, ma lui parlava sul serio!» Hack hack hack hack hack hack hack. Tirò a sé ancora di più Sherman, e gli piazzò gli occhi in faccia. «Quando Leon tornò a New York andò a trovare suo padre, e gli parlò della proposta di Angie, commentando: "Forse è il modo più semplice per sistemare la situazione". Non dimenticherò mai cosa gli rispose suo padre. Disse: "No, signor Bavardage, lasci che ci pensi io. Non sarà semplice, non sarà rapido, le costerà un mucchio di soldi. Ma la mia parcella lei la potrà pagare. L'altra… nessuno è ricco abbastanza per pagare quel tipo di parcella. Continueranno a chiederle soldi fino alla fine dei suoi giorni!".»

Inez Bavardage restò vicinissima al volto di Sherman e gli lanciò uno sguardo d'infinita profondità. Lui si sentì obbligato a dire qualcosa.

«Che cosa fece suo marito?»

«Quel che aveva detto suo padre, naturalmente. Quando lui parlava, la gente balzava in piedi e obbediva!» Un hack-hack-hack-hack di risaaaaateee.

«E la parcella?» chiese Judy, deliziata di sentire questo aneddoto sull'incomparabile padre di Sherman.

«Fu sensazionale, straordinaria, quella parcella!» Hack hack hack hack hack. Il Vesuvio, il Cracatoa e il Mauna Loa eruttarono insieme risate su risate, e Sherman si sentì coinvolto nell'esplosione, suo malgrado. Era irresistibile! Gene Lopwitz ti ama! Il tuo incomparabile padre! La vostra nobile stirpe! Oh! Che straordinario senso di euforia tu susciti nel mio petto ossuto!

Sapeva che la sensazione era del tutto irrazionale, ma si sentiva pieno di calore, su di giri, esultante, al settimo cielo. Ripose la rivoltella del suo Risentimento nel cinturone e disse al suo Snobismo di andare a distendersi presso il focolare. Una donna davvero affascinante! Chi lo avrebbe detto, dopo tutto quello che si sente dire dei Bavardage?! Una raggi X dell'alta società, niente da dire, ma non era facile continuare a darle contro! Piena di calore, veramente… e molto divertente!

Come la maggior parte degli uomini, Sherman era molto ingenuo, e ignaro delle tecniche che una padrona di casa aggiornata e abile sfoggia nell'accogliere gli ospiti. Per almeno quarantacinque secondi ogni ospite diventava l'amico più intimo, caro, divertente, spiritoso, complice che una ragazza abbia mai avuto. Ogni ospite maschio, la padrona di casa, lo toccava sul braccio (qualsiasi altra parte del corpo presentava qualche problema) aggiungendo forse anche una certa pressione sentita, sincera. Ogni ospite, maschio o femmina, lei lo guardava con un radar applicato agli occhi, come se fosse affascinata (da vivacità, spirito, bellezza, e ricordi comuni incomparabili).

Il maggiordomo tornò con le bevande per Judy e Sherman: Sherman bevve un lungo sorso di gin and tonic, il gin colpì a fondo, il dolce ginepro si diffuse per tutto il corpo, lui si rilassò e si abbandonò al lieto ronzio dell'alveare che gli penetrava nel cervello.

Hack hack hack hack hack hack hack, fece Inez Bavardage.

Ha ha ha ha ha ha ha ha ha, fece Bobby Shaflett.

Hah hah hah hah hah hah hah hah, fece Judy.

Heh heh heh heh heh heh heh heh, fece Sherman.

L'alveare ronzava, ronzava, ronzava.

In un attimo Inez Bavardage aveva inserito lui e Judy nel gruppo su cui imperava il Montanaro d'oro. Cenni del capo, saluti, strette di mano, sotto l'egida della recentissima grande amica di Sherman: Inez. Prima che lui si rendesse conto di quel che era successo, Inez aveva trascinato Judy fuori dall'ingresso, in qualche sala, mentre Sherman veniva abbandonato in balia del celebre ragazzo grasso dei monti Appalachi, di due uomini e di una donna ai raggi X. Cominciò a osservarli, uno per uno, a cominciare da Shaflett. Nessuno gli restituì lo sguardo. I due uomini e la donna fissavano, rapiti, l'enorme testa sbiadita del tenore mentre lui raccontava una cosa accaduta in un aeroplano:

«… così mi metto lì e aspetto Barbara… lei doveva infatti tornare a New York con me?» Finiva le frasi esplicative con un punto interrogativo, e questo vezzo ricordò a Sherman Maria… Maria… e l'enorme ebreo chassidico! La grande palla bionda di grasso era simile all'immensa scrofa della società immobiliare, ammesso che lo fosse davvero. Un tremito freddo… Erano là, fuori, e lo stavano braccando… «E io sono lì al mio posto. Uno è vicino al finestrino? Da dietro arriva quel negro incredibile, impossibile.» Dal modo con cui calcò sull'in e sull'im, da come fece fluttuare le mani in aria, Sherman si chiese se il gigante non fosse, in realtà, un omosessuale. «Indossa una pelliccia di ermellino? Fino a terra?… e ha una lobbia di ermellino? ha più anelli della stessa Barbara e si porta dietro tre inservienti! Proprio come in Shaft?»

Il gigante spumeggiava, eccitatissimo. I due uomini e la donna tenevano gli occhi sulla sua enorme faccia tonda, e un sorrisetto fisso. Il gigante, da parte sua, guardava soltanto loro, mai Sherman. Via via che passava il tempo, si rendeva sempre più conto che tutti e quattro gli altri si comportavano come se lui non esistesse. Un frocio gigantesco con una parlata da montanaro, pensò Sherman, e quelli pendevano dalle sue labbra, bevendo ogni parola. Sherman si fece tre bei sorsi del suo gin and tonic.

L'aneddoto pareva essere incentrato sul fatto che il sontuoso uomo di colore, che si era seduto vicino a Shaflett nell'aeroplano, era il campione del mondo dei pesi medio-massimi, Sam Assinore detto Sam l'Assassino. Shaflett trovava divertente il termine medio-massimi - ha ho ho ho ho ho ho - e i due uomini si sbellicavano dalle risate, inframmezzate da urletti deliziati. Sherman etichettò anche loro come omosessuali. Sam l'Assassino non sapeva chi fosse Shaflett, e Shaflett non sapeva chi fosse Sam l'Assassino. Il punto saliente della storia pareva essere il fatto che le uniche due persone nella prima classe dell'aereo ignare di chi fossero tutte e due le celebrità erano proprio loro due, Shaflett e Assinore! Ha ha ha ha ha ha ha ha… hi hi hi hi hi hi hi… e… aha!… uno spunto di conversazione a proposito di Sam l'Assassino Assinore nacque nel cervello di Sherman. Oscar Suder… Oscar Suder! Trasalì al ricordo, ma non lo abbandonò. Oscar Suder faceva parte di un gruppo di investitori del Middle West che sostenevano Assinore e controllavano le sue operazioni finanziarie. Uno spunto! Uno spunto per la conversazione! Un mezzo per entrare in quel circolo chiuso!

Quando le risate cessarono, Sherman disse rivolto a Bobby Shaflett: «Lo sa che il contratto di Assinore, e la sua pelliccia di ermellino, per quel che ne so, sono proprietà di un gruppo di uomini d'affari dell'Ohio, soprattutto di Cleveland e Columbus?».

Il Montanaro d'oro lo guardò come se fosse un povero accattone. «Hmmmmmmmmm» fece. Era lo hmmmmmmmmmmmmm che voleva dire: "Ho capito, ma non me ne frega niente" e subito si voltò verso gli altri tre e disse: «E così gli chiedo di farmi l'autografo sul menu. Sapete, ti danno quel menu?».

Questo fu troppo per Sherman. Ritirò fuori dal cinturone la rivoltella del Risentimento. Si allontanò dal crocchio e girò le spalle. Nessuno di loro se ne accorse. L'alveare impazzì nella sua testa.

Adesso che cosa doveva fare? All'improvviso era solo in questo rumoroso alveare senza un posto su cui appollaiarsi. Solo! Divenne pienamente cosciente che ormai l'intero ricevimento era composto da crocchi e mazzi. Non essere incluso in uno di quelli significava un totale fallimento mondano. Guardò di qua e di là. Chi era quel tizio laggiù? Un uomo alto, bello, dall'aria soddisfatta: una corona di volti pieni di ammirazione lo fissavano. Ah! Sì! Uno scrittore che si chiamava Nunnally Voyd. Un romanziere: lo aveva visto in televisione in un talkshow. Malizioso, acido… Guarda un po' come stravedono per lui quegli imbecilli! Non osò tentare di inserirsi in quel crocchio. Si sarebbe senza dubbio ripetuta l'esperienza già fatta con il Montanaro d'oro. C'era qualcun altro che conosceva? No! Solo un'altra faccia famosa: il ballerino Boris Korolev. Un altro mazzo di volti in adorazione! Estasiati, rapiti… Idioti! Larve umane. Perché strisciano davanti a danzatori, scrittori e cantanti d'opera giganteschi e finocchi? Erano tutti soltanto buffoni di corte, poveracci destinati al puro divertimento dei… Padroni dell'Universo, quelli che spingono le leve, che muovono il mondo… Eppure tutti quegli idioti li adorano come se si trovassero su corsie privilegiate in marcia verso la divinità… E nessuno voleva neppure sapere chi era lui… anche se, comunque, non sarebbero neppure stati capaci di capire davvero chi era lui.

Si ritrovò nei pressi di un altro crocchio. Be', lì, almeno non c'erano persone famose, nessun buffone di corte con la puzza sotto il naso. Un uomo grasso, rossiccio, stava parlando con un marcato accento inglese: «Era steso in mezzo alla strada, capite, con una gamba rotta…». Il ragazzo magro, gentile! Henry Lamb! Sta parlando del caso che è sul giornale! Ma un momento! Una gamba rotta… L'altro continuava a dire: «Oh! che noia, oh, che seccatura». No, sta parlando di un inglese. Niente a che fare con me. Gli altri componenti del crocchio ridevano: una donna sui cinquant'anni, con cipria sparsa per tutto il viso. Grottesca. Un momento! Quella faccia la conosceva. La figlia dello scultore. Una scenografa. Non ricordava il nome… Ma poi gli venne in mente. Barbara Cornaglia. Si allontanò. Solo! Malgrado tutto, malgrado il fatto di sentirsi circondato - la polizia! - sentì il peso del suo fallimento mondano. Cosa fare per indurre gli altri a credere che la sua solitudine fosse intenzionale, che lui si aggirava da solo nell'alveare per sua scelta personale? L'alveare ronzava sempre di più.

Presso la porta da cui erano sparite Judy e Inez Bavardage, c'era un mobiletto antico che reggeva un paio di piccoli Cavalletti cinesi. Ognuno di questi reggeva un disco di velluto rosso scuro delle dimensioni di una piccola torta e, inseriti nelle tante aperture nel velluto, simili a minuscole tasche, erano fissati altrettanti cartoncini con i nomi degli ospiti. Erano gli schemi della disposizione dei posti a tavola per la cena, in modo che tutti sapessero quali sarebbero stati a tavola i vicini. A Sherman, l'uomo leonino di Yale, questo dette l'impressione di un'altra esibizione di volgarità. Ciononostante guardò. Un modo come un altro per apparire occupato, come se egli fosse lì solo, e unicamente, per studiare la disposizione degli ospiti.

C'erano evidentemente due tavoli. Vide un cartoncino su cui era scritto Signor McCoy. Si sarebbe seduto vicino - vediamo un po'! - a una certa signora Rawthrote, chissà chi era, e a una certa signora Ruskin. Ruskin! Il cuore s'imbizzarrì. Non poteva essere… non Maria!

E, invece, era probabilissimo. Quello era proprio il genere di avvenimento mondano a cui lei e il suo ricco, 'Ina un po' equivoco marito potevano venir invitati. Buttò giù quel che restava del suo gin and tonic e si precipitò attraverso la porta nell'altra sala. Maria! Le doveva parlare! Ma doveva anche tener lontano da lei Judy! Non ho bisogno di una ciliegina simile su tutto il resto!

Si trovava ora nel soggiorno, o nel salone grande: era ovvia la destinazione a luogo di riunione e d'intrattenimento. Era immenso, ma si presentava… soffocato da sofà, cuscinoni, poltrone panciute e poggiapiedi, il tutto bordato, intrecciato, sfrangiato, fasciato e soffocato… Perfino le pareti erano tappezzate in un tipo di stoffa imbottita a strisce rosse, porpora e rosa. Le finestre che davano sulla Quinta Avenue avevano grandi tende con pesanti drappeggi dello stesso tipo di tessuto, sollevate per rivelare le fodere rosa e una guarnizione di corde intrecciate a strisce. Non c'era quasi nulla nell'arredamento che suggerisse il XX secolo, neppure l'illuminazione. Poche lampade da tavolo, con paralumi rosati, fornivano tutta la luce, cosicché il campo di questo piccolo pianeta stupendamente soffocato veniva avvolto in ombre profonde e in una luce smorzata e morbida.

L'alveare ronzava, in uno stato di pura estasi, proprio perché si trovava in quest'orbita soffice e rosata. Hack hack hack hack hack hack, la risata cavallina di Inez Bavardage si levò in un punto della sala. Quanti crocchi di gente… volti sorridenti… denti smaglianti… Comparve un cameriere e gli chiese se voleva qualcosa da bere. Ordinò un altro gin and tonic. Rimase in quel posto. Con lo sguardo corse qua e là per le zone d'ombra.

Maria!

Era vicina a una delle finestre d'angolo. Spalle nude: un abito a guaina rosso. Colse al volo gli occhi di lui e sorrise. Soltanto un sorriso. Lui rispose con il sorriso più ridotto possibile. Dov'era Judy?

Nel crocchio di Maria c'era una donna che lui non riconobbe, un uomo che non riconobbe, e un uomo calvo che in qualche modo conosceva, un'altra delle facce famose in cui era specializzato questo zoo: forse uno scrittore, un inglese… Non riusciva a farsi venire in mente il nome. Completamente calvo: neppure un capello sul lungo cranio sottile, sinistro. Un teschio.

Sherman lanciò uno sguardo panoramico sulla sala, alla disperata ricerca di Judy. Dopotutto, che differenza faceva se per caso Judy incontrava in quella sala una persona di nome Maria? Non era un nome tanto insolito. Come si sarebbe comportata Maria? Non era un genio ed era dotata di un ramo di folle malignità, e lui doveva sedersi accanto a lei!

Sentì il cuore scalpitargli in petto. Cristo! Possibile che Inez Bavardage sapesse di loro due e li avesse messi vicini di proposito? Un momento! Sei proprio paranoico! Una padrona di casa non correrebbe mai il rischio di provocare un'orrenda scenata. Eppure!

Judy.

Eccola, in piedi vicino al caminetto. Rideva con tanta forza: la sua nuova risata da riunione mondana. Vuole essere una Inez Bavardage. Rideva tanto che i capelli ondeggiavano: hock hock héck hock hook hook hook. Non ancora, lo hack hack hack hack di Inez Bavardage, soltanto un intermedio hock hock hock hock. Stava ascoltando un vecchio dall'ampio torace, capelli grigi, ma stempiato e senza collo. Il terzo elemento del crocchio, una donna, elegante, snella, sui quaranta, non sembrava allatto tanto divertita. Pareva un angelo di marmo. Sherman s'inoltrò nell'alveare, passò tra le ginocchia di persone sedute su un'immensa ottomana tonda, si diresse verso il caminetto. Dovette aprirsi la strada attraverso una densa flottiglia di gonne a sbuffo e volti smaglianti.

Il viso di Judy era una maschera di ilarità. Era così assorbita nell'eloquio dell'uomo dal torace ben sviluppato che lì per lì non notò Sherman. Poi lo vide. Stupita! Ma certo! Era un segnale di fallimento mondano per un coniuge l'essere costretto a raggiungere l'altro in un crocchio di conversatori. Meglio così! La tiene lontana da Maria! Era la cosa più importante. Judy non lo guardava. Ancora una volta lampeggiò la sua sorridente ammirazione per il vecchio.

«Perciò la settimana scorsa» stava dicendo quell'uomo, «mia moglie torna dall'Italia e mi fa sapere che abbiamo un posto per l'estate a "Como". "Como", dice lei. Quel famoso lago di Como. Benissimo! Così avremo un posto a "Como". Meglio di Hammamet. Là dove siamo andati due anni fa.» Aveva una voce aspra, una voce appena un po' ripulita da strade di New York. Aveva in mano un bicchiere di soda e guardava di qua e di là, da Judy all'angelo di marmo, mentre raccontava la sua storia, raccogliendo grandi segni di approvazione da Judy e qualche sporadica torsione del labbro superiore quando fissava direttamente in faccia l'angelo. Una leggera torsione: che poteva essere considerata l'inizio di un modesto ed educato sorriso. «Almeno "Como" so dov'è! Di Hammamet non avevo mai nemmeno sentito parlare. Mia moglie va pazza per l'Italia, i quadri italiani, i vestiti italiani e adesso per "Como".»

Judy liberò un'altra raffica di risate. Hock hock hock hock hock hock come se il modo in cui il vecchio pronunciava "Como", per prendere in giro l'amore della moglie per le cose italiane, fosse quanto di più divertente ci fosse al mondo. Maria. Gli piombò addosso, all'improvviso. Stava parlando di Maria. Il vecchio era il marito, Arthur Ruskin. L'aveva già chiamata per nome, oppure aveva detto soltanto "mia moglie"?

L'altra donna, l'angelo di marmo, stava lì in piedi, immobile. Il vecchio improvvisamente allungò una mano verso l'orecchio sinistro di lei e prese l'orecchino tra il pollice e l'indice. Spaventata, la donna s'irrigidì. Avrebbe allontanato la testa, ma aveva l'orecchio incastrato tra il pollice e l'indice di quel vecchio e spaventoso individuo scimmiesco.

«Molto carino» disse Arthur Ruskin, sempre tenendo l'orecchino tra le dita. «Nadina D., vero?» Nadina Dolucci era una creatrice di gioielli molto in voga.

«Credo di sì» ammise la donna con un'intimorita voce dalle inflessioni europee. In tutta fretta si portò le mani alle orecchie, si tolse tutti e due gli orecchini e glieli porse, ostentatamente, come per dire: "Prendili, prendili. Ma sii tanto gentile da non strapparmi le orecchie dalla testa".

Per niente turbato, Ruskin li prese tra le zampe pelose e li studiò più a fondo. «Nadina D., esatto. Molto carini. Dove li ha presi?»

«Un regalo.» Fredda come il marmo. L'uomo glieli restituì, e lei li ripose tranquillamente nella borsetta.

«Molto, molto carini. Mia moglie…»

E se adesso dice: "Maria"! Sherman s'intromise. «Judy!» Poi, rivolto agli altri: «Scusatemi». E a Judy: «Mi stavo chiedendo…».

Judy mutò all'istante la sua espressione di sorpresa in un'altra di giubilo. Nessuna moglie nella storia del mondo era mai stata così felice di vedere il proprio marito arrivare in un crocchio di conversatori.

«Sherman! Conosci madame Prudhomme?»

Sherman protese il suo mento Yale ed esibì la sua migliore versione del più schietto fascino knickerbocker per salutare la più che scossa signora francese. «Come sta?»

«E Arthur Ruskin» disse Judy.

Sherman strinse con fermezza la zampa pelosa.

Arthur Ruskin non era un settantunenne giovanile. Aveva orecchie grandi con escrescenze di pelle e peli ispidi che ne scaturivano. Dalle larghe mandibole pendevano pesanti bargigli. Si teneva eretto, dondolandosi un poco sui talloni, il che spingeva in fuori il petto e lo stomaco voluminoso. La sua mole era ineccepibilmente fasciata in un abito blu scuro, con camicia bianca e cravatta blu.

«Scusatemi» ripeté Sherman. A Judy, con un sorriso affascinante: «Vieni un momento». A Ruskin e alla donna francese lanciò un sorriso di scusa, si allontanò di un paio di metri e Judy lo seguì. Il viso di madame Prudhomme crollò. Aveva sperato che il suo arrivo nel crocchio fosse il mezzo di salvarsi da Ruskin. Judy, sempre con un sorriso inossidabile in volto: «Cosa c'è?».

Sherman, maschera sorridente, fascino del famoso Mento Yale: «Vorrei che tu… ehm… venissi a conoscere il barone Hochswald».

«Chi?»

«Il barone Hochswald. Sai, quel finanziere tedesco… uno degli Hochswald.»

Judy, con il sorriso sempre stampato sulla faccia: «Ma perché?».

«Siamo saliti in ascensore assieme a lui.»

Ovviamente tutto ciò non aveva senso per Judy. In fretta: «Dov'è?». In fretta, perché era già un guaio venir colti in un grande crocchio di conversatori insieme al marito. Ma formare un crocchio minimo con lui, soltanto loro due…

Sherman, guardandosi attorno: «Be', era qui soltanto un minuto fa».

Judy, scomparso il sorriso: «Sherman, cosa diavolo stai facendo? Di che cosa stai parlando: "Il barone Hochswald"?».

In quel momento arrivò il cameriere con il gin and tonic di Sherman. Lui ne bevve un sorso abbondante e si guardò di nuovo attorno. Era un po' stordito. Dappertutto, intorno a lui, donne magre e civettuole in abiti a sbuffo, baluginanti nel chiarore albicocca delle piccole lampade da tavolo.

«Ehi! Voi due. Che cosa state cospirando!?» Hack hack hack hack hack hack hack. Inez Bavardage li prese tutti e due per il braccio. Per un attimo, prima di poter risfoderare il suo sorriso inossidabile, Judy parve abbattuta. Non soltanto era finita in un crocchio minimo con suo marito, ma la padrona di casa più famosa, la donna che regnava a New York, almeno per quel mese, sugli ambienti più mondani, li aveva individuati e si sentiva costretta a far loro compiere una corsa in ambulanza per salvarli dall'ignominia sociale.

«Sherman stava…»

«Vi cercavo! Voglio presentarvi a Ronald Vine. Sta ridecorando la casa del vicepresidente a Washington.»

Inez li pilotò attraverso l'alveare di sorrisi e vestiti, e poi li inserì in un crocchio dominato da un uomo alto, slanciato, bello, giovanile: il predetto Ronald Vine. Il signor Vine stava dicendo: «… jabot, jabot, jabot. Ho paura che la moglie del vicepresidente abbia scoperto gli jabot». Noia infinita nello sguardo volto verso l'alto. Gli altri componenti del crocchio, due donne e un uomo calvo, ridevano e ridevano. Judy riuscì a malapena ad abbozzare un sorriso. Schiantata! La padrona di casa aveva dovuto salvarla dalla morte sociale.

Che triste ironia! Sherman si odiò. Si odiò per tutte le catastrofi di cui lei ancora ignorava l'esistenza.

Le pareti della sala da pranzo dei Bavardage erano state tinteggiate con tanti strati di vernice color albicocca bruciata: in tutto quattordici, in modo da dar loro la luminosità cristallina di uno stagno riflettente un fuoco di bivacco notturno. La sala era un trionfo di riflessi notturni, una delle tante vittorie simili di Ronald Vine, il cui forte era la creazione di effetti luminosi senza servirsi di specchi. L'"indígestione da specchi" veniva ora considerata come uno dei peccati capitali degli anni Settanta. E così nei primi anni del decennio seguente, da Park Avenue alla Quinta, dalla Sessantaduesima Strada alla Novantaseiesima, si era levato il fragore tremendo di migliaia di costosissimi cristalli infranti dopo essere stati tolti di forza dalle pareti dei grandi appartamenti. No, nella sala da pranzo dei Bavardage gli occhi della gente vagavano tra un mare di luccichii, brillii, sfavillii, lucori, fulgori, bagliori e ardenti chiarori, tutti effetti ottenuti con mezzi più sottili, servendosi di lacche, vernici, piastrelle lucide in una fascia stretta proprio sotto i cornicioni del soffitto, mobili dorati inglesi Reggenza, candelabri d'argento, coppe di cristallo, vasi della scuola di Tiffany e argenteria scolpita tanto pesante che i coltelli gravavano sul polso come impugnature di sciabole.

I ventiquattro convitati si sedettero a due tavoli Reggenza tondi. Il grande tavolo da banchetto, quella specie di campo d'atterraggio Sheraton dove si potevano far sedere ventiquattro persone inserendo le ribalte, era scomparso dalle sale da pranzo eleganti. Non si doveva essere tanto formali, tanto pomposi. Due tavoli piccoli erano molto meglio. E poco importava che questi due "piccoli" tavoli fossero circondati e ornati da una serie infinita di objets, stoffe, bibelots così lussuosi che avrebbero fatto battere gli occhi al Re Sole. Le padrone di casa come Inez Bavardage erano molto fiere del loro talento per l'informale e l'intimo.

A sottolineare l'informalità dell'occasione, era stato sistemato, nel centro di ogni tavolo, tra una fitta foresta di cristalli e argenti, un cesto di stagionati rampicanti intrecciati in stile artigianato appalachiano. Attorno al cesto c'era una profusione di fiori di campo. Dentro il cesto tre o quattro dozzine di papaveri. Il centro faux-naif era il marchio di fabbrica di Huck Thigg, un giovane fiorista, che poi avrebbe presentato ai Bavardage un conto di tremilatrecento dollari solo per questo ricevimento.

Sherman fissò i rampicanti intrecciati. Sembravano cose lasciate da Gretel o dalla piccola svizzera Heidi dopo un festino luculliano. Sospirò. Tutto… troppo! Maria gli era seduta vicino, alla sua destra, e chiacchierava con l'inglese cadaverico, qualunque fosse il suo nome, alla sua destra. Judy era all'altro tavolo, ma poteva vedere benissimo lui e Maria. Doveva parlare con Maria a proposito delle domande che gli avevano rivolto i due investigatori, ma come poteva con Judy che li guardava in faccia. Lo avrebbe fatto con un sorriso innocuo in viso. Proprio così! Avrebbe sorriso per tutta la discussione! Lei non avrebbe potuto capire la differenza. O, invece, sì? Arthur Ruskin era al tavolo di Judy. Ma, grazie a Dio, le stava a quattro posti di distanza. Difficile che le potesse parlare. Judy era seduta tra il barone Hochswald e un altro uomo, giovanile, dall'aria tronfia. Inez Bavardage era due posti più in là di Judy, e Bobby Shaflett era alla destra di Inez. Judy sfoggiava un immenso sorriso mondano a beneficio dell'uomo tronfio e pomposo Hock hock hock hock hock hock hock hock hock hock! Era in grado di sentire alta, sopra il ronzio dell'alveare, la sua nuova risata. Inez stava parlando con Bobby Shaflett, ma anche con la sorridente e magrissima signora seduta alla destra del Montanaro d'oro e con Nunnally Voyd; che stava alla destra della raggi X. Ha ho ho ho ho ho ho, cantò il Tenore dai capelli di stoppa… Hack hack hack hack hack, cantò Inez Bavardage… Hock hock hock hock hock hock hock, strillò proprio sua moglie.

Leon Bavardage era a quattro sedie di distanza alla destra di Sherman dopo Maria, l'inglese cadaverico e la donna con la cipria rosa in volto. Barbara Comaglia. In contrasto con Inez Bavardage, Leon non era né molto animato né molto vivace. Aveva una faccia tranquilla, passiva senza rughe, capelli ondulati, sul biondo, che si stavano facendo un po' radi, un naso lungo e sottile, una pelle molto chiara, quasi diafana. Invece di un sorriso a 300 watt, esibiva un sorrisetto timido riservato che in quel momento destinava alla signorina Cornaglia.

Si rese conto in ritardo che avrebbe dovuto intrattenere la donna alla sua sinistra, Rawthrote, la signora Rawthrote, ma chi era mai, per l'amor di Dio? Che cosa le poteva dire? Si girò a sinistra… e lei era in attesa. Lo fissava con insistenza. I suoi occhi miopi penetranti erano a mezzo metro scarso dalla sua faccia. Un'autentica donna di mondo con una enorme massa di capelli biondi e uno sguardo di tale intensità che lui, lì per lì, pensò che lei dovesse sapere qualcosa. Aprì la bocca, sorrise, si frugò il cervello in cerca di qualcosa da dire, fece quanto di meglio poteva. «Mi farebbe un immenso piacere? Qual è il nome del signore alla mia destra? Il signore molto magro? Il viso mi è molto familiare, ma non riesco assolutamente a ricordarmi il nome.»

La signora Rawthrote gli si fece vicinissima, finché i loro volti non furono a neppure venti centimetri di distanza. Gli era così vicina che pareva avere tre occhi. «Aubrey Buffing» disse lei. Gli occhi di lei bruciavano i suoi.

«Aubrey Buffing?» ripeté Sherman in tono vago. In realtà si trattava di una domanda.

«Il poeta» rincarò la signora Rawthrote. «È citato nella rosa ristretta dei probabili Nobel. Suo padre è il duca di Bray.» Il tono della sua voce sottintendeva: "Come cavolo fai a non saperlo?".

«Ma certo!» esclamò Sherman, sentendo che, in aggiunta a tutti i suoi peccati, c'era anche quello di essere un filisteo. «Ma certo, il poeta.»

«Come le sembra?» La donna aveva gli occhi di un cobra. Il suo volto era rimasto ancora incollato al suo. Lui avrebbe voluto ritrarsi, ma non poté. Era come paralizzato.

«Chi?»

«Lord Buffing» disse lei. «Parlo del suo stato di salute.»

«Io… non posso dirlo. Non lo conosco.»

«Lo curano al Vanderbilt Hospital. Ha l'Aids.» Si tirò indietro di qualche centimetro, per osservare meglio l'effetto della rivelazione su Sherman.

«È tremendo!» disse Sherman. «Come fa a saperlo?»

«Conosco il suo più caro amichetto.» Lei chiuse gli occhi e poi li riaprì come per dire: "Queste cose le so, ma non fare troppe domande". Poi disse: «Resti entre nous». Ma se non l'ho mai vista prima! «Non lo dica a Leon o Inez» continuò lei. «È loro ospite! Lo è da due settimane e mezzo. Non inviti mai un inglese per un fine settimana. Non riuscirà mai a cacciarlo.» Lo disse senza sorridere, come se fosse il consiglio più serio che avesse mai dato senza spese per il destinatario. Proseguì nel suo studio accurato, da miope, del viso di Sherman.

Per spezzare il contatto degli occhi, Sherman rivolse una rapida occhiata all'inglese dall'aspetto spettrale, lord Buffing, il Poeta inserito nella "rosa ristretta".

«Non si preoccupi» disse la signora Rawthrote. «Non si prende a tavola. Se si prendesse, ce l'avremmo tutti, ormai. Metà dei camerieri di New York sono finocchi. Mi faccia vedere un omosessuale felice, e io le farò vedere un cadavere di finocchio.» Ripeté quel mot farouche con la stessa voce piatta di tutto il resto, senz'ombra di un sorriso.

In quel momento, un giovane cameriere di bell'aspetto, a occhio e croce latino, prese a servire la prima portata, che pareva un uovo di Pasqua immerso in una spessa salsa bianca sopra una base di caviale rosso, a sua volta sopra un letto di lattuga Bibb.

«Questi no» disse la signora Rawthrote, in presenza del giovanotto. «Loro lavorano tutto il giorno per Inez e Leon, dai tempi di New Orleans. Abitano in campagna, nella casa dei Bavardage, e vengono qui in automobile a servire per i pranzi e le cene.» Poi, senza preamboli, chiese: «Che cosa fa, signor McCoy?».

Sherman fu preso di sorpresa. Ammutolì. Era tanto sbalordito quanto lo era stato quando Campbell gli aveva rivolto la stessa domanda. Una nullità, un raggio di trentacinque anni, eppure… le voglio far impressione! Le risposte possibili gli arrivarono lampeggiando al cervello: Sono un elemento di spicco nel reparto delle obbligazioni alla Pierce & Pierce. No! Suonava come se lui fosse un oggetto facilmente sostituibile di una burocrazia, e per di più molto fiero di esserlo. Sono il numero uno tra i venditori. No! Lo si poteva confondere con un venditore di aspirapolvere. Faccio parte di un gruppo che prende le decisioni più importanti… No! Non era esatto, e per di più era un'osservazione molto, ma molto maldestra. Ho fatto novecentottantamila dollari vendendo obbligazioni lo scorso anno. Quella era la risposta più giusta, ma come era possibile passare tale informazione senza sembrare sciocco?… Sono un Padrone dell'Universo! Continuo a sognare! Non era il caso di urlare questa certezza! Si limitò a dire: «Oh, cerco di vendere qualche obbligazione per la Pierce & Pierce». Sorrise appena, sperando che un'affermazione di tanta modestia sarebbe stata presa come un inequivocabile segno di fiducia in se stesso, corroborata dagli immensi e straordinari successi ottenuti a Wall Street. La signora Rawthrote lo trafisse di nuovo con lo sguardo. Da dieci, quindici centimetri di distanza. «Gene Lopwitz è uno dei miei clienti.»

«Un suo cliente?»

«Sì, da Benning e Sturtevant.»

Dove? La fissò.

«Lei conosce Gene?» chiese lei.

«Be', sì, lavoro per lui.»

Evidentemente la donna non lo trovava interessante. Con grande stupore di Sherman, si voltò di novanta gradi, senz'altre parole, verso la sua sinistra, dove un uomo allegro, florido, dalla faccia rossa, stava parlando alla Torta al limone che era venuta con il barone Hochswald. A Sherman venne finalmente in mente chi fosse: un dirigente della televisione che si chiamava Rale Brigham. Sherman fissò le vertebre della signora Rawthrote che sbucavano dall'abito scollato. Forse si era girata soltanto per un attimo e presto si sarebbe di nuovo voltata per riprendere la loro conversazione. Ma no! Lei si era intromessa nella conversazione di Brigham e della Torta. Sentiva la sua voce piatta. Era china su Brigham e lo fissava con lo sguardo penetrante. Aveva dedicato tutto il tempo che le era parso opportuno dedicare… a un comune venditore di obbligazioni!

Era di nuovo nei guai. Alla sua destra Maria era sempre immersa in conversazione con lord Buffing. Lui fronteggiava di nuovo la morte mondana. Era un uomo seduto a un tavolo in perfetta solitudine durante una cena. Attorno a lui l'alveare ronzava a pieno regime. Tutti gli altri erano in stato di euforia. Soltanto lui era giù di tono. Soltanto lui faceva da tappezzeria, soltanto lui non aveva nessuno con cui chiacchierare, una lucciola mondana senza chiarore proprio nello Zoo Bavardage delle Celebrità. La mia vita è distrutta! Eppure, sopra ogni altra cosa, nel suo sovraccarico sistema nervoso centrale, bruciava la vergogna. La vergogna della sua inettitudine mondana.

Fissò gli stagionati rampicanti di Huck Thigg nel centro della tavola quasi fosse uno studioso di composizioni floreali. Poi sfoggiò un sorriso compiaciuto, come se fesse divertito e fiducioso per qualche misteriosa ragione. Bevve una bella sorsata di vino e guardò l'altro tavolo, come se avesse colto un'occhiata da parte di qualcuno… Sorrise… Sussurrò senza produrre suono in direzione di certi punti indistinti del muro. Bevve ancora un po' di vino e studiò ancora i rampicanti intrecciati. Contò le vertebre della spina dorsale della signora Rawthrote: Fu felice quando uno dei camerieri, uno dei varones di campagna, si materializzò e gli riempì il bicchiere di vino.

Come portata principale furono servite rosee fette di roast beef in grandi piatti di porcellana, con cipolle, carote e patate in umido. Un semplice, generoso piatto forte americano. Piatti forti americani, semplici e generosi, insinuati tra prologhi ed epiloghi esotici, erano comine il faut, in linea di massima, per rimanere nell'informale. Quando il cameriere messicano cominciò a passare gli enormi piatti sopra le spalle dei convitati, perché si servissero, l'operazione servì come segnale per cambiare compagno di conversazione. Lord Buffing, il poeta inglese malato, entre nous, si rivolse alla incipriata signorina Cornaglia. Maria si volse verso Sherman. Sorrise e lo guardò intensamente negli occhi. Troppo! E se Judy li stava osservando in quel momento? Inalberò un sorriso mondano, gelido.

«Fiuu!» fece Maria, ruotando gli occhi in direzione di lord Buffing. Lui intendeva parlarle della visita dei due poliziotti. Ma è meglio prendersela con calma, nel caso che Judy stia guardando.

«Ah, già!» disse. Un ampio sorriso mondano. «Dimenticavo. Non ti piacciono gli inglesi.»

«No, non c'entra» disse Maria. «Sembra un uomo decente, simpatico. Ma non riesco quasi a capire quello che dice. Chi ha mai sentito una pronuncia simile?»

Un sorriso mondano: «Di che cosa parlava?».

«Lo scopo della vita. E non sto scherzando.»

Il sorriso mondano: «Ti ha detto per caso che cos'è?».

«Per la verità, sì. La riproduzione.»

Il sorriso di mondo: «La riproduzione?».

«Sì. Ha detto che gli ci sono voluti settant'anni per rendersi conto che l'unico scopo della vita è la riproduzione. Ha detto: "La natura ha un'unica preoccupazione vera: la riproduzione di per sé".»

Il sorriso di mondo: «Molto interessante, specie considerando che è lui a dirlo. Lo sai che è omosessuale, vero?».

«Ma va'! Chi te l'ha detto?»

«Quella là.» Accennò alla schiena della signora Rawthrote. «Chi è, comunque? La conosci?»

«Sììì. Sally Rawthrote. E un'agente immobiliare.»

Il sorriso di mondo: «Un'agente immobiliare!». Santo Dio. Chi diavolo invita mai un'agente immobiliare a pranzo?!

Come se gli avesse letto nel cervello, Maria disse: «Tu sei in ritardo con i tempi, Sherman. Gli agenti immobiliari sono molto in voga oggi. Lei va dappertutto insieme a quella vecchia faccia rossa, laggiù. Lord Gutt». Accennò all'altro tavolo.

«Quel tipo grasso con l'accento inglese?»

«Sì.»

«Chi è?»

«Un banchiere o qualcosa di simile.»

Il sorriso di mondo: «Ti devo dire una cosa, Maria, ma… Non voglio che tu t'innervosisca troppo. Mia moglie è seduta all'altro tavolo, proprio davanti a noi. Perciò cerca di rimanere tranquilla».

«Oh oh oh, certo, signor McCoy, tesoruccio.»

Sempre con il sorriso mondano sul muso Sherman le raccontò in breve del suo scontro con i due poliziotti.

Proprio come temeva. Maria perse la padronanza di sé. Scosse la testa e si accigliò. «Ma, perché non gli hai fatto vedere quella macchina fottuta, Sherman? Non mi hai detto che era a posto?»

Il sorriso di mondo: «Ehi! Calmati! Mia moglie potrebbe guardarci. Non mi sono preoccupato per l'auto. Ma non volevo che parlassero con l'uomo dell'autorimessa. Poteva essere lo stesso che era in servizio quella notte, quando ho riportato la macchina».

«Gesù, Gesù. Sherman! Mi dici di stare calma, e tu sei così poco calmo e freddo. Sei proprio sicuro di non aver detto niente a quelli là?»

Il sorriso di mondo: «Sì, ne sono sicuro».

«Per l'amor di Dio, togliti quello stupido ghigno dalla faccia. In fondo ti è permesso avere una conversazione seria con una ragazza a un pranzo anche se tua moglie sta guardando. Tanto per cominciare, non capisco perché tu hai accettato di parlare con la schifosissima polizia.»

«In quel momento mi è parsa la cosa giusta da fare.»

«lo te l'avevo detto che non eri tagliato per quel tipo di cose.»

Riassumendo il sorriso di mondo, Sherman dette un'occhiata a Judy. Era occupatissima a sorridere al barone Hochswald, dal volto d'indiano. Tornò a volgersi verso Maria, sempre sorridendo.

«Oh, per l'amor di Dio!» disse Maria.

Lui cancellò il sorriso. «Quando ti posso parlare? Quando ti posso vedere?»

«Chiamami domani sera.»

«Okay. Domani sera. Lascia che ti chieda una cosa. Hai sentito qualcuno parlare dell'articolo sul "City Light"? Qui, stasera?»

Maria cominciò a ridere. Sherman ne fu lieto. Se Judy stava guardando le sarebbe parso che loro due chiacchierassero piacevolmente. «Dici sul serio?» disse Maria. «L'unica cosa che legge questa gente è la rubrica sua.-» Fece un gesto indicando una donna grossa dall'altra parte del tavolo, una donna di una certa età con una massa insolente di capelli biondi e ciglia false così lunghe e fitte che quasi non riusciva a sollevare le palpebre.

Il sorriso di mondo: «Chi è?».

«E L'Ombra.»

Il cuore di Sherman ebbe un sobbalzo. «Stai scherzando! Come si fa a invitare una giornalista pettegola a cena?»

«Ma sì. Non aver paura. Non s'interessa a te. E neppure a incidenti d'automobile nel Bronx. Se sparassi ad Arthur, be', questo sì che la interesserebbe. E io sarei lieta di favorirla.»

Maria si lanciò in una filippica contro il marito. Lui era roso da gelosie e risentimenti. Le stava rendendo la vita infernale. Continuava a chiamarla puttana. Il volto di Maria era sempre più stravolto. Sherman si allarmò. Forse Judy li stava guardando! Avrebbe voluto ritornare al sorriso di mondo, ma come farlo di fronte a tutti quei lamenti? «Voglio dire, se ne va in giro per la casa chiamandomi puttana: "Ehi, puttana. Ehi, puttana!". E lo fa davanti alla servitù. Come credi che mi senta io? Se mi chiama ancora così, ti assicuro che gli do una botta in testa con qualcosa di molto duro. Lo giuro davanti a Dio!»

Con la coda dell'occhio Sherman vide il viso di Judy rivolto verso loro due. Oh, Cristo! E lui non aveva neppure il sorriso in azione! Lo recuperò in gran fretta, se lo piazzò sulla faccia e disse a Maria: «Ma è tremendo! Quell'uomo sembra senile, decrepito!».

Maria fissò la sua accattivante espressione mondana per un attimo, poi scosse la testa: «Va' al diavolo, Sherman. Tu sei peggio di lui».

Sorpreso, Sherman conservò il sorriso e si lasciò sommergere dal rumore dell'alveare. Quale estasi ovunque! Quali occhi raggianti e che sorrisi inossidabili! Quanti denti smaglianti! Hack hack hack hack hack hack hack, la risata di Inez Bavardage si levò nel trionfo mondano. Ha ha ha ha ha ha ha ha ha, il raglio da cortile del Montanaro d'oro si levò in risposta. Sherman buttò giù un altro bicchiere di vino.

Il dessert era un soufflé di albicocche, preparato singolarmente per ognuno dei convitati, in una piccola terrina di robusta terracotta di tipo normanno, con bordi au rustaud decorati a mano vicino all'orlo. I dessert ricchi erano di nuovo di moda in questa stagione. Il dessert che faceva notare come si fosse edotti di calorie e colesterolo - le bacche, i chicchi, le palline di melone e gli innumerevoli sorbetti - era divenuto un pochino Middle America. Inoltre, essere in grado di servire ventiquattro soufflé singoli era un tour de force. Sottintendeva una grande cucina e un bel personale di servizio.

Dopo che il tour de force ebbe fatto il suo corso, Leon Bavardage si alzò e dette alcuni leggeri colpetti al suo bicchiere - un bicchiere di sauterne d'una tinta rosa dorata: vini forti da dessert erano pure cornine il faut in questa stagione - e gli fu risposto con gioiose percussioni da ubriachi dalla gente che picchiettava sui propri bicchieri da vino a tutte due i tavoli con grandi risate. Ha ha ha ha, la risata di Bobby Shaflett rimbombò. Tempestava colpi sul suo bicchiere con grande gusto. Le labbra rosse di Leon Bavardage si distesero per tutto il viso, e gli occhi gli si incresparono, felici, come se il fatto di picchiettare la cristalleria fosse un grande tributo alla gioia provata in casa sua dalle celebrità lì radunate.

«Siete tutti quanti amici così cari e speciali di Inez e miei che non abbiamo bisogno di un'occasione speciale per volervi avere tutti attorno a noi nella nostra casa» disse con la parlata lenta e strascicata, vagamente femminile, della Costa del Golfo. Poi si volse all'altro tavolo dove stava Bobby Shaflett. «A volte chiediamo a Bobby di venire qui soltanto perché si possa ascoltare la sua risata. La risata di Bobby è musica, per quel che mi riguarda… e poi, non riusciamo mai a farlo cantare davvero per noi, perfino quando Inez si mette al piano!»

Hack hack hack hack hack hack hack hack, fece Inez Bavardage. Ha ha ha ha ha ha ha ha ha, il Montanaro d'oro la sommerse con una risata delle sue. Questa fu davvero una risata eccezionale. Ha ha haa haaa haaaa haaaaa haaaaaaa, continuava a montare, a montare, a montare, e poi prese a scendere in un modo curioso, altamente stilizzato, per poi finire in un singhiozzo. La sala ammutolì - un silenzio assoluto -, poiché in quel momento i convitati, o almeno la maggior parte di essi, si resero conto di aver appena sentito il famoso singhiozzo ridente dell'aria "Vesti la giubba" dai Pagliacci.

Un applauso fragoroso da entrambi i tavoli, sorrisi radiosi, risate e grida di "Bis! Bis! Bis!".

«Oh, noo!» esclamò il famoso gigante biondo. «Canto soltanto per la mia cena, e per la cena basta quello che ho fatto! Il mio soufflé non era abbastanza grosso, Leon!»

Risate omeriche, altri applausi. Leon Bavardage foce un gesto languido a uno dei camerieri messicani. «Ancora un po' di soufflé per il signor Shaflett!» ordinò. «Fallo nella vasca!» Il cameriere si voltò con uno sguardo di pietra.

Sorridendo, gli occhi luccicanti, travolto da un duetto di tale spirito Rale Brigham urlò: «Soufflé di contrabbando!». Era così debole la battuta che, notò con piacere Sherman, tutti la ignorarono, perfino la signora Rawthrote dagli occhi miopi e radianti.

«Ma questa è un'occasione speciale, eccezionale anzi, in ogni caso» proseguì Leon Bavardage, «poiché abbiamo un amico eccezionalissimo come nostro ospite, durante la sua visita negli Stati Uniti: Aubrey Bulling.» Sorrise raggiante al grand'uomo, che volse il suo viso spettrale verso Leon Bavardage con un sorrisino tirato e diffidente. «L'anno scorso il nostro amico Jacques Prudhomme» sorrise al ministro francese della Cultura, alla sua destra «disse a Inez e a me che da fonte autorevole… spero di non dire cose inopportune, Jacques?»

«Lo spero anch'io» lo interruppe il ministro della Cultura in tono di voce grave e scrollando esageratamente le spalle,per ottenere effetti umoristici. Risate d'apprezzamento.

«Be', tu dicesti davvero a Inez e a me di aver saputo da fonte autorevole che Aubrey aveva vinto il Nobel. Mi spiace, Jacques, ma i tuoi servizi segreti a Stoccolma non sono tanto efficaci.»

Un'altra scrollata di spalle, un altro scampolo della elegante voce sepolcrale: «Per fortuna, non abbiamo in programma una guerra con la Svezia». Grandi risate. «Ma Aubrey ci è andato vicinissimo, comunque» disse Leon, avvicinando pollice e indice fino a toccarsi, se il prossimo anno potrebbe essere il suo anno.» Il sorrisetto tirato del vecchio inglese non si modificò. «Ma, naturalmente, non importa veramente, poiché quel che significa Aubrey per la nostra… la nostra cultura… va al di là dei premi, e io so che quel che Aubrey significa per Inez e me come amico! Be', va molto al di là dei premi e della cultura e…» si arrestò per cercare il modo di concludere la sua concione, e poi disse: «… E di ogni altra cosa. In ogni caso, voglio proporre un brindisi a Aubrey, con i nostri migliori auguri per la sua visita in America!».

«Si è appena assicurato un altro mese come ospite fisso!» disse la signora Rawthrote in un a parte a Rale Brigham.

Leon alzò il calice di sauterne: «A lord Buffing!».

Calici alzati, applausi, udite-udite all'inglese.

L'inglese si alzò lentamente in piedi. Aveva un aspetto terribilmente sparuto e smunto. Il naso pareva lungo un chilometro. Non era alto, eppure in qualche modo il suo cranio calvo lo faceva sembrare imponente.

«Sei troppo gentile, Leon» disse, guardando Leon e poi abbassando gli occhi in segno di modestia. «Come ben sapete, a chiunque abbia qualche dimestichezza con il premio Nobel si consiglia di comportarsi come se ne ignorasse l'esistenza, e comunque io sono davvero troppo vecchio per preoccuparmene. E così sono certo di non sapere di che cosa stai parlando.» Una risatina incerta. «Ma non posso fare a meno di apprezzare la meravigliosa amicizia e ospitalità tua e di Inez, e grazie a Dio non devo fingere di trovarmi in circostanze diverse.» Le litoti si erano ora moltiplicate a tal punto da sconcertare la compagnia. Ma la folla mormorò il proprio incoraggiamento.

«Tant'è vero» proseguì, «che io, per esempio, dovrei essere felice di cantare per la mia cena…»

«Vorrei vedere!» bisbigliò la signora Rawthrote.

«… ma non vedo chi avrebbe il coraggio di farlo dopo la notevole citazione della disperazione di Canio nei Pagliacci fatta dal signor Shaflett.»

Come sanno fare solo gli inglesi, pronunciò "signor Shaflett" con intonazione maliziosa, per far risaltare il ridicolo insito nel dare il titolo dignitoso di signore a quel rustico buffone.

All'improvviso si fermò, sollevò la testa e guardò davanti a sé, come se lanciasse lo sguardo al di là dei muri del palazzo, sulla metropoli tutta. Rise seccamente.

«Perdonatemi. Di colpo ho sentito il suono della mia voce, e mi sono reso conto di avere ora quel tipo di voce inglese che, se l'avessi sentita mezzo secolo fa, quando ero un giovane, giovane e deliziosamente impulsivo, per quel che ricordo, mi avrebbe spinto a lasciare la sala.»

La gente si scambiò occhiate a vicenda.

«Ma so che voi non ve ne andrete» continuò Buffing. «È stato sempre meraviglioso essere inglese negli Stati Uniti. Forse lord Gutt non sarà d'accordo con me.» Disse lord Gutt con un latrato così gutturale che parve dire lord Stronzo. «Non ne sono sicuro. La prima volta che venni negli Stati Uniti, da giovane, prima della seconda guerra mondiale, quando le persone sentivano la mia voce e dicevano: "Ah, lei è inglese!", trovavo sempre il sistema di cavarmela e di fare in modo che restassero impressionate. Ai giorni nostri, quando vengo negli Stati Uniti, e le persone sentono la mia voce, dicono: "Ah, lei è inglese… poveraccio!". Eppure, comunque, me la cavo sempre benissimo, poiché i vostri compatrioti non mancano mai di aver compassione di noi.»

Molte risate d'apprezzamento e sollievo. Il vecchio stava lavorando sulla vena più lieve. Fece un'altra pausa, come se stesse decidendo se andare avanti o no. La conclusione fu evidentemente positiva.

«Perché non abbia mai scritto una poesia sugli Stati Uniti, davvero non so. No! Questo lo ritiro. Lo so, naturalmente. Ho vissuto in un secolo in cui dai poeti non ci si aspetta che scrivano poesie su una cosa, almeno non su una cosa cui si possano dare nomi geografici. Eppure gli Stati Uniti meritano una poesia epica. In vari momenti della mia camera ho pensato di scrivere un poema epico, ma non l'ho fatto. Ai poeti non si chiede più di scrivere poemi epici, a dispetto del fatto che sono sopravvissuti e sopravviveranno soltanto i poeti che hanno scritto poemi epici. Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, Milton, Spenser… mentre chissà se il signor Eliot o il signor Rimbaud» pronunciò quei nomi con lo stesso tono con cui aveva detto il signor Shaflett «saranno ancora nella rosa dei grandi, anche soltanto tra venticinque anni? Temo, invece, che saranno nell'ombra, nelle note a piè di pagina, nella selva di ibidem, insieme a Aubrey Buffing e a una quantità di altri poeti di cui ho pensato mirabilia di tanto in tanto. No, noi poeti non abbiamo più neppure la vitalità necessaria per scrivere poesia epica. E neppure abbiamo più il coraggio di fare rime, e la poesia epica americana dovrebbe essere in rima: rima dopo rima in una cascata coraggiosa, senza vergogna, del genere di quella che ci ha regalato Edgar Allan Poe. Sì! Poe che visse i suoi ultimi anni poco più a nord di qui, in un quartiere di New York chiamato il Bronx, in una villetta con dei lillà e un albero di ciliegio, e una moglie morente di tubercolosi. Lui era, ovviamente, un ubriacone, forse uno psicopatico: ma la sua era sicuramente la pazzia del visionario profetico. Scrisse un racconto che ci dice tutto quel che dobbiamo sapere sul momento in cui viviamo adesso: La maschera della morte rossa. Un flagello misterioso, un'epidemia, la Morte Rossa, sconvolge il paese. Il principe Prospero - Prospero - perfino il nome è perfetto - il principe Prospero raduna tutta la gente migliore nel suo castello e ci stiva due anni di provviste di cibo e bevande, chiude le porte al mondo esterno, contro la virulenza di tutte le anime inferiori e dà inizio a un ballo mascherato destinato a durare finché l'epidemia non si sia consumata da sola, oltre le mura. La festa non ha limiti né soste, si svolge in sette saloni grandiosi, in ognuno di questi la baldoria è più intensa che nel precedente, e i festaioli vengono sospinti in avanti, sempre di più, verso la settima stanza, che è arredata interamente in nero. Una notte, in quest'ultima stanza, compare un ospite che indossa il costume più ingegnoso e più spaventosamente bello che la brigata di stupende maschere abbia mai visto. L'ospite è vestito da Morte, ma in modo tanto convincente che Prospero si sente oltraggiato e ordina che venga espulso. Nessuno osa toccarlo, cosicché il compito è lasciato allo stesso principe, e nel momento in cui egli tocca lo spettrale sudario, cade a terra morto, poiché la Morte Rossa è penetrata nella casa di Prospero… Prospero, amici miei! La parte più significativa del racconto sta nel l'atto che, in qualche modo, gli ospiti sanno da sempre che cosa li aspetta in quella stanza, eppure sono attirati irresistibilmente verso di essa, in quanto l'eccitazione è intensa, il piacere così sfrenato, abiti cibo e bevande e gioie della carne così splendidi! ed è tutto quello che hanno. Famiglie, case, figli, la grande catena dell'essere, l'eterna marea dei cromosomi ormai non hanno più alcun significato per loro. Sono avvinti assieme, e piroettano e turbinano senza sosta, particelle di un atomo condannato: che altro potrebbe essere la Morte Rossa se non una sorta di eccitazione finale, il nec plus ultra? Poe è stato così gentile da scrivere per noi la conclusione più di cent'anni fa. Conoscendola, chi potrebbe mai scrivere su tutti i passaggi solari, divertenti, che dovrebbero venire prima? Non io, non io. Il malessere… la nausea… lo spietato dolore… sono cessati con la febbre che ha fatto impazzire il mio cervello… con la febbre chiamata "vivere" che ha bruciato dentro il mio cervello. La febbre chiamata "vivere"… queste furono tra le ultime parole che scrisse. No! Io non posso essere il poeta epico che vi meritate. Sono troppo vecchio e troppo, troppo stanco, spossato dalla febbre chiamata "vivere", e io valuto troppo la vostra compagnia, la vostra compagnia e il turbinare, il turbinare, il turbinare. Grazie, Leon. Grazie, Inez.»

E con questo lo spettrale inglese tornò lentamente a sedersi.

L'intruso più temuto dai Bavardage, il silenzio, ora dominava la sala. I commensali si guardarono l'un l'altro, imbarazzati, per tre motivi. Erano imbarazzati per il vecchio che aveva commesso la gaffe di insinuare una nota di tristezza nella serata dai Bavardage. Erano imbarazzati poiché sentivano il bisogno di esprimere la loro cinica indifferenza alla sua gravità, ma non sapevano come farlo. Potevano osare di ridacchiargli in faccia? Dopotutto lui era lord Buffing, della rosa ristretta del premio Nobel, ospite privilegiato dei loro anfitrioni. Infine erano imbarazzati perché c'era pur sempre la possibilità che il vecchio avesse detto qualcosa di profondo che loro non avevano afferrato. Sally Rawthrote alzò gli occhi al cielo, fece una smorfia sfottente e si guardò intorno per vedere se qualcuno seguiva il suo esempio. Lord Gutt stese un sorriso scoraggiato sul suo faccione e lanciò un'occhiata a Bobby Shaflett, che a sua volta guardava Inez Bavardage per averne qualche segnale. Lei non ne lanciò alcuno. Fissava il vuoto, senza parole. Judy sorrideva in un modo che a Sherman parve totalmente sciocco, come se stesse pensando a una cosa molto gradevole espressa poco prima dall'illustre gentiluomo venuto dalla Gran Bretagna.

Inez Bavardage si alzò e disse: «Ci porteranno il caffè nell'altra sala».

Gradualmente, senza molta convinzione, l'alveare ritornò a ronzare.

Durante il tragitto di ritorno, il tragitto lungo sei isolati, al costo di centoventitré dollari e venticinque centesimi, ossia la metà dei duecentoquarantasei dollari e mezzo pagati per l'auto della Mayfair Town Car, Inc. e per l'autista dai capelli bianchi al volante, Judy ciarlò tutto il tempo. Traboccava. Sherman non l'aveva vista così animata da più di due settimane, dalla sera in cui l'aveva colto in flagrante telephone con Maria. Questa sera, ovviamente, non aveva scoperto un bel niente su Maria; neppure sapeva che la bella ragazza seduta vicino a suo marito si chiamava Maria. No, era davvero su di giri. Era inebriata non dall'alcol - l'alcol ingrassa - ma dalla Società.

Con un tocco di finto divertito distacco, si mise a gorgogliare sull'acume con il quale Inez aveva scelto le sue celebrità: tre titolati (il barone Hochswald, lord Gutt e lord Buffing), un politico di rango con un'impronta cosmopolita (Jacques Prudhomme), quattro giganti delle arti e delle lettere (Bobby Shaflett, Nunnally Voyd, Boris Korolev e lord Buffing), due designer (Ronald Vine e Barbara Comaglia), tre VIF… «VIF?» domandò Sherman. «Very Important Finocchi» disse Judy, «li chiamano tutti così.» L'unico nome colto da Sherman fu quello dell'inglese seduto alla destra di lei: St. John Thomas, e dei tre titani del mondo degli affari (Hochswald, Rale Brigham e Arthur Ruskin). Poi continuò a parlare di Ruskin. La donna alla sinistra di lui, madame Prudhomme, non voleva parlargli, e la donna alla destra, la moglie di Rale Brigham, non era affatto interessata, e così Ruskin si era sporto in avanti e aveva cominciato a dire al barone Hochswald del suo servizio di aerei charter nel Medio Oriente. «Sherman, hai un'idea di come faccia i soldi quell'uomo? Porta arabi alla Mecca in aeroplano, dei 747, a decine di migliaia!… e lui è ebreo!»

Era la prima volta che gli forniva una buona razione di chiacchiere nella vena solare del passato, da tempo immemorabile. Ma lui non era nella disposizione giusta per interessarsi alla vita e alle opere di Arthur Ruskin. Riusciva a pensare soltanto al cadaverico inglese, Aubrey Buffing.

E poi Judy disse: «Cosa diavolo gli è preso a lord Buffing, secondo te? È stata una cosa così… così mortificante».

Mortificante, come no, pensò Sherman. Fu sul punto di dirle che Buffing stava morendo di Aids, ma era ormai al di là anche delle piccole gioie del pettegolezzo.

«Non ne ho idea» disse.

Ma, naturalmente, l'aveva. Sapeva benissimo. Quella voce inglese manierata, spettrale era stata la voce di un oracolo. Aubrey Buffing aveva parlato direttamente a lui, come se fosse stato un medium inviato da Dio in persona. Edgar Allan Poe! Poe! La rovina dei dissoluti! Nel Bronx… nel Bronx! Il turbinare senza senso, la carne scatenata, l'oblio della casa e del focolare! E, in attesa, nell'ultima sala, la Morte Rossa.

Eddie tenne aperta la porta per loro mentre si spostavano dalla berlina della Mayfair Town Car all'ingresso. Judy zirlò: «Salve, Eddie!». Sherman lo guardò appena e non disse una parola. Era stordito. Oltre a essere attanagliato dalla paura, aveva bevuto troppo. Gli occhi dardeggiarono qua e là per l'atrio. La Strada dei Sogni! Si aspettava quasi di vedere il sudario.