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Io non so mentire

Sherman si svegliò da un sogno che non riuscì a ricordare, con il cuore che batteva impazzito nella cassa toracica. Era l'ora del bevitore, quell'ora nel cuore della notte quando bevitori e persone insonni si svegliano e sanno che la parvenza di sonno è finita. Resistette alla tentazione di guardare l'orologio illuminato della radio sul tavolino accanto al letto. Non voleva sapere quante ore avrebbe dovuto ancora giacere nel letto a lottare con quell'estraneo, il suo cuore, che moriva dalla voglia di fuggire in un lontano lontano lontano lontano lontano Canada. Le finestre erano aperte su Park Avenue e la strada laterale. Tra i davanzali e la parte più bassa degli avvolgibili c'era una striscia di oscurità violacea. Sentì un'automobile, un'automobile solitaria, che ripartiva a un semaforo. Poi sentì un aeroplano. Non un jet, ma un aereo a elica. Il motore si fermò. Stava per abbattersi al suolo. Poi lo sentì di nuovo, ronzante e gemente in alto, sopra New York City. Davvero molto strano nel cuore della notte. Sua moglie dormiva, a meno di mezzo metro, dall'altra parte del Muro di Berlino, respirando con regolarità, ignara di tutto. Stava nella sua parte del letto, gli dava le spalle, le ginocchia erano piegate e ritratte. Come sarebbe stato gradevole avvicinarsi a lei, infilare le sue ginocchia tra quelle di lei e premere il petto contro la schiena di Judy. Una volta era capace di farlo, una volta, quando erano così intimi, lo potevano fare senza neppure svegliarsi a vicenda, nel cuore della notte.

Non poteva essere vero! Non era possibile che irrompessero attraverso queste pareti per invadere la sua vita! Il ragazzo alto e magro, i giornali, la polizia… all'ora del bevitore.

La sua adorata figlioletta dormiva in fondo al corridoio. Cara Campbell. Una ragazzina felice, ignara! Un velo umido gli si formò davanti agli occhi spalancati.

Fissò il soffitto cercando un qualunque mezzo per riprendere sonno. Cercò di pensare ad altro. A quella ragazza che tempo addietro aveva incontrato nella sala da pranzo dell'albergo di Cleveland e al modo professionale con cui si era spogliata davanti a lui. Così diversa da Maria! E che poi, aveva fatto di tutto, tutta piena di… libidine! Quella stessa libidine che lo aveva trascinato nelle viscere del Bronx. Il ragazzo alto e magro… La sua caduta!

Non poteva, nella sua mente, esserci posto per della/ira! Tutto lo riportava alla tragedia. E lui se ne stava lì, sdraiato, con tutti quei pensieri che gli affioravano alla mente e si trasformavano in visioni agghiaccianti! Facce spettrali su uno schermo televisivo. La faccia desolata di Arnold Parch e l'agghiacciante tentativo di severità! La voce evasiva di Bernard Levy. Lo sguardo di Muriel, come se sapesse che lui, ora, aveva impresso addosso un terribile marchio infamante e non era più un campione olimpionico della Pierce & Pierce. Emorragia di denaro! Ma certo, questi erano tutti sogni! Gli occhi spalancati, fissava l'oscurità violacea là dove gli avvolgibili si fermavano appena sopra il davanzale, nel cuore della notte, nel terrore di veder sopraggiungere la luce dell'alba.

Si alzò presto, accompagnò Campbell alla fermata dell'autobus, comperò i giornali in Lexington Avenue e prese un taxi fino alla Pierce & Pierce. Sul «Times»… niente. Sul «Post»… niente. Sul «Daily News» soltanto una foto e una didascalia. La fotografia mostrava i picchetti e la folla. Un cartello in primo piano diceva LA GIUSTIZIA DI WEISS È BIANCA. Tra due ore sarebbe stato in edicola «The City Light».

Alla Pierce & Pierce era una giornata tranquilla, almeno per lui. Fece le sue telefonate di routine ai vari clienti: Prudential, Morgan Guaranty, Allen & Company… «The City Light». Felix era dall'altra parte della sala. Anche solo tentare di servirsi ancora di lui sarebbe stato troppo avvilente. Neanche una parola da Arnold Parch o dagli altri. Mi stanno escludendo?… «The City Light»… Decise di telefonare a Freddy perché si procurasse il giornale: Freddy glielo poteva leggere. Telefonò a Freddy, ma l'avvocato era fuori ufficio, si era recato a un appuntamento. Telefonò a Maria: non la trovò in alcun posto. «The City Light.» Non ce la faceva più. Decise di scendere lui stesso a comprare il giornale e di leggerlo di sotto nel vasto androne dell'ingresso, per poi tornarsene in ufficio. Aveva letteralmente bruciato milioni - milioni! - in quelle obbligazioni garantite dall'oro. Come poteva un'ulteriore trasgressione peggiorare la sua situazione? Con la più fredda compostezza possibile, prese ad attraversare la sala delle contrattazioni in direzione degli ascensori. Nessuno parve notarlo. (Tutti se ne fregano ormai!)

Di sotto, all'edicola dell'atrio, si guardò a destra e a sinistra, poi comprò «The City Light». Andò a sistemarsi dietro una massiccia colonna di marmo rosa. Il cuore gli batteva selvaggiamente. Com'era squallida e strana questa sensazione di vivere ogni giorno nella paura propria, personale, dei giornali di New York! Niente in prima pagina, niente a pagina due né a pagina tre; a pagina cinque c'erano una fotografia e un articolo di quel tale, Peter Fallow. La foto mostrava l'esile donna di colore che piangeva, mentre l'uomo alto in completo scuro la confortava. Bacon. Sullo sfondo: i dimostranti. Il pezzo non era lungo. Lo lesse di corsa: "La rabbia della comunità"… "automobile di lusso"… "il guidatore bianco"… Nessuna precisazione su quel che stava facendo la polizia. Alla fine dell'articolo, in un riquadro, stava scritto il rinvio: "L'editoriale a pagina 36". Il cuore gli riprese a correre all'impazzata. Le dita tremavano mentre cercavano di arrivare frusciando a pagina trentasei. E là, in testa all'editoriale, il titolo GIUSTIZIA O GIUSTIZIA NO?

Lunedì su «The City Light» Peter Fallow ha rivelato la storia tragica di Henry Lamb, lo studente modello del Bronx ferito molto gravemente in uno dei tanti episodi di pirateria della strada, e poi abbandonato come un qualsiasi mucchio di rifiuti in una città ingombra di immondizie.

Certo, da un punto di vista legale, il caso di Henry Lamb non è facile. Ma neppure il ragazzo ha avuto una vita facile. È riuscito a sopravvivere agli aspetti peggiori che la vita in un complesso di case popolari presenta a un adolescente - compreso l'assassinio di suo padre per mano di un rapinatore - e a conseguire brillanti risultati alla scuola superiore Ruppert. Ma è stato abbattuto sulla soglia di un brillante futuro.

La nostra compassione non è sufficiente per Henry Lamb e le tante altre brave persone decise a superare le situazioni sfavorevoli presenti nelle zone meno privilegiate della nostra città. Essi hanno bisogno di sapere che le loro speranze e i loro sogni sono importanti per il futuro di tutta New York. Esigiamo un'indagine seria, approfondita, implacabile, su ogni risvolto del caso Lamb.

Era sconvolto. L'articolo stava assumendo i toni di una crociata. Fissò il giornale. Lo doveva conservare? No, meglio che non glielo vedessero in mano. Cercò un cestino per i rifiuti o una panca. Niente. Chiuse il giornale, lo ripiegò in due e lo lasciò cadere sul pavimento dietro la colonna, poi si affrettò a raggiungere gli ascensori.

Fece colazione in ufficio: un panino e un succo di arancia, nel tentativo di sembrare diligente. Era nervoso e insieme mortalmente stanco. Non riuscì neppure a finire il panino. Nel primo pomeriggio fu preso da un prepotente desiderio di chiudere gli occhi. Sentiva la testa così pesante! Il principio di una forte emicrania gli stringeva la fronte. Si chiese se aveva preso un'influenza. Avrebbe dovuto telefonare a Freddy Button. Ma era così stanco. In quel momento arrivò una telefonata. Era Freddy che lo chiamava.

«Strano. Stavo pensando di chiamarti io. Oggi c'è un editoriale fottuto, Freddy.»

«Lo so. L'ho letto.»

«L'hai letto?»

«Ho letto tutti e quattro i giornali. Mi sono preso la libertà di telefonare a Tommy Killian. Perché non vai a trovarlo? Sta in Reade Street. Non è lontano da te, è vicino a City Hall. Dagli un colpo di telefono.» Con la sua voce cavernosa da fumatore gli dettò un numero di telefono.

«Immagino che tutta la faccenda si presenti piuttosto seria.»

«Non è questo. Non c'è nulla in quello che ho letto che abbia una vera consistenza. È che sta assumendo sempre più un aspetto politico, e Tommy avrà certo la soluzione adatta per una simile evenienza.»

«Okay! Grazie, Freddy. Lo chiamerò.»

Un irlandese di Reade Street che si chiama Tommy Killian.

Non gli telefonò. Aveva un mal di testa tale che chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie con le punte delle dita. Alle cinque in punto, fine ufficiale della giornata di lavoro, se ne andò. Era una mossa sbagliata. La fine della giornata di scambi era il principio della seconda parte del giorno per un Padrone dell'Universo.

La fine della giornata di contrattazioni era come la fine di una battaglia. Dopo le cinque i Padroni dell'Universo si prendevano cura di tutti quei dettagli operativi che la gente degli altri settori lavorativi passava tutto il giorno a fare. Facevano il conto del "netto del netto", ossia dell'autentico profitto o perdita della giornata di lavoro. Ricontrollavano i mercati, rivedevano le strategie, discutevano i problemi personali, andavano alla ricerca di nuove emissioni, leggevano la stampa finanziaria, un'attività severamente proibita durante la battaglia quotidiana. Si raccontavano episodi di guerra, si percuotevano il petto e lanciavano grida di esultanza quando se l'erano meritato. Una sola cosa non si faceva mai: andarsene a casa dalla moglie e dai figli.

Sherman fece chiamare un'auto da Muriel. La studiò in viso per scoprire un segno della sua caduta dallo stato di grazia. Il vuoto.

Davanti al palazzo la strada era piena di auto a nolo in quattro o cinque file e di bianchi in abiti da ufficio che si facevano strada in mezzo alle auto, a testa bassa, sbirciando a destra e a sinistra in cerca del proprio numero. Il nome del servizio automobilistico e il numero della vettura erano sempre in mostra su un finestrino laterale. La Pierce & Pierce si serviva sempre di una certa società Tango. Tutte berline Oldsmobile e Buick. La Pierce & Pierce ordinava da trecento a quattrocento corse al giorno alla media di quindici dollari ciascuna. Qualche furbone alla Tango, chiunque fosse il proprietario, si faceva pulito pulito un milione di dollari l'anno soltanto con la Pierce & Pierce. Sherman stava cercando Tango 278. Vagava in mezzo al mare di berline, di tanto in tanto urtandosi con uomini che gli somigliavano molto, e che, a testa bassa, sbirciando a destra e a sinistra, in abito grigio scuro, si scontravano e, sempre a testa bassa, mormoravano: «Mi scusi»…, «Mi scusi». La nuova ora di punta! Nei vecchi film, l'ora di punta a Wall Street era tutta polarizzata sulla metropolitana. Metropolitana? Là sotto? Con loro? Isoliamoci! E, allora, vagando, vagando tra le berline, sbirciando, sbirciando, mormorando: «Mi scusi», «Mi scusi»… alla fine trovò Tango 278.

Bonita e Lucille furono sorprese quando lo videro entrare nell'appartamento alle cinque e trenta. Non si sentiva abbastanza bene da assumere un tono gradevole e gentile. Judy e Campbell non erano in casa. Judy aveva accompagnato Campbell a una festa di compleanno nel West Side.

Sherman arrancò per la grande scala ellittica. Entrò nella stanza da letto, si tolse la giacca e la cravatta. Senza levarsi le scarpe, si distese sul letto. Chiuse gli occhi. Sentì che la coscienza stava andandosene, stava andandosene. Era insopportabilmente pesante, la coscienza.

Signor McCoy. Signor McCoy.

Bonita gli stava sopra. Non riusciva a capire come mai.

«Io non voglio disturbare» disse lei. «Il portiere, lui dice che di sotto ci sono due uomini della polizia.»

«Che cosa?»

«Il portiere, lui dice…»

«Di sotto?»

«Sì, due della polizia.»

Sherman si sollevò su di un gomito. Le sue gambe erano distese sul letto. Chissà come mai. Doveva essere mattino, ma aveva le scarpe. Bonita lo sovrastava. Si fregò il viso.

«Be', digli che non ci sono.»

«Il portiere, lui ha già detto che lei è qui.»

«Che cosa vogliono?»

«Non lo so, signor McCoy.»

Un fievole chiarore, smorzato. Era l'alba? Lui era in stato ipnagogico. Si sentiva come se i suoi percorsi neurali fossero bloccati. Nessun riferimento, nessun modello. Bonita. La polizia. Il panico lo afferrò ancora prima che potesse metterne a fuoco le ragioni.

«Che ore sono?»

«Le sei.»

Si guardò di nuovo le gambe. Dovevano essere le sei di sera. Era venuto a casa alle cinque e mezzo. Si era addormentato. Era ancora steso sul letto. Davanti a lui c'era Bonita. Un senso di decoro, più di ogni altra cosa, gli fece togliere le gambe dal letto e sedere sul bordo. «Cosa gli dico, signor McCoy?» Doveva alludere al portiere. Non era in grado di decidere su due piedi. Erano di sotto. Due poliziotti. Stava seduto sul bordo del letto, tentando di uscire dal torpore. C'erano due poliziotti di sotto con il portiere. Che cosa doveva dire?

«Digli… che devono aspettare un momento, Bonita.» Si alzò e si avviò verso il bagno. Stordito, rigido; la testa gli faceva male, lo tormentava un ronzio nelle orecchie. La faccia nello specchio del bagno mostrava il nobile mento, ma era grinzosa, stremata, decrepita. La camicia era spiegazzata e fuoriusciva dai pantaloni. Si spruzzò dell'acqua sulla faccia. Una goccia pendeva sulla punta del naso. Si asciugò il viso con un asciugamano. Se almeno fosse stato in grado di riflettere. Ma era bloccato. Una nebbia lo avvolgeva. Se rifiutava di vederli, e loro sapevano che era lì, di sopra, come appunto sapevano, si sarebbero insospettiti, no? Ma se parlava con loro e quelli gli chiedevano… cosa? Cercò di immaginarlo. Non riusciva a concentrarsi. Qualsiasi cosa gli chiedessero: lui non sapeva. No! Non poteva rischiare! Non doveva vederli! Ma che cosa aveva detto a Bonita? «Devono aspettare un momento» come per dire: li vedrò, ma devono aspettare un momento.

«Bonita!» Tornò nella camera da letto, ma lei non c'era più. Uscì nel corridoio. «Bonita!»

«Sono giù, signor McCoy.»

Dalla balconata la vide ai piedi della scala. «Non hai già chiamato il portiere, vero?»

«Sì, ho chiamato. E detto che loro devono aspettare.»

Merda! Voleva dire che doveva vederli. Troppo tardi per svignarsela. Freddy! Chiamare Freddy! Tornò nella stanza da letto, al telefono accanto al letto. Chiamò l'ufficio di Freddy. Nessuna risposta. Fece il numero del centralino della Dunning Sponget e chiese di lui; dopo quella che gli sembrò un'attesa interminabile, gli fu detto che era uscito. Chiamarlo a casa. Che numero aveva? Nell'agenda di sotto, in biblioteca.

Si precipitò giù per le scale, vide che Bonita era sempre nell'ingresso. Non doveva apparire agitato di fronte a lei. Due poliziotti di sotto insieme al portiere. Camminò sul pavimento di marmo con quella che forse poteva passare per un'andatura tranquilla.

Teneva l'agenda sopra uno scaffale dietro alla scrivania. Le dita gli tremavano nello sfogliare le pagine. B. Il telefono non era sulla scrivania. Qualcuno l'aveva lasciato sul tavolinetto vicino alla poltrona alta. Un insulto! Corse attorno alla scrivania fino alla poltrona. Il tempo scorreva. Fece il numero di Freddy. Rispose una donna di servizio. I Button erano fuori a cena. Merda! E adesso? Il tempo scorreva, scorreva. Che cos'avrebbe fatto il Leone? La sua famiglia era di quelle in cui la collaborazione con le autorità scattava automatica. Ci poteva essere soltanto una ragione per non collaborare: avere veramente qualcosa da nascondere. E naturalmente l'avrebbero scoperta subito, la ragione per cui uno non collaborava! Se soltanto…

Uscì dalla biblioteca e tornò nell'ingresso. Bonita era ancora lì. Lo guardò con grande intensità. E questo lo fece decidere. Non voleva apparire troppo spaventato o indeciso di fronte ai servitori. Non voleva avere l'aria di una persona in preda al dubbio.

«E va bene, Bonita.» Cercò di sembrare un uomo già annoiato e che sa di dover perdere dell'altro tempo. «Qual è il portiere di turno stasera? Eddie?»

«Eddie.»

«Digli di farli salire. Falli aspettare qui. Torno subito.»

Salì la scala con grande determinazione. Arrivato nel corridoio superiore, corse nella stanza da letto. Quella che vide nello specchio era una persona molto stanca e devastata. Proiettò il mento verso l'alto. Aiutava. Sì, sarebbe stato forte. Non avrebbe perso la testa, sarebbe stato - si concesse la metafora - un Padrone dell'Universo. Come doveva presentarsi? Doveva rimettersi giacca cravatta? Aveva addosso una camicia bianca, i pantaloni di un abito grigio ferro e un paio di scarpe nere rinforzate in punta. Con giacca e cravatta avrebbe avuto un aspetto terribilmente Wall Street, terribilmente conservatore. Forse si potevano seccare, quei due. Si precipitò nell'altra camera da letto, che era diventata il suo spogliatoio, e prese una giacca di tweed scozzese dall'armadio e se la infilò. Il tempo scorreva, scorreva. Molto più casual, disinvolto: un uomo in casa sua, del tutto rilassato. Ma la morbida giacca di tweed non andava bene con i pantaloni rigidi. Inoltre, una giacca sportiva… sportiva… un giovane debosciato che fa corse pazze in un bolide sportivo! Si tolse la giacca di tweed, la gettò sulla dormeuse e si precipitò di nuovo in camera da letto. Giacca e cravatta erano abbandonate in qualche modo su una sedia imbottita. Si mise la cravatta e rifece il nodo stretto. E il tempo scorreva, scorreva. Si mise la giacca e l'abbottonò. Sollevò il mento e raddrizzò le spalle. Wall Street. Entrò nella stanza da bagno e si spazzolò i capelli, tendendoli all'indietro. Sollevò di nuovo il mento. Sii forte. Un Padrone dell'Universo.

Si precipitò nel corridoio, poi, avvicinandosi alle scale, rallentò. Scese con passo lento e tentò di ricordare di tenersi ben eretto.

Erano al centro del pavimento di marmo: due uomini e Bonita. Che cosa strana! I due uomini stavano con le gambe leggermente divaricate, e Bonita si teneva a qualche metro di distanza, come se quelli fossero il suo piccolo gregge. Il cuore gli batteva a ritmo sostenuto.

Il più alto dei due pareva una grossa bisteccona di carne, calzata e vestita. La giacca dell'abito era tesa dal pancione straripante da lottatore. Aveva una faccia grassa e scura, una faccia mediterranea, secondo il modo di pensare di Sherman. Il suo paio di baffi non si adeguava ai capelli. I baffi si curvavano in giù lungo entrambi i lati delle labbra, in uno stile che a un incaricato alle vendite di obbligazioni della Pierce & Pierce diceva subito: Classe Inferiore. L'uomo fissò Sherman che scendeva la scala, ma l'altro, il più piccolo, no. Indossava una giacca sportiva e pantaloni marrone di una foggia che una moglie avrebbe potuto scegliere per sé. Stava osservando l'ingresso, come un turista… il marmo, la cassapanca in legno di tasso, la seta arancione alle pareti, le sedie Thomas Hope, l'emorragia di decine di migliaia di dollari profuse da Judy in tanti piccoli particolari. L'uomo aveva un grosso naso, ma mento e mascelle erano deboli. Teneva la testa piegata da una parte. Pareva che una forza immensa l'avesse colpito da un lato della testa. Poi volse il suo sguardo strabico verso Sherman. Sherman era consapevole del battito veloce del suo cuore e del rumore fatto dalle sue scarpe nell'attraversare il pavimento di marmo. Tenne sollevato il mento e si costrinse a sorridere in modo amichevole.

«Signori, posso fare qualcosa per voi?» Parlando, aveva guardato il tipo più grosso, ma fu quello piccolo, quello strabico, a rispondergli.

«Il signor McCoy? Sono l'agente investigativo Martin, e questo è l'agente investigativo Goldberg.»

Doveva stringere le mani? Perché no? Tese la mano e il piccolo la strinse, e poi anche il grande. Ma parevano imbarazzati. Non lo fecero con grande energia.

«Stiamo indagando su un incidente automobilistico e conseguente grave danno alla persona. Forse ha letto qualcosa o ha visto la televisione.» Mise una mano nella tasca interna e ne tirò fuori un foglio di carta, ripiegato in due. Lo porse a Sherman. C'era dentro un ritaglio di giornale, il primo articolo del «City Light». La fotografia del ragazzo alto e magro. Alcune righe dell'articolo erano evidenziate in giallo. Bruckner Boulevard. Mercedes-Benz. R. Le sue mani tremavano? Se teneva il foglio a lungo, in modo da leggere tutto il pezzo, avrebbero tremato. Alzò lo sguardo sui due agenti.

«Abbiamo visto qualcosa alla televisione ieri sera, mia moglie e io.» Doveva dire che era stupito? Oppure che coincidenza'? Gli venne in mente, il concetto, con queste parole: Non so mentire. «Abbiamo pensato: Buon Dio, abbiamo una Mercedes, e la taiga comincia per R.» Dette un'altra occhiata al ritaglio e subito lo restituì all'uomo piccolo, Martin.

«Lei e un sacco di altra gente» disse Martin con un sorriso rassicurante. «Stiamo cercando di controllare tutte le automobili.»

«Quante sono?»

«Molte. C'è un sacco di agenti al lavoro. Solo il mio collega e io ne abbiamo una ventina in elenco.»

Bonita era ancora lì, in piedi, osservava tutto, beveva ogni parola.

«Be', entrate pure» disse Sherman a quello di nome Martin. Fece un cenno in dilezione della biblioteca. «Bonita, fammi un favore. Se la signora e Campbell tornano, di' loro che sono occupato con questi signori in biblioteca.»

Bonita annuì e si ritirò in cucina.

In biblioteca, Sherman si andò a porre dietro alla scrivania e invitò gli altri a sedersi nella poltrona più alta e nell'altra poltrona Sheraton. Il più basso, Martin, si guardò attorno a lungo. Sherman prese coscienza in modo drammatico di quanta roba - ovviamente costosa - fosse ammucchiata in quella piccola stanza - la paccottiglia favolosa: i fronzoli, i gingilli… - e quando gli occhi del piccolo investigatore si posarono sul fregio intagliato, vi rimasero incollati. Si voltò verso Sherman con uno sguardo aperto, infantile in viso, come per dire: Mica male! Poi si sedette sulla poltrona e quello grosso, Goldberg, si sedette su quella dallo schienale alto.

«Be', vediamo» disse Martin. «Ci può dire se la sera dell'incidente era fuori in auto?»

«Quando è stato con esattezza?» Ora sono costretto a mentire.

«Martedì, una settimana fa.»

«Non lo so» ammise Sherman. «Dovrei pensarci su.»

«Quante persone usano la sua macchina?»

«Di solito io, qualche volta mia moglie.»

«Non ha figli?»

«Ho una figlia, ma ha solo sei anni.»

«Nessun altro ha accesso alla macchina?»

«No, direi di no, a parte quelli della rimessa.»

«La rimessa?» chiese Martin. «Una rimessa che fa da posteggio?»

«Sì.» Perché diamine aveva accennato all'autorimessa?

«Lascia lì la macchina con le chiavi, e sono loro a sistemarla?»

«Sì.»

«Dov'è l'autorimessa?»

«È qui vicino.» Il cervello di Sherman prese a girare a velocità supersonica. Sospettano gli inservienti! No, è pazzesco. Dan! Ora vedeva il paffuto folletto dalla testa rossa. Quello sarà felicissimo di dire che ho preso l'auto quella sera! Forse non si ricorda o non sa che sera è stata. Ma no! Oh, lo sa, lo sa! Dal modo in cui l'ho fulminato con lo sguardo…

«Non potremmo andar là a dare un'occhiata?»

La bocca di Sherman si era seccata. Sentì le labbra che si contraevano.

«All'auto?»

«Sì.»

«Quando?»

«Prima ce ne andiamo di qui, prima ci arriviamo, direi.»

«Vuol dire adesso? Be', non so…» A Sherman parve che i muscoli delle labbra fossero impediti come da cordoni di una borsa.

«Ci sono certi dettagli che si attagliano a un incidente del genere. Se un'automobile non ha quei requisiti, noi procediamo nella nostra indagine seguendo il nostro elenco. Per ora cerchiamo un'auto. Non abbiamo la descrizione del guidatore. Allora? È d'accordo?»

«Be'! Non saprei!» No! Che la vedano pure! Non c'è niente che possano scoprire! O, forse, c'è qualcosa? Qualcosa che io ignoro, di cui non ho mai sentito parlare! Ma se mi rifiuto, questi due s'insospettiranno! Diciamo di sì! Ma se per caso è di servizio il rosso?!

«Banale routine. Diamo sempre un'occhiata alle macchine.»

«Lo so, ma, ah, se è routine, immagino che dovrei… seguire la routine, che io… è giusto, poiché ho un'automobile in questa situazione.» La bocca gli si stringeva sempre di più. Vide che i due si scambiavano delle occhiate.

Il più basso, Martin, aveva ora un'aria di grande delusione in viso. «Lei vuole collaborare, no?»

«Sì, naturalmente.»

«Be', non è poi una faccenda tanto straordinaria. È routine pura e semplice. Noi le macchine le controlliamo.»

«Lo so, ma se c'è una routine… allora anch'io dovrei fare così: seguire una routine. Mi pare logico, non le pare?»

Sherman era pienamente consapevole di star sciorinando sciocchezze, ma si era attaccato alla parola routine come a un salvagente. Se soltanto fosse stato in grado di controllare i muscoli della bocca…

«Mi spiace, non capisco» disse Martin. «Quale routine?»

«Be', siete stati voi a parlare di routine, in un'indagine su un caso simile. Non so come vanno queste cose, ma ci deve essere una routine per il proprietario di un'automobile che si trovi in questa situazione. Insomma, per caso, ho un'auto di un certo tipo e con una certa targa… con una certa targa… e so che ci dovrebbe essere una certa routine. Un modus operandi: è quel che cerco di dire. Su questo, per quanto mi consta, ho bisogno di riflettere. La routine.»

Martin si alzò in piedi e tornò a osservare il fregio intagliato. Lo sguardo lo seguì per mezza stanza. Poi guardò Sherman con la solita lesta storta, un sorrisetto alle labbra. Impudente! Gelido!

«D'accordo, la routine è… non è affatto complicata. Se vuole collaborare con noi, e non ha niente contro questa collaborazione, allora lei collabora con noi, e così andiamo a dare un'occhiata all'auto e poi ce la filiamo via per la nostra strada. Niente di complicato. Okay? Se non vuole collaborare, se ha qualche ragione per non collaborare, allora non collabori, e noi dovremo usare certi canali, ma l'indagine si farà lo stesso: così scelga pure…»

«Be', è solo che…» Non sapeva come finire la frase.

«Quand'è stata l'ultima volta che ha guidato la macchina, signor McCoy?» Era l'altro, quello grande e grosso, Goldberg, che stava ancora seduto sulla poltrona con lo schienale alto. Per un attimo Sherman fu grato per il cambiamento d'interlocutore.

«Vediamo… Durante il line settimana, direi, a meno che… vediamo, se per caso l'ho presa anche dopo…»

«Quante volte l'ha presa nelle ultime due settimane?»

«Non lo so di preciso… Mi lasci pensare…»

Osservava il grande bisteccone nella poltrona alta, tentando disperatamente d'inventarsi un modo per mentire a quelle domande… e con la coda dell'occhio vide quello piccolo avvicinarsi lungo un fianco della scrivania.

«Di solito quante volte prende la macchina?» chiese Goldberg.

«Dipende.»

«Quante volte alla settimana?»

«Come dico, dipende.»

«Dipende. Ci va al lavoro?»

Sherman fissò il bisteccone con i baffi. C'era qualcosa di volgarmente insolente in questo tipo d'interrogatorio. Era tempo di darci un taglio, di farsi valere. Ma quale tono doveva usare? Quei due erano legali per un filo invisibile a un pericoloso Potere che lui non riusciva ad afferrare. Quale?…

Il più piccolo, Martin, gli era vicinissimo. Dal basso, dalla sua sedia, Sherman alzò lo sguardo su Martin, e Martin abbassò lo sguardo con un'espressione un po' folle sulla faccia. Da principio parve molto triste. Poi fece un sorriso franco e incoraggiante.

«Senta, signor McCoy» disse, sorridendo nonostante la sua tristezza. «Sono sicuro che lei vuole collaborare, e io non voglio vederla aggrapparsi alla routine. Il guaio è che in questo caso dobbiamo andare a fondo, ma davvero, perché la vittima, quel povero Lamb, è in pessime condizioni. Secondo le nostre informazioni più attendibili, è certo che non se la caverà. Così chiediamo a tutti di collaborare, ma non c'è niente che la obbliga a farlo. Se preferisce, può anche non dire niente del tutto. È suo diritto. Capito?»

Nel dire: «Capito?» storse la testa quanto più poté e fece un sorriso d'incredulità che stava a indicare come Sherman avrebbe dovuto essere un cittadino davvero ingrato, e insensibile e rompiscatole per non collaborare.

Poi appoggiò tutt'e due le mani sulla scrivania di Sherman e si chinò in avanti fino a che le braccia non sopportarono il peso della parte alta del corpo. Questo portò la sua faccia più vicina a quella di Sherman, anche se continuava a guardarlo dall'alto in basso.

«Voglio dire che se lo vuole, ha il diritto di chiamare un avvocato» disse.

Pronunciò la parola avvocato come se stesse cercando di valutare una delle scelte più ridicole e pazzesche che un uomo - un uomo inferiore e di gran lunga più equivoco di Sherman McCoy - possa fare. Lo capisce, vero?

Sherman si sorprese ad annuire suo malgrado. Un tremito gelido prese ad attraversargli tutto il corpo.

«A questo proposito, voglio anche aggiungere che se non avesse soldi sufficienti per pagare un avvocato…» e parlava con un sorriso così familiare e con tanto umorismo da far credere che Sherman e lui erano, da anni, amici per la pelle e che avevano l'abitudine di scambiarsi battute del genere «e se volesse un avvocato, lo Stato gliene procurerebbe uno gratis. Questo ovviamente se ha qualche seria ragione per volerne uno.»

Sherman annuì di nuovo. Fissò la faccia dell'uomo inclinata da un lato. Si sentiva incapace di agire o resistere. Il messaggio dell'uomo sembrava essere: "Non ho bisogno di dirti queste cose. Sei un cittadino ricco e influente, e sei al di sopra di queste quisquilie! Ma se non è così… allora devi essere proprio tu quel microbo che noi dobbiamo sterminare".

«Dico solo che abbiamo bisogno della sua collaborazione.»

Poi fece una mezza giravolta e si sedette sul bordo della scrivania guardando intensamente Sherman in faccia. Sta seduto sul bordo della mia scrivania!

L'uomo sorrise con molto calore e chiese in tono suadente: «Be', che ne pensa, signor McCoy? Il mio collega le ha chiesto se va al lavoro in macchina». Sorrideva ancora.

Che sfrontatezza! Quale intimidazione! Sta seduto sul bordo della mia scrivania! Che insolenza da troglodita!

«Be', ci va?» sempre con quel suo solito sorriso storto. «Va al lavoro in macchina?»

Aumentavano insieme paura e risentimento. Ma la paura ebbe il sopravvento. «No… io no.»

«Allora quando la usa?»

«Per il fine settimana o quando è il caso di farlo… di giorno, e, forse ogni tanto, la sera. Cioè, non spesso durante il giorno, salvo quando la usa mia moglie… insomma, cerchi di capire, è difficile dirlo!»

«È possibile che sua moglie l'abbia usata martedì notte una settimana fa?»

«No! Cioè, penso di no.»

«Insomma, potrebbe darsi che lei la usi, ma non se ne ricordi.»

«Non proprio, è piuttosto che… se uso l'auto, non ne prendo nota. Non tengo una specie di diario, non ci penso, insomma, non ci faccio caso.»

«La usa spesso la notte?»

Sherman cercò disperatamente di calcolare la risposta corretta. Se diceva sì, spesso, non diventava più probabile che la guidasse quella notte? Ma se diceva raramente… be', in tal caso avrebbe dovuto sapere con certezza se l'aveva usata o no quella particolare sera, no?

«Non lo so» ammise. «Non moltissimo… ma, direi, abbastanza spesso, in proporzione.»

«Non moltissimo, ma abbastanza spesso in proporzione» ripeté il piccolo investigatore in tono uniforme. Quando giunse a in proporzione, guardò il collega. Si voltò e calò, ancora una volta, lo sguardo su Sherman dal suo trespolo sul bordo della scrivania.

«Torniamo alla macchina. Perché non andiamo a darle una occhiata? Che ne dice?»

«Adesso?»

«Sicuro.»

«Non è il momento adatto.»

«Ha un appuntamento o qualcosa di simile?»

«Sto aspettando… mia moglie.»

«Uscite?»

«Io… ohhhhhhhhhh.» La prima persona singolare degenerò in un lungo sospiro.

«Esce in macchina?» chiese Goldberg. «Potremmo darle un'occhiata. Questione di un secondo.»

Per un attimo Sherman pensò di andare a prendere l'automobile e di fargliela vedere davanti al palazzo. E se non se ne stanno qui seduti ad aspettare? Se per caso gli vengono dietro e parlano con Dan?

«Le ho sentito dire che sua moglie torna presto, vero?» chiese il più piccolo. «Forse è meglio che la aspettiamo e parliamo anche con lei. Forse lei ricorda se qualcuno ha usato la macchina il martedì sera di una settimana fa.»

«Be', lei… non è il momento adatto, signori.»

«Quando è il momento adatto?» chiese il più piccolo.

«Non lo so. Non mi potete dare un po' di tempo per pensarci?»

«Pensare a che cosa? A qual è il momento adatto? O se lei collaborerà?»

«Non è questo il problema… Io… be', sono preoccupato della procedura.»

«La procedura?»

«Il modo di gestirla correttamente.»

«La procedura è la stessa cosa della routine?» L'investigatore lo sbirciò dall'alto con un sorrisetto insultante.

«Procedura… routine… Non ho familiarità con la terminologia. Immagino che alla fine sia la stessa cosa.»

«Anch'io non ho familiarità, signor McCoy, perché non c'è una terminologia del genere; non esiste una simile procedura, non esiste una simile routine. O lei collabora a un'indagine o non collabora. Credevo che volesse collaborare.»

«Sì, ma mi avete ristretto le scelte.»

«Che scelte?»

«Be'… senta. Immagino di dover farlo. Devo… devo parlarne con un avvocato.»

Appena le parole gli furono uscite di bocca, sentì di aver fatto una spaventosa ammissione.

«Come le ho detto» disse il piccolo investigatore, «è un suo diritto. Ma perché vuole parlare con un avvocato? Perché mettersi nei guai e nelle spese?»

«Voglio solo essere certo di procedere…» ebbe subito paura di finire nei pasticci nel pronunciare la forma verbale di procedura, «correttamente.»

Quello grasso, seduto nella poltrona dallo schienale alto, s'intromise. «Mi permetta di farle una domanda, signor McCoy. C'è qualcosa che vorrebbe tirar fuori dall'armadio?»

Sherman si sentì gelare. «Tirar fuori dall'armadio?»

«Perché se c'è…» un sorriso paterno - che insolenza! - «è il momento buono per farlo, prima che le cose, andando avanti, si complichino.»

«Che cosa dovrei tirar fuori dall'armadio?» Il tono avrebbe dovuto suonare fermo e, invece, risultò sconcertato.

«È quello che le chiedo.»

Sherman si alzò e scosse la testa. «Non mi pare che sia il caso di continuare. Adesso devo parlarne…»

Il piccoletto, sempre seduto sulla scrivania, finì la frase per lui: «… con un avvocato».

Il piccoletto scosse la testa come si fa quando un tale a cui si sta dando un consiglio pare determinato a proseguire sulla sua strada dissennata. «È un suo diritto. Ma se nasconde qualcosa di tanto importante da parlarne con un avvocato, sarà molto meglio per lei farla venir fuori subito qui con noi. E poi si sentirà meglio. Qualunque cosa sia, probabilmente non è così grave quanto pensa. Tutti fanno degli errori.»

«Non ho detto che c'era qualcosa d'importante. Non c'è.» Si sentì in trappola. Sto cercando di stare al loro gioco, mentre è proprio quel gioco che dovrei respingere!

«Sicuro?» chiese il grasso con quello che lui riteneva senza dubbio un sorriso paterno in volto e che invece era, in realtà, orribile e osceno. Che impudenza!

Sherman passò accanto al piccoletto sempre seduto sulla scrivania che lo seguì con occhietti minacciosi. Arrivato alla porta, Sherman si girò e li guardò tutti e due.

«Mi spiace» disse, «ma non vedo l'utilità di andare avanti. Penso che non sia il caso di continuare la discussione.»

Alla fine il più piccolo si alzò… finalmente si toglie dalla posizione offensiva sopra la mia scrivania! Scrollò le spalle e guardò quello grasso, che si alzò a sua volta.

«Okay» disse il piccoletto, «ci vedremo con il suo avvocato.» Da come lo disse, pareva intendere: "Ci vedremo… in tribunale".

Sherman aprì la porta della biblioteca e fece un gesto verso l'ingresso. Gli parve estremamente importante farli uscire e lasciare la stanza per ultimo… tanto per provare che quella era, dopotutto, casa sua e che il padrone era lui.

Arrivati alla porta dell'ascensore, il più piccolo disse a quello grasso: «Davey, hai un biglietto da visita? Dallo al signor McCoy».

Il ciccione estrasse un biglietto da una tasca laterale della giacca e lo porse a Sherman. Era spiegazzato.

«Se cambia idea» disse il più piccolo, «ci telefoni.»

«Sììì, ci pensi su» disse quello grasso, con il suo orribile sorriso. «Qualunque cosa ha in testa, prima ce lo dice, meglio è per lei. Così stanno le cose. Fino adesso lei è ancora in condizione di collaborare. Se aspettala macchina si mette in moto.» Girò le palme verso l'alto, come per dire: "E poi sei in un mare di guai".

Sherman aprì la porta. Il piccoletto ripeté: «Ci pensi su».

Mentre uscivano, quello grasso gli fece un'orrenda strizzatina d'occhi.

Sherman chiuse la porta. Erano andati via. Ben lontano dal sentirsi sollevato, era soffocato da una prepotente disperazione. Tutto il suo sistema nervoso centrale gli diceva che aveva subito una sconfitta catastrofica… eppure non sapeva che cosa fosse realmente accaduto. Non era in grado di esaminare le sue ferite. Era stato violentato: ma com'era successo? Come avevano potuto quei due insolenti animali, quei due miseri mortali, invadere la sua vita?

Quando si voltò, Bonita era emersa dalla cucina e stava ai margini del pavimento di marmo. Doveva dirle qualcosa. Lei sapeva che erano della polizia.

«Stanno facendo indagini su un incidente automobilistico, Bonita.» Troppo nervoso e agitato.

«Ah, un incidente.» Gli occhi sgranati dicevano: "Dimmi di più".

«Sì… non so. Una delle automobili coinvolte aveva una targa simile a una delle nostre. Più o meno.» Sospirò e fece un gesto d'impotenza. «Non sono riuscito a capirci molto.»

«Non si preoccupi, signor McCoy. Loro sanno che non è lei.» Da come lo diceva, lui capì di avere un'aria preoccupatissima.

Sherman tornò in biblioteca, chiuse la porta e aspettò tre o quattro minuti. Sapeva che la cosa era irrazionale, ma aveva la sensazione che, se non avesse aspettato che i poliziotti fossero fuori dal palazzo, avrebbero potuto ricomparire, come per incanto, sogghignando e strizzando l'occhio alla loro orribile maniera. Poi telefonò a Freddy Button, a casa, e lasciò detto di chiamarlo a qualsiasi ora fosse rientrato.

Maria. Doveva parlarle. Aveva il coraggio di telefonarle? Non sapeva neppure dov'era: se al loro rifugio o nel suo appartamento della Quinta Avenue. Un'intercettazione telefonica! Erano in grado in qualche modo di mettere sotto controllo il suo telefono, immediatamente? Avevano per caso lasciato qualche congegno d'ascolto nella stanza? Calma… è pazzesco! Se Judy è già tornata, io non l'ho nemmeno sentita arrivare!

Si alzò e uscì nell'atrio. Non c'era nessuno. Udì un lieve clink clink. La targhetta di Marshall; il triste bassotto uscì dondolando dal soggiorno. Le unghie dei piedi dell'animale producevano un rumore come d'acciottolio sul pavimento di marmo. Il salame che cammina! La causa di una buona metà dei miei problemi. A te, brutta bestia, che t'importa della polizia? Cibo e passeggiate, cibo e passeggiate. Poi Bonita infilò la testa nel vano della porta. Non vuoi perdere proprio niente, eh? Vuoi divorare tutta questa storia poliziesca, vero? Sherman la guardò con aria accusatoria.

«Oh, penso che la signora McCoy sta arrivando» disse.

«Non ti preoccupare» ribatté lui, «quando la signora e Campbell arriveranno, le sentirai.» E fino a quel momento tieni il naso lontano dagli affari miei.

Cogliendo chiaramente il significato di quel tono di voce, Bonita si ritirò in cucina. Sherman si diresse nuovamente verso la biblioteca. Rischierò una telefonata. Proprio in quell'attimo la porta che dava sul vano degli ascensori si aprì.

Judy e Campbell.

E adesso? Come faceva a chiamare Maria? Meglio dire prima a Judy della polizia? Se non lo faceva lui, l'avrebbe fatto Bonita.

Guardò Judy con espressione perplessa. Cosa diavolo aveva addosso? Pantaloni di flanella bianchi, golf di cachemire bianco, giacchetta nera con spalle imbottite, maniche rimboccate quasi al gomito, un collo con un'enorme e ridicola apertura fino a… laggiù. Campbell, invece, pareva estremamente "signora" nella sua uniforme rosso amaranto del Taliaferro, la camicetta bianca e il colletto color ranuncolo. Come mai di questi tempi tutte le ragazzine erano vestite come signore e le loro madri vestite come monellacce?

«Sherman» disse Judy, con aria preoccupata, «qualcosa non va?»

Doveva parlarle subito della polizia? No! Esci e telefona a Maria!

«Ehm, no» disse, «stavo per…»

«Papà!» disse Campbell avvicinandosi a lui. «Vedi queste carte?»

Vedi queste carte?

Gli tese tre carte da gioco in miniatura: l'asso di cuori, l'asso di picche e l'asso di quadri.

«Che cosa sono?»

Che cosa sono?

«Non lo so, tesoro. Carte da gioco.»

«Ma che cosa sono?»

«Un secondo, carina. Judy, devo uscire un minuto.»

«Papà! Che cosa sono?»

«Gliele ha date il mago» spiegò Judy. «Dille che cosa sono.» Un cenno della testa che diceva: Falla contenta. Vuole farti vedere un gioco di prestigio.

«Quando torno» disse a Campbell. «Devo uscire solo per un minuto.»

«Papà!» Saltava su e giù, nel tentativo di portare le carte proprio all'altezza del padre.

«Un attimo, tesoro!»

«Stai uscendo?» disse Judy.

«Dove vai?»

«Devo andare da…»

«PAPÀ! DIMMI-CHE-COSA-SONO

«… Freddy Button.»

«PAPÀ

«Ssssshhhh» fece Judy. «Sta' zitta!»

«Papà, guarda!» Le tre carte danzavano in aria davanti al suo viso.

«Da Freddy Button? Sai che ore sono? Dobbiamo prepararci subito per uscire!»

«Dimmi che cosa sono, papà!»

Cristo! Se n'era scordato completamente! Già, dovevano andare a cena da quella gente spaventosa, i Bavardage! Quella gentaglia che Judy frequentava. Quella sera? Impossibile!

«Non so, Judy. Io… non so quanto starò da Freddy. Mi spiace, io… io…»

«Che cosa significa, che non sai?»

«PAPÀ!» Quasi alle lacrime, per la frustrazione.

«Per l'amor di Dio, Sherman, guarda le carte.»

«Non dire Dio, mamma.»

«Hai assolutamente ragione, Campbell. Non avrei dovuto dirlo.»

Lui si chinò a guardare le carte. «Be'! Sono l'asso di cuori, l'asso di picche e l'asso di quadri.»

«Sei sicuro?»

«Sì.»

Un gran sorriso. Trionfante. «Adesso io le agito così.» Prese a muovere le carte come un ventaglio, a un ritmo furioso, fino a che non diventarono una confusa macchia in aria.

«Sherman, non hai il tempo per andare da Freddy Button.» Uno sguardo severo e senza alternative. È così e basta.

«Judy, devo farlo.» Ruotò gli occhi verso la biblioteca, come per dire: "Ti spiegherò tutto là dentro".

«Bibbidi, babbidi, bu!» disse Campbell. «E, adesso, guarda, papà!»

Judy, con una voce senza remore: «Andremo a quella cena».

Lui si chinò di nuovo. «L'asso di quadri, l'asso di cuori e l'asso di… fiori! Ehiii! Campbell! Come hai fatto a tirare fuori l'asso di fiori!»

Estasiata. «È venuto e basta!»

«Ma è magia!»

«Sherman…»

«Come fai? È incredibile!»

«Sherman, mi hai sentito?»

Campbell, molto modestamente: «Me l'ha fatto vedere il mago».

«Ah. Il mago. Quale mago?»

«Uno alla festa per il compleanno di MacKenzie.»

«È sorprendente!»

«Sherman, guardami.»

La guardò.

«Papà! Vuoi sapere come ho fatto?»

«Sherman.» Sempre più è così e basta.

«Papà! Guarda! Te lo faccio vedere.»

Judy, con dolcezza pericolosa: «Campbell, sai chi adora i giochi di prestigio?».

«Chi?»

«Bonita. Ne va pazza. Perché non vai a farglielo vedere, prima che ti prepari la cena? Poi torni qui, se vuoi, a far vedere a papà come hai fatto.»

«Oh, va bene.» Trotterellò sconsolata verso la cucina. Sherman si sentì in colpa.

«Vieni in biblioteca» disse a Judy con voce stentorea.

Andarono in biblioteca. Lui chiuse la porta e disse a Judy di sedersi. Sarebbe troppo duro per te sentire queste cose in piedi. Lei si sedette nella poltrona alta e lui nell'altra poltrona.

«Judy, ricordi quella faccenda in televisione ieri sera, a proposito di un investimento nel Bronx, quello per cui stanno cercando una Mercedes con una targa che comincia per R?»

«Sì.»

«Be', due poliziotti sono venuti qui, poco prima che tu e Campbell tornaste a casa, e mi hanno fatto un sacco di domande.»

«Eh?»

Lui descrisse l'interrogatorio, con l'intenzione di farlo apparire minaccioso - devo andare da Freddy Button! - ma evitando di esporre le proprie sensazioni di inadeguatezza, paura e colpa.

«Perciò ho chiamato Freddy, ma non era in casa, anche se lo stavano aspettando. E così vado a casa sua e gli lascio questo appunto.» Si mise una mano sul petto della giacca, come se ci fosse una lettera nella tasca interna. «E se lo trovo quando vado a casa sua, gli parlerò. Perciò è meglio che vada.»

Judy lo guardò un attimo solo. «Sherman, è tutto completamente senza senso.» Parlava quasi con calore, con un sorrisetto, come si parla a uno che si deve convincere a scendere dall'orlo del tetto. «Non ti metteranno in prigione perché hai un mezzo numero di targa. Ho letto un trafiletto sul "Times" di stamane. Accennavano al caso. Pare che ci siano duemilacinquecento Mercedes con targhe che cominciano per R. Ci scherzavo sopra con Kate di Ducci a colazione. Abbiamo mangiato alla Boue d'Argent. Ma di cosa diavolo ti preoccupi? Tu non stavi certamente guidando l'auto nel Bronx quella sera, quale che fosse.»

Adesso! Diglielo! Liberati di questo terribile peso una volta per tutte! Torna a essere pulito! Con una cosa molto simile all'ebbrezza, scalò gli ultimi passi del gran muro di inganni che aveva eretto tra se stesso e la sua famiglia, e…

«Be'! lo so che non c'ero. Ma loro si sono comportati come se non mi credessero» e immediatamente si ritrasse.

«Sono certa che è tutto frutto della tua immaginazione, Sherman. In realtà è solo il loro modo di essere. Per l'amor del cielo! Se proprio vuoi parlare con Freddy, avrai tutto il tempo di farlo domani mattina.»

«No! Davvero! Devo andare a casa sua!»

«E magari parlarne anche a lungo, se necessario.»

«Be', sì, se è necessario.»

Lei sorrise in un modo che non gli piacque. Poi scosse la testa. Stava ancora sorridendo. «Sherman, abbiamo accettato questo invito cinque settimane fa. Dobbiamo essere lì tra un'ora e mezzo. E io ci vado. E ci vieni anche tu. Se vuoi lasciare il numero dei Bavardage perché Freddy ti possa telefonare là, va bene. Sono certa che Inez e Leon non avranno niente da dire. Ma noi ci andiamo.»

Continuava a sorridere con calore… all'uomo che stava per saltare dal tetto… ma è così e basta.

La calma… il sorriso… il probabile calore… Il suo viso diceva chiaramente come stavano le cose, molto più di ogni spiegazione verbale. Le parole avrebbero potuto dargli l'occasione per scantonare. Quello sguardo, invece, non lasciava alcuno spiraglio, alcuna occasione. Il pranzo da Inez e Leon Bavardage per Judy era tanto importante quanto erano state le Giscard per lui. Quest'anno i Bavardage erano il padrone e la padrona di casa del secolo, i più attivi e rumorosi nuovi arrivati tra gli arrivisti. Leon Bavardage era un venditore di cicoria di New Orleans che aveva finito per far fortuna nel mercato immobiliare. Sua moglie, Inez, forse veniva davvero da una vecchia famiglia della Louisiana, i Belair. Per Sherman (il knickerbocker) erano ridicoli.

Judy sorrideva, eppure non era mai stata tanto seria in vita sua.

Ma lui doveva parlare con Maria!

Balzò in piedi. «D'accordo, ci andiamo; ma io devo fare un salto da Freddy. Non ci metterò tanto!»

«Sherman!»

«Te lo prometto! Torno subito!»

Non corse affatto sul marmo verde scuro dell'ingresso. Si aspettava, quasi sperava, che lei gli corresse dietro e lo trascinasse via dal vano degli ascensori.

Da basso, Eddie, il portiere, disse: «'Sera, signor McCoy» e lo fissò con uno sguardo che sembrava dire: "Ma perché sono venuti qui i poliziotti?".

«Salve, Eddie» disse senza fermarsi e si avviò lungo Park Avenue.

Arrivato all'angolo, si precipitò dentro la fatidica cabina.

Con grande, grandissima attenzione compose il numero di Maria. Prima quello del loro rifugio. Nessuna risposta. Poi chiamò l'appartamento della Quinta. La solita voce ispanica disse che la signora Ruskin non poteva venire all'apparecchio. Maledizione! Che fare? «Dirle che era urgente? Lasciare il nome? Ma il vecchio, il marito, Arthur, poteva benissimo essere lì. Disse che avrebbe richiamato.

Meglio perdere un po' di tempo per rendere plausibile la storia che era andato a casa di Freddy Button, aveva lasciato un messaggio e poi era venuto via. Andò fino a Madison Avenue, il Whitney Museum, l'Hotel Carlyle. Tre uomini uscirono dalla porta che conduceva al Café Carlyle. Avevano più o meno la sua età. Parlavano e ridevano, con le teste gettate all'indietro, beatamente su di giri. Avevano tutti e tre borse di cuoio e due di loro indossavano abiti scuri, camicie bianche e cravatte giallo pallido a piccoli motivi fantasia. Quelle cravatte giallo pallido erano diventate il simbolo delle api operaie nel mondo degli affari. Che cosa diavolo li faceva ridere ed esultare tanto se non il vorticare dell'alcol nel cervello, poveri cristi disillusi…

Stava sperimentando la reazione risentita di quelli che scoprono una dura verità, malgrado la propria situazione difficile: e cioè che il mondo continua, spietato, per i fatti suoi senza neppure fare una faccia di circostanza.

Quando tornò a casa, Judy era di sopra, in camera.

«Visto? Non c'è voluto molto» disse. Pareva che si aspettasse un'alta onorificenza per aver tenuto fede alla parola data.

Nella mente gli passarono rapidamente parecchie ipotesi di commento e risposta. Quello che lei disse, alla fine, fu: «Abbiamo meno di un'ora, Sherman. Adesso fammi un favore. Mettiti l'abito blu che hai preso l'anno scorso, quello blu scuro. Blu di mezzanotte, mi pare che si dica. E una cravatta seria, non una di quelle vivaci. Quella blu crèpe de Chine. Oppure una a quadretti bianchi e neri va benissimo. Quelle ti stanno sempre bene».

Anche una a quadretti bianchi e neri va benissimo… Era sopraffatto dalla disperazione e dal senso di colpa. Loro erano là fuori e lo stavano mettendo alle corde, e lui ancora non aveva avuto il coraggio di parlarle. E Judy riteneva di potersi permettere l'incredibile lusso di preoccuparsi di scegliere la cravatta giusta.