29
Il rendez-vous
La mattina dopo Kramer, Bernie Fitzgibbon e i due poliziotti, Martin e Goldberg, erano nell'ufficio di Abe Weiss per una specie di riunione del consiglio. Weiss sedeva a capo del grande tavolo di noce. Fitzgibbon e Goldberg erano alla sua sinistra, Kramer e Martin alla sua destra. All'ordine del giorno: come procedere in un'udienza davanti alla giuria d'accusa sul caso di Sherman McCoy. A Weiss non piaceva affatto quello che stava sentendo da Martin. E neppure a Kramer. Di tanto in tanto Kramer lanciava un'occhiata a Bernie Fitzgibbon. Ma non riusciva a cogliere niente al di là di una maschera di cupa impassibilità irlandese, che tuttavia emetteva onde corte che significavano: "Ve l'avevo detto".
«Un momento!» disse Weiss. Stava parlando a Martin. «Ripetimi come hai pizzicato quei due personaggi.»
«In una retata di crack» disse Martin.
«Una retata di crack?» disse Weiss. «Che cazzo è una retata di crack?»
«Una retata di crack è… be', è quello che noi facciamo adesso. Qualche isolato un po' più su ci sono così tanti spacciatori di crack che sembra un mercato delle pulci. Tanti palazzi sono vuoti, abbandonati, e gli altri… la gente che ci abita ha paura di uscire dal portone, perché sulla strada c'è solo gente che vende crack, gente che compra crack e gente che fuma crack. E così noi facciamo le retate. Arriviamo lì e pizzichiamo tutti quelli che riusciamo a prendere!»
«Funziona?»
«Sicuro. Tu lo fai un paio di volte e loro si spostano in un altro isolato. Siamo arrivati al punto che appena arriva la prima auto nostra, scappano come matti dalle case. È come in quei cantieri edilizi dove fanno saltare la dinamite e i topi si mettono a correre per le strade. Qualcuno dovrebbe portare una cinepresa una volta, per riprendere tutta quella gente del cazzo che scappa per la strada.»
«Okay!» disse Weiss. «Così quei due che avete pizzicato conoscono Roland Auburn?»
«Già. Conoscono Roland. Tutti lo conoscono.»
«Okay. Così quello che ci stai dicendo… è qualcosa che Roland ha detto a loro personalmente o qualcosa che loro hanno sentito dire?»
«No, è una voce che circola.»
«Nel Bronx circola il crack» disse Weiss.
«Già, direi di sì» ammise Martin.
«Okay, continua.»
«Be', dicono in giro che Roland vede per caso quel ragazzo, Henry Lamb, che sta andando a piedi verso il locale del pollo fritto del Texas, e gli si appiccica. Roland si diverte a dar fastidio a quel ragazzo. Lamb è quello che loro chiamano un "ragazzino buono buono", un figlio di mamma, un ragazzo che non "esce di casa"! Non esce di casa e non fa la vita della strada. Va a scuola, va in chiesa, vuole andare all'università, non si mette nei pasticci… non c'entra neppure con le case popolari, in fondo. Sua madre cerca di risparmiare i soldi per la prima rata di una casa a Springfield Gardens; se potessero, non abiterebbero neppure lì.»
«Quei due non ti hanno mica detto queste cose.»
«No, questo è quello che avevamo già scoperto noi sul ragazzo e sulla madre.»
«Be', limitiamoci a quei due lavativi e a quello che hanno detto loro.»
«Stavo cercando di fare una panoramica di quello che sta dietro.»
«Bene. Adesso dimmi quello che mi interessa davvero!»
«D'accordo. Allora, Roland cammina per Bruckner Boulevard con Lamb. Passano davanti alla rampa di Hunts Point Avenue, e Roland vede della robaccia sulla rampa, gomme di auto o bidoni della spazzatura o qualcos'altro, e capisce che ce l'ha messa qualcuno per cercare di fare rapine alle auto. Così dice a Lamb: "Vieni qua, adesso ti faccio vedere come si rapinano le auto". Lamb non vuole entrarci per niente, e così Roland dice: "Io non lo faccio davvero, ti faccio solo vedere come si fa. Di checcavolo hai paura?". Lui, sapete, prende in giro il ragazzo, lo sfotte, perché è un cocco di mamma. E così il ragazzo sale per la rampa con lui, e la prima cosa che vede è Roland che butta un copertone o un bidone o un'altra cosa davanti alla macchina, la straordinaria Mercedes con dentro McCoy e una pupa. Questo povero bamboccio, Lamb, è lì fermo come un baccalà. Probabilmente se la fa sotto dalla paura per il fatto di essere lì, e se la fa sotto dalla paura anche all'idea di scappare, per via di Roland, che sta facendo il suo numero per fargli sapere che razza di finocchio è lui, Lamb. Poi qualcosa va storto, perché McCoy e la donna fanno un casino tremendo per filarsela da lì, e Lamb viene urtato di fianco. In tutti i modi, questa è la storia che circola da quelle parti.»
«Be', è un'ipotesi. Ma hai sentito qualcuno dire di avere davvero ascoltato Roland parlare in questo modo?»
Bernie Fitzgibbon s'intromise. «Quest'ipotesi spiegherebbe perché Lamb non dice una parola sul suo investimento quando va all'ospedale. Non vuole che qualcuno lo creda coinvolto in un tentativo di rapina a un'automobile. Lui vuole solo che gli curino il polso e basta.»
«Già!» disse Weiss. «Ma tutto quello che abbiamo qui è un'ipotesi fornita da due teste matte. Quella gente non sa la differenza tra quel che sentono davvero e quel che sentono qui dentro.» Fece girare rapidamente l'indice attorno alla tempia come nei Looney Tunes.
«Be', secondo me vale la pena di fare un controllo, Abe» disse Bernie. «Secondo me dovremmo comunque perderci quel tanto di tempo che sarà necessario.»
Kramer si sentì allarmato, risentito e protettivo, protettivo nei confronti di Roland Auburn. Nessuno di loro si era presa la briga di conoscere Roland come aveva fatto lui. Roland non era un santo, ma in lui c'era del buono, e diceva la verità.
Rivolto a Bernie: «Niente di male a fare un controllo, ma riesco a immaginarmi come possa aver preso piede un'ipotesi simile. Insomma, è veramente la stessa ipotesi di McCoy. È quella da lui fornita al "Daily News" e alla tivù. Insomma, è un'ipotesi che già circola per le strade e ci prospera. Risponde a una domanda, ma ne provoca altre dieci. Voglio dire, perché mai Roland dovrebbe tentare una rapina a un'auto con quel ragazzino che lui sa essere un borghesuccio e un vigliacchetto? E se McCoy è la vittima di una tentata rapina e investe uno degli aggressori, perché esita a informare la polizia? Lo avrebbe fatto così». Kramer fece schioccare le dita e si rese conto di aver assunto un tono polemico.
«Sono d'accordo, fa sorgere un sacco di domande» disse Bernie. «Una ragione di più per non mandare in gran fretta la faccenda davanti alla giuria.»
«Dobbiamo fare in fretta» proclamò Weiss.
Kramer colse Bernie che lo guardava in una certa maniera. Vide un'accusa nei suoi occhi neri irlandesi. In quel momento il telefono emise tre suoni sommessi. Weiss si alzò, si avvicinò alla scrivania e rispose.
«Sì? Passamelo. No, non ho visto "The City Light"… Che cosa? Stai scherzando!»
Si volse verso il tavolo e disse a Bernie: «È Milt. Non credo che ci dovremo più preoccupare di ipotesi fatte da teste matte per un bel po'».
Un attimo più tardi Milt Lubell, gli occhi sgranati, quasi senza fiato, entrò nella stanza con una copia di «The City Light». La stese sul tavolo di riunione. La prima pagina balzò agli occhi.
UNA ESCLUSIVA «CITY LIGHT»
LA VEDOVA DI UN FINANZIERE
È LA RAGAZZA MISTERIOSA
DEL CASO McCOY
McCoy al funerale: «Aiutami!».
In fondo alla pagina, in evidenza, una lunga banda diceva: Resoconto di Peter Fallow, testimone oculare. Fotografie alle pagine 3, 4, 5, 14, 15.
Tutti e sei si alzarono e si chinarono in avanti con le palme sul tavolo di noce come per sostenersi. Le teste convergevano sull'epicentro, e cioè sul titolo.
Weiss si raddrizzò. Sul suo volto c'era lo sguardo dell'uomo che sa come spetti alla sua specie comandare.
«E va bene! Ecco che cosa faremo. Milt chiama Irv Stone a Canale 1.» Poi snocciolò i nomi dei produttori dei notiziari di altri cinque canali. «E chiama Fallow. E quel tale Flannagan al "News". E adesso, ecco cosa devi dire a tutti. Interrogheremo quella donna il più presto possibile. Questo è pacifico. E poi aggiungi che se è la donna che era insieme a McCoy, anche lei sarà incriminata per reati gravi, perché è stata lei a guidare l'automobile in fuga dopo che McCoy aveva investito il ragazzo. È omissione di soccorso e mancata denuncia agli organi di polizia. Pirateria. Lui ha investito, lei è fuggita. D'accordo?»
Poi a Bernie: «E voi ragazzi…» spostò gli occhi su Kramer, Martin e Goldberg, per far capire che erano compresi anche loro. «Voi ragazzi, occupatevi di quella donna, e ditele la stessa identica cosa: "Ci spiace per la morte di suo marito ecc. ecc. ecc., ma abbiamo bisogno di certe risposte molto in fretta, e se lei è quella che era nell'automobile con McCoy, allora è in un sacco di guai, guai grossi". Ma se lei vuole parlare chiaro su McCoy, le garantiremo l'immunità davanti alla giuria.» A Kramer: «Non sbilanciarti troppo in questo senso sulle prime. Be', diavolo, sai cosa devi fare».
Quando Kramer, Martin e Goldberg si fermarono davanti al 962 della Quinta Avenue, il marciapiede sembrava un campo di profughi. Troupe televisive, radiocronisti, giornalisti della stampa e fotografi stavano seduti o gironzolavano in jeans, camicie di maglia, giubbotti chiusi con la lampo e scarpe Trapper Dan, comunemente usate nel settore, e gli sfaccendati che guardavano non erano vestiti molto meglio. I poliziotti del Diciannovesimo Distretto avevano sistemato una doppia fila di cavalletti blu al fine di creare un passaggio per la porta principale a beneficio della gente che abitava nel palazzo. Un agente in uniforme era di servizio là davanti. Per un palazzo come quello, alto quattordici piani e largo mezzo isolato, l'entrata principale non era particolarmente imponente. E tuttavia trasudava soldi. C'era una sola porta di cristallo con riquadri di ottone pesante lucidissimo protetta da un reticolo di ottone, anch'esso molto luccicante. Una tenda si protendeva dal portone fin sull'orlo del marciapiede. La tenda era sostenuta da pali di ottone con tiranti d'ottone ugualmente tanto lucidati da sembrare d'oro. Più di ogni altra cosa, era il lunghissimo lavoro di lucidatura a mano di tutto quell'ottone che parlava chiaramente di soldi. Dietro alla porta di cristallo, Kramer intravide le sagome di un paio di portieri in uniforme, e gli venne in mente Martin e il soliloquio sulle stronzate nel palazzo di McCoy.
Be'… adesso era qui. Aveva alzato lo sguardo su questi palazzi residenziali della Quinta Avenue, di fronte al Central Park, almeno mille volte, soprattutto nei pomeriggi domenicali. Era stato a passeggio nel parco con Rhoda che spingeva Joshua nella carrozzina, e il sole del pomeriggio aveva illuminato le grandi facciate di calcare al punto che gli era passata per la mente la frase: la costa d'oro. Ma era soltanto una normale osservazione, priva di emozioni, a parte forse una mite soddisfazione per essere in grado di passeggiare in paraggi tanto dorati. Era fin troppo noto che la gente più ricca di New York abitava in quei palazzi. Ma la loro vita, qualunque fosse, era lontana come se si svolgesse su un altro pianeta. Quella gente era soltanto una specie particolare, troppo distante per essere, in qualche modo, invidiata. Erano "i ricchi". Lui un tempo non sapeva dire un solo nome di quella genia. Ora sì.
Kramer, Martin e Goldberg uscirono dall'automobile, e Martin disse qualcosa al poliziotto in uniforme. La muta straccionesca dei giornalisti si scosse. Gli indumenti pruriginosi svolazzarono. Squadrarono loro tre in su e in giù, e fiutarono l'odore del caso McCoy.
L'avrebbero riconosciuto? La macchina non aveva i segni dell'ufficialità, e perfino Martin e Goldberg portavano giacca e cravatta, perciò loro potevano passare per tre uomini che, per caso, dovevano entrare in quel palazzo. D'altra parte, poteva ancora essere considerato un anonimo funzionario del sistema di giustizia penale? Non più. Il suo ritratto (opera dell'appetitosa Lucy Dellafloria) era apparso in televisione. Il suo nome era stato stampato sui quotidiani. Si misero in marcia lungo il passaggio tra le barriere della polizia. A mezza via Kramer si sentì abbandonato. Neppure un segno d'interesse dalla grande adunata dell'eccitabile stampa di New York.
Poi: «Ehi, Kramer!». Una voce alla sua destra. Il cuore sobbalzò. «Kramer!» L'impulso fu quello di voltarsi e sorridere, ma lo contenne. Doveva continuare a camminare ignorandoli? No, non doveva snobbarli, vero? Perciò si girò verso la voce con sguardo molto severo.
Due voci all'unisono:
«Ehi! Kramer, va a…»
«Quali sono i capi d'accusa…»
«… parlare con lei?»
«… contro di lei?»
Sentì uno dire: «Chi è quello?». E un altro rispondere: «È Larry Kramer. È il PD di questo caso».
Kramer atteggiò le labbra in una smorfia arcigna: «Per ora non ho niente per voi, ragazzi».
Ragazzi! Ora erano suoi: questo gran mucchio di gente… la stampa, che, prima, almeno per quel che lo riguardava, era stata una pura astrazione. Ora lui guardava in faccia tutta la specie eccitata, e loro pendevano dalle sue labbra, seguivano ogni suo passo. Uno, due, tre fotografi erano già in posizione. Sentì il gemito del meccanismo di ricarica delle macchine fotografiche. Una troupe televisiva stava arrivando con qualche impaccio. Una telecamera spuntava sopra la testa di uno di loro, come un corno. Kramer camminò un poco più lentamente e fissò uno dei giornalisti, come se stesse pensando a una risposta da dare, e concedendo ai ragazzi la visione per qualche secondo ancora del suo muso solenne. (In fondo, facevano solo il loro mestiere.)
Quando lui, Martin e Goldberg arrivarono al portone, Kramer disse ai due portieri, con gutturale autorità: «Larry Kramer, della Procura distrettuale del Bronx. Ci stanno aspettando».
I portieri scattarono.
Di sopra, la porta dell'appartamento fu aperta da un ometto in uniforme, probabilmente un indonesiano o un coreano. Kramer entrò… e la vista lo abbagliò. L'effetto era scontato: tutto era stato concepito per abbagliare gente molto più avvezza al lusso di Larry Kramer. Lanciò un'occhiata a Martin e Goldberg. Loro tre erano degli autentici turisti… il soffitto alto due piani, l'enorme lampadario, la scala di marmo, le colonne scanalate, l'argenteria, la galleria superiore, gli immensi quadri, le cornici sontuose, ognuna delle quali - la sola cornice - costava grosso modo la metà della paga annuale di un poliziotto. Loro si bevevano tutto quanto con gli occhi.
Kramer sentì il ronzio di un aspirapolvere in azione proveniente da un punto imprecisato del piano superiore. Una cameriera in abito nero con un grembiule bianco apparve nell'ingresso e poi sparì. Il cameriere orientale li guidò attraverso l'atrio. Da una porta aperta, ebbero l'ampia visione di una grande stanza inondata di luce dalle finestre più alte che Kramer avesse mai visto in una casa privata. Erano grandi come le finestre delle aule di tribunale dell'isola-fortezza. Davano sulle cime degli alberi del Central Park. Il cameriere li condusse in una stanza più piccola e più buia. O forse era più buia in confronto all'altra: in realtà, un'unica, alta finestra affacciata sul parco faceva entrare un fascio di luce che, in un primo momento, fece sembrare i due uomini e la donna in attesa lì dentro soltanto delle sagome. Gli uomini erano in piedi, la donna seduta in una poltrona. C'erano scale da biblioteca, un mucchio di ninnoli d'antiquariato su un ampio scrittoio con decorazioni dorate sui piedi ricurvi, due divanetti e un tavolino da caffè di legno nodoso in mezzo, parecchie poltrone e tavolinetti e… e roba del genere.
Una delle sagome si fece avanti, abbandonando il chiarore abbagliante, e disse: «Signor Kramer, sono Tucker».
Tucker Trigg: era davvero il suo nome. Tucker Trigg dello studio legale Curry, Goad Pesterall, avvocato del la signora Ruskin. Kramer aveva organizzato l'incontro per suo tramite. Tucker Trigg aveva una voce Wasp terribilmente nasale che aveva messo in soggezione Kramer, ma ora che lo vedeva si accorgeva che non aveva proprio l'aspetto corrispondente alla sua idea di un Wasp. Era grande e grosso, tondeggiante, tozzo, come un giocatore di football ingrassato col tempo. Si strinsero la mano e Tucker Trigg disse con la sua solita voce nasale:
«Signor Kramer, le presento la signora Ruskin.»
Era seduta in una poltrona dallo schienale alto che fece pensare a Kramer alle serie televisive dei Capolavori del Teatro. Accanto a lei, in piedi, stava un uomo alto, dai capelli grigi. La vedova… che aspetto giovane e pieno di salute! Arrapante, lenza, aveva detto Roland. Arthur Ruskin, a settantun anni, con il suo secondo pace-maker ticchettante aveva avuto tra le mani un bel pezzo di ragazza! Indossava un semplice abito nero di seta. Il fatto che le spalle ampie e il colletto foggia cadetto d'accademia militare fossero al momento molto chic sfuggì a Kramer; ma non le gambe. Le gambe erano accavallate. Kramer tentò di trattenere gli occhi dal correre su per la curva ben rilevata sopra il piede, la splendida curva del polpaccio e la scintillante curva delle cosce sotto la seta nera. Fece del suo meglio, ma… lei aveva il più meraviglioso lungo collo d'avorio immaginabile, e le labbra erano socchiuse. Gli occhi scuri sembravano poterselo bere in un sorso solo. Si sentì eccitato, nervoso.
«Mi spiace imporre la nostra presenza in tali circostanze» farfugliò. Immediatamente sentì di aver detto una sciocchezza. Forse lei doveva concludere che in altre circostanze sarebbe stato lieto di imporre la sua presenza?
«Oh, capisco, signor Kramer» disse lei a bassa voce, con un sorriso coraggioso. Era soltanto un sorriso coraggioso? Dio onnipotente, come lo stava guardando!.
Non riusciva a immaginare cosa dirle, adesso. Tucker Trigg gli risparmiò il difficile compito presentando l'uomo accanto alla poltrona. Era un uomo alto, più vecchio. I capelli grigi erano accuratamente pettinati all'indietro. Aveva quel tipo di portamento militare che si vede raramente a New York. Si chiamava Clifford Priddy ed era molto noto per aver difeso gente importante in processi penali federali. Sulla sua persona, ovunque, c'era scritto Wasp. Guardava la gente dalla sommità del suo naso lungo e sottile, i suoi indumenti erano sobri, non vistosi, e ovviamente opulenti, come soltanto i bastardi sapevano scegliere. Le scarpe nere lucide calzavano perfettamente il collo del piede e la punta delle dita. Osservandolo Kramer, che portava scarponcini marrone da cricket, con suole alte tre dita, si sentì goffo. Be', questo non era un caso da Corte federale, un caso dove la vecchia mafia dell'Ivy League aveva l'ultima parola. No, qui si aveva a che fare con la ben diversa logica del Bronx. «Come sta, signor Kramer?» disse Clifford Priddy, in tono molto affabile.
«Bene» disse Kramer, stringendogli la mano e pensando: "Vediamo un po' come ti sentirai quando verrai a Gibraltar".
Poi presentò Martin e Goldberg, e tutti si sedettero. Martin, Goldberg, Tucker Trigg e Clifford Priddy: un bel quartetto. Goldberg stava seduto con le spalle curve, un poco in soggezione, invece Martin era sempre il "turista imperturbabile". I suoi occhi danzavano come impazziti per la stanza.
La giovane vedova in nero premette un pulsante sul tavolo accanto alla poltrona. Tornò ad accavallare le gambe. I curvilinei splendori si separarono e tornarono a congiungersi, e Kramer cercò di distogliere gli occhi. Lei guardò verso la porta. Una cameriera filippina, a giudizio di Kramer, stava in piedi là davanti.
Maria Ruskin guardò Kramer, poi Goldberg e Martin, e chiese:
«I signori prenderebbero volentieri un caffè?»
Nessuno parve interessato. «Nora, io vorrei un caffè, e…»
«Cora» corresse la donna in tono neutro. Tutte le teste si girarono verso di lei, come se avesse estratto una pistola.
«… e porta qualche tazza in più, per favore» disse la vedova, trascurando la correzione, «se qualcuno dei signori cambia idea.»
Grammatica non perfetta, pensò Kramer, cercando di individuare cosa c'era di sbagliato in quel che lei aveva detto… e poi si rese conto che nessuno ci badava e tutti guardavano lui. Ora la scena era tutta per lui. Le labbra della vedova si erano dischiuse nel solito sorrisetto. Audacia eccessiva? Presa in giro?
«Signora Ruskin» cominciò lui, «come le ho detto, mi dispiace di dover venire da lei in questo particolare momento, e le sono grato per la sua collaborazione. Sono certo che il signor Trigg e il signor Priddy le hanno spiegato lo scopo di questo incontro e io voglio solo, ehm…» Lei mosse le gambe sotto il vestito, e Kramer cercò d'ignorare il modo in cui le cosce si profilavano sotto la lucida seta nera. «… ehm, mettere in evidenza che questo caso, il caso del giovane Henry Lamb, gravemente ferito, ridotto in fin di vita… questo caso è considerato dal nostro ufficio estremamente importante, poiché è estremamente importante per la gente della Contea del Bronx e per tutta la gente di questa città.» Fece una pausa. Si rese conto di suonare ridondante, retorico, ma non sapeva come scendere dal suo destriero. La presenza degli avvocati Wasp e la magnificenza del palazzo l'avevano costretto a salire di tono.
«Capisco» disse la vedova, forse per aiutarlo a smorzare il tono. La testa era un poco piegata all'indietro, e Maria sorrideva con il sorriso di un'amica intima. Kramer provò una eccitazione incontrollabile. Con il cervello corse in avanti, al processo. A volte si finiva per lavorare molto intimamente con un teste ben disposto a collaborare.
«Per questa ragione la sua collaborazione sarebbe per noi di enorme valore.» Gettò la testa all'indietro per mettere in rilievo l'imponenza dei suoi muscoli sternocleidomastoidei. «Per il momento, vorrei solo cercare di spiegarle cosa potrebbe succedere se lei collaborerà o se, per qualche ragione, deciderà di non collaborare, poiché secondo me dobbiamo essere completamente chiari in materia. Non poche cose dipenderanno dall'una o dall'altra decisione. Ora, prima di cominciare dovrei ricordarle che…» Si fermò di nuovo. Non era partito bene, e rischiava di finire per invischiarsi in problemi di sintassi, se non andava avanti senza pensarci troppo. «… lei è rappresentata da legali eminenti, perciò non devo ricordarle i suoi diritti in materia.» In materia. Perché mai frasi così artefatte e inutili? «Ma sono obbligato a ricordarle il suo diritto di rimanere in silenzio, nel caso lei intendesse farlo per una qualsiasi ragione.»
La guardò e annuì, come per dire: "È chiaro?". Lei annuì a sua volta, e lui notò il rigonfiarsi del seno in movimento sotto la seta nera.
Sollevò la borsa dietro la sedia e se la mise in grembo: immediatamente desiderò di non averlo fatto. Gli angoli e i bordi consunti della borsa erano un indizio evidente del suo basso stato sociale. (Un sostituto procuratore distrettuale del Bronx da trentaseimila dollari l'anno!) Ma guarda questa dannata borsa! Tutta logora e crepata e consumata! Si sentì umiliato. Che cosa passava per la testa di questi Wasp del cazzo in quel momento? Non stavano forse trattenendo il sorriso di scherno soltanto per motivi di tattica, o magari per una forma di accondiscendente educazione Wasp?
Dalla borsa estrasse due fogli di appunti su carta gialla e una cartellina di materiale fotocopiato, compresi alcuni ritagli di giornale. Poi richiuse la borsa logora e la ripose sul pavimento.
Diede un'occhiata ai suoi appunti. Poi alzò lo sguardo su Maria Ruskin. «Sono quattro le persone che hanno sicuramente una profonda conoscenza di questo caso» disse. «Una è la vittima, Henry Lamb, che pare essere in coma irreversibile. Una è il signor Sherman McCoy, che è accusato di comportamento gravemente pericoloso, omissione di soccorso e omissione di denuncia agli organi di polizia. E lui nega questi capi d'accusa. Un'altra persona è un individuo che era presente quando avvenne l'incidente e che in seguito si è presentato e ha chiaramente identificato il signor McCoy come il conducente dell'automobile che investì il signor Lamb. Questo testimone ci ha detto che il signor McCoy era in automobile con un'altra persona, una donna bianca tra i venti e i trent'anni che, secondo quanto lui ci dice, la renderebbe complice di McCoy in uno o più dei reati di cui lui è accusato.» Fece una pausa, per creare quello che lui sperava essere il massimo effetto. «Quel testimone ha identificato chiaramente la donna che si trovava in automobile con il signor McCoy, lei, signora Ruskin.»
Kramer si fermò e fissò la vedova in volto. Al principio fu impassibile. Non fece una piega. Il suo sorrisetto coraggioso non si alterò. Ma poi la gola, quasi impercettibilmente, si mosse in su e in giù soltanto una volta.
Deglutiva!
Una sensazione di enorme piacere sopraffece Kramer, in ogni sua cellula e ogni fibra nervosa. In quel momento, nell'istante di quella deglutizione, la sua borsa slabbrata non significava più nulla, e neppure le sue scarpacce sformate o il suo abito da pochi soldi o il suo stipendio miserabile o la sua pronuncia newyorchese con i suoi barbarismi e solecismi nel parlare. Poiché lui in quel momento aveva qualcosa che i consulenti legali Wasp, questi immacolati membri influenti dell'universo degli studi legali Curry & Goad & Pesterall & Dunning & Sponget & Leach, mai avrebbero saputo, e mai avrebbero provato l'inesprimibile piacere di possedere. E sarebbero rimasti muti ed educati, come lo erano in quel momento; e avrebbero deglutito per la paura quando e se fosse mai capitato loro un simile momento. E adesso capì quel che gli dava un momentaneo sollievo tutte le mattine alla vista dell'isolafortezza che si ergeva in cima al Grand Concourse nello squallore del Bronx. Non era altro che il Potere, lo stesso Potere a cui era completamente dedito Abe Weiss. Era il potere dello stato sulla libertà dei sudditi. A pensarci in astratto, si sentiva un teorico e un accademico, ma provarlo, nel vedere gli sguardi su quei loro visi… mentre, a loro volta, fissavano lui, messaggero e portavoce del Potere… Arthur Rivera, Jimmy Dollard, Herbert 92X, e quel tale denominato "il Ruffiano"… perfino loro… e ora quel modesto deglutire per paura, svelato da un collo perfetto che vale milioni… be', il poeta non ha mai cantato questa estasi, o forse non l'ha neppure sognata, e nessun procuratore, nessun giudice, nessun poliziotto, nessun agente tributario lo illuminerà mai, perché nessuno osa neppure confidarlo all'altro, vero? Eppure tutti noi, servitori e amministratori del Potere, la sentiamo quest'estasi, la sentiamo ogni volta che ci guardano con occhi che implorano pietà o, se non proprio pietà, o Dio!, la buona ventura di un gesto capriccioso di generosità. (Soltanto una tregua!) Che cosa sono tutte le facciate di pietra della Quinta Avenue, gli ingressi marmorei, le biblioteche imbottite di pelle e cuoio, e tutte le ricchezze di Wall Street di fronte al mio controllo sul vostro destino, e la vostra impotenza di fronte al Potere?
Kramer prolungò quel momento fino ai limiti concessi dalla logica e dalla decenza, e anche un poco più in là. Nessuno di loro, non i due immacolati avvocati Wasp di Wall Street, né la bella e giovane e arrapante vedova fresca di milioni e milioni di dollari, osavano emettere un sospiro.
Poi disse in tono dolce, paterno: «E va bene. Ora vediamo che cosa significa».
Quando Sherman entrò nello studio di Killian, Killian disse: «Ehiiiiii, checcavolo, checcavolo? Perché quella faccia lunga? Non ti seccherà più aver fatto un viaggio fino a qui quando ti dirò il perché. Non penserai che ti abbia fatto venire qui per farti vedere questa roba?»
Gettò «The City Light» sul piano della scrivania VEDOVA DI UN FINANZIERE… - Sherman gli diede appena un'occhiata. Era cosa già entrata ronzando e sfrigolando dentro il pubblico porticato.
«Era proprio là da Burns, nella stanza riservata. Questo Peter Fallow. Io non l'avevo mai visto.»
«Non m'interessa» disse Killian, di ottimo umore. «È roba vecchia. La sapevamo già. Non è vero? Ti ho fatto venire qui per ben altre nuove.»
La verità era che a Sherman non spiaceva affatto andare fino in Reade Street. Star seduto a casa sua, in attesa di un'altra telefonata minatoria… Viveva la grandiosità del suo appartamento come una presa in giro della situazione in cui era ridotto. Stava seduto là, in attesa della successiva mazzata. Era preferibile fare qualcosa, qualsiasi cosa. Guidare l'auto fino a Reade Street, muoversi orizzontalmente senza resistenza… Stupendo! Grande!
Sherman si sedette e Killian disse: «Per telefono non ho voluto nemmeno accennarlo, ma ho ricevuto un'interessantissima telefonata. Il primo premio alla lotteria, per la verità».
Sherman si limitò a guardarlo.
«Maria Ruskin» disse Killian.
«Stai scherzando!»
«Non scherzerei con te, a questo proposito.»
«Maria ti ha telefonato?»
«"Signor Killian, mi chiamo Moriaah Ruskin. Sono amica di un suo cliente, Shahman McCoy." Ti pare un'imitazione corretta?»
«Mio Dio! Che cosa ha detto? Che cosa vuole?»
«Vuole vederti.»
«Mi venga un…»
«Vuole vederti questo pomeriggio alle quattro e mezzo. Ha detto che tu sai dove.»
«Mi venga un… Sai, ieri, da Bums, aveva detto che mi avrebbe telefonato. Non le ho creduto neppure per un momento. Ha detto perché?»
«No, e io non gliel'ho chiesto. Non ho voluto dire una sola parola che potesse farle cambiare idea. Le ho detto solo che ero certo che ci saresti andato. E sono sempre certo di questo, fratello.»
«Non ti avevo detto che mi avrebbe telefonato?»
«Ah, sì? Hai detto soltanto che non ci credevi affatto.»
«Lo so. Ieri non ci credevo perché lei mi evitava. Ma non ti avevo detto che non era un tipo pi-udente? È una giocatrice. Non è il tipo da giocare sul sicuro. Le piace confondere le carte, e il suo gioco preferito è… be', sono gli uomini. Il tuo gioco è il diritto, il mio gli investimenti, il suo gli uomini.»
Killian prese a ridacchiare, più che altro per il cambiamento di spirito da parte di Sherman. «Okay!» disse. «A meraviglia. Giocate pure, voi due. Cominciamo subito. C'è un'altra ragione per cui ti ho chiesto di raggiungermi qui invece di venire io a casa tua. Dobbiamo equipaggiarti!»
Premette un pulsante e disse nell'interfono: «Nina? Di' a Ed Quigley di venire da me».
Alle quattro e mezzo in punto, con il cuore palpitante a gran velocità, Sherman premette il campanello contrassegnato 4B Boll. Lei doveva essere in attesa vicino alla cassetta del citofono - che comunque non funzionava in quanto tale - perché sentì subito dopo un ronzio nella porta e il pesante clic-clic-clic della serratura elettrica che si apriva, poi lui entrò. L'atmosfera gli fu di colpo familiare: l'aria stagnante, il tappeto sporco sulle scale. C'era la stessa tinta lugubre di una volta, le porte degli appartamenti scrostate, la luce fioca… familiare e nello stesso tempo nuovo e spaventoso, come se lui non si fosse mai presa la briga di notare cos'era davvero quel posto. Il meraviglioso incantesimo d'un tempo si era rotto. Adesso aveva la sfortuna di guardare il sogno erotico con occhi assai più realistici. Ma come aveva fatto a trovarlo incantevole prima?
Lo scricchiolio delle scale gli ricordò cose che voleva dimenticare. Vedeva ancora il bassotto che trascinava il suo tubo di grasso sui gradini… «Sei proprio un bel salammo bagnato, Marshall!» E lui sudava, sudava… Sudando, aveva fatto tre viaggi su e giù per la scala decrepita con il bagaglio di Maria… E ora portava un peso assai più pesante. Sono equipaggiato. Sentiva il ponte del registratore sopra le reni, il microfono sopra lo sterno. Sentiva, o gli pareva di sentire, la morsa del nastro adesivo che teneva il filo attaccato al corpo. Ognuno di questi elementi ingannevoli, furtivi, miniaturizzati pareva crescere a ogni gradino. La sua pelle li drammatizzava, come la lingua che tocca un dente rotto. Erano certamente evidenti! E quanto gli si vedeva in viso? Quanta parte di inganno? Quanto disonore?
Sospirò e scoprì che già sudava e ansimava per la fatica o per la scarica di adrenalina o per la fifa. Il calore del corpo faceva sì che il nastro lo pungesse… o se lo immaginava?
Quando fu arrivato alla porta, la porta così mal verniciata, aveva il respiro pesante. Si fermò un attimo, sospirò di nuovo, poi picchiettò sulla porta, il segnale che avevano sempre usato: tap tappa tap tap.
La porta si aprì lentamente, ma non c'era nessuno. Poi:
«Bu!» La testa della donna saltò fuori da dietro la porta, e lei gli sorrideva: «Spaventato?»
«Non proprio» disse Sherman. «Recentemente sono stato spaventato da esperti in materia.»
Lei rise, e pareva un riso genuino. «Anche tu? Siamo una bella coppia, eh, Sherman?» E con questo gli tese le braccia, nel modo di chi vuole dare un abbraccio di benvenuto.
Sherman la fissò, stupefatto, confuso, paralizzato. I ragionamenti gli correvano nel cervello più in fretta di quanto potesse fare per controllarli. Eccola lì, in un vestito di seta nera - le sue gramaglie vedovili - ben stretto in vita in modo che il suo corpo ubertoso sgorgasse sopra e sotto. Gli occhi erano grandi e brillanti, i capelli scuri la perfezione in sé, nella loro assoluta lucentezza. Le labbra un poco curve, che lo avevano sempre fatto impazzire, erano piene e socchiuse in un sorriso. Ma tutto questo non portava ad altro se non a un certo felice accostamento di indumenti, carne e capelli. C'era una leggera macchia di peli scuri sulle braccia. Doveva scivolare tra quelle braccia e abbracciarla, se era questo che voleva lei! Era un momento assai delicato! Lui aveva bisogno di averla al fianco, fiduciosa, per il tempo necessario a ricevere nel microfono sopra lo sterno, e poi nel registratore sopra le reni, certe rivelazioni! Un momento delicato… e uno spaventoso dilemma! Supponiamo che io l'abbracci… e che lei senta il microfono… o che faccia scorrere le mani lungo la schiena! Non aveva pensato a quest'ipotesi neppure per un attimo. (Chi vorrebbe mai abbracciare un uomo equipaggiato?) Comunque… fa' qualcosa!
Perciò le si avvicinò, spingendo in avanti le spalle (Curvando la schiena, di modo che lei non potesse appiattirsi contro il suo torace. Così si abbracciarono, una voluttuosa e flessuosa cosettina giovane, e un uomo misteriosamente storpio.
Si liberò in fretta, abbozzando un sorriso, e lei lo guardò, come per chiedergli se stava bene.
«Hai ragione, Maria. Siamo una bella coppia, siamo in prima pagina.» Sorrise con filosofia. (E adesso andiamo al sodo!) Si guardò intorno nella stanza, nervosamente.
«Vieni» disse lei, «siediti.» Fece un gesto, indicando il tavolo di quercia a piede centrale. «Ti do qualcosa da bere? Che cosa ti andrebbe?»
Bene: sediamoci a parlare. «C'è dello scotch?»
Lei andò in cucina mentre lui abbassò lo sguardo sul petto per accertarsi che il microfono non si vedesse. Tentò di ripassare mentalmente le domande. Si chiese se il registratore era in azione.
Lei tornò quasi subito con il whisky per lui e un'altra cosa per sé, chiara: gin o vodka. Si sedette sull'altra sedia di legno ricurvo e accavallò le gambe, le sue gambe lucenti, e sorrise.
Sollevò il bicchiere come per un brindisi. Lui fece lo stesso.
«E così eccoci qui, Sherman, la coppia di cui parla tutta New York. Un sacco di gente vorrebbe sentire questa conversazione.»
Il cuore di Sherman sobbalzò. Moriva dalla voglia di sbirciare in basso per vedere se il microfono spuntasse da qualche parte. Insinuava qualcosa, lei? La studiò in viso. Non riuscì a capirlo.
«Sì, eccoci qui» disse. «Per dirti la verità, pensavo che tu avessi deciso di sparire, almeno per quel che mi riguardava. Da quando te ne sei andata, non ho passato dei momenti molto piacevoli.»
«Sherman, ti giuro che non sapevo niente di niente fino al mio ritorno.»
«Ma non mi avevi neppure detto che andavi via.»
«Lo so, ma non aveva niente a che fare con te, Sherman. Ero… ero quasi impazzita.»
«Per quale ragione?» Chinò la testa e sorrise, per mostrare che non era amareggiato.
«Per Arthur.»
«Ah! Per Arthur.»
«Sì. Tu pensi che io con Arthur avessi un rapporto molto libero e senza complicazioni, e in un certo senso era così ma dovevo anche viverci, con lui, e non c'era una vera libertà con Arthur. In un modo o nell'altro si riprendeva tutto. Ti ho detto, no, che aveva cominciato a trattarmi malissimo?»
«Sì, me lo avevi accennato.»
«Chiamandomi troia e puttana proprio davanti alle persone di servizio o ad altra gente, se gli andava. Che risentimento, Sherman! Arthur aveva voluto una moglie giovane, e poi si era risentito e mi odiava perché ero giovane e lui vecchio. Voleva gente eccitante intorno, perché pensava con tutti quei soldi di meritare gente eccitante, e poi si era risentito, e li odiava, e odiava me perché erano amici miei o perché s'interessavano più a me che a lui. Gli unici che si occupavano di Arthur erano quei vecchi ebrei, come Ray Radosz. Hai visto, spero, che figura da scemo ha fatto al funerale. Poi è venuto là dietro e ha tentato di abbracciarmi. Ho avuto paura che mi strappasse il vestito di dosso. Ma tu l'hai visto? Eri così nervoso! Continuavo a dirti di calmarti. Non ti avevo mai visto così. E quel bastardo ficcanaso del "City Light", quell'orribile inglese ipocrita, era proprio dietro di te. Ti ha sentito!»
«Lo so che ero nervoso» ammise. «Pensavo che mi stessi evitando. Avevo paura che fosse l'ultima occasione per parlare con te.»
«Non stavo evitandoti, Sherman. Sto cercando di spiegarti che l'unica persona che stavo evitando era Arthur. Me ne sono andata, e basta… io… non ci ho pensato sopra. Sono andata a Como, ma sapevo che lui avrebbe potuto scovarmi là. E così sono andata a far visita a Isabel Nodino. Ha una casa in montagna, in un paese fuori Como. È come un castello da libro di fiabe. Era magnifico. Niente telefonate. Non ho visto neppure un giornale.»
Tutta sola, a parte Filippo Chirazzi. Ma neppure questo importava. Nel tono più calmo che gli fu possibile disse: «Sono contento che tu sia potuta andar via, Maria. Ma sapevi che io ero preoccupato. Sapevi dell'articolo sul giornale, perché te l'avevo fatto vedere». Non riusciva a eliminare il nervosismo dalla voce. «La sera che c'era qui quel pazzo grande e grosso… te lo ricordi, ne sono certo!»
«Su, Sherman! Ti stai agitando di nuovo.»
«Sei mai stata arrestata?» chiese lui.
«No.»
«Be', io sì. È uno dei guai che mi sono capitati mentre tu eri via… Io…» Si bloccò, rendendosi conto di colpo che stava facendo una grossa sciocchezza. Farle paura con la prospettiva di venir arrestata era l'ultima cosa che doveva fare in quel momento. Perciò si strinse nelle spalle e disse: «Be', è stata una bella esperienza!» come a dire. "Ma non brutta come puoi pensare".
«Hanno minacciato anche me» lo informò Maria.
«Che cosa intendi dire?»
«Un tale della Procura distrettuale del Bronx mi è venuto a trovare oggi, insieme a due poliziotti.»
Sherman fu colto da shock. «Davvero?»
«Un piccolo bastardo pieno di arie. Si credeva un duro tremendo. Continuava a buttare la testa indietro e a fare cose turche con il collo, così, e a guardarmi con due occhi che parevano fessure oscene. Che verme!»
«Che cosa gli hai detto?» Ora, era davvero molto nervoso.
«Niente. Lui era troppo occupato a dirmi cosa avrebbe potuto fare a me.»
«Che cosa intendi dire?» Una fitta di panico.
«Mi ha parlato dì un testimone che ha a disposizione. Su questo punto si è mostrato davvero pomposo e ufficiale. Non ha voluto neppure dirmi chi era, ma ovviamente era l'altro ragazzo, quello grosso. Non sono capace di farti capire che razza di buffone era quello lì.»
«Si chiamava Kramer?»
«Sì. Era lui.»
«Lo stesso che era in tribunale quando mi ci hanno portato.»
«È andato diretto al punto, Sherman. Ha detto che se io testimonio contro di te e confermo ciò che ha detto l'altro testimone, mi farà dare l'immunità. Se non lo faccio, allora sarò trattata come complice, e mi incrimineranno per quei… delitti. Non ricordo quali.»
«Ma certo…»
«Mi ha perfino dato le fotocopie degli articoli dei giornali. Praticamente mi ha fatto una specie di mappa della situazione. Da un lato ci sono i fatti veri e dall'altro i fatti come li avevi concertati tu. Io dovrei confermare quelli che secondo lui rispondono alla verità. Se invece racconto quello che è successo veramente, finisco in prigione.»
«Ma tu gli hai detto quello che è successo davvero?»
«Io non gli ho detto niente. Prima volevo parlare con te.»
Lui stava seduto sul bordo della sedia. «Maria, in questa faccenda certe cose sono così chiare e nette, e loro neanche le conoscono. Hanno sentito soltanto bugie dal ragazzo che ha tentato di rapinarci! Per esempio, non è successo in una strada, è successo sopra una rampa d'accesso, esatto? E noi ci siamo fermati perché la sede stradale era bloccata, prima ancora di vedere delle persone. Esatto? Non è esatto?» Si accorse che la sua voce era aumentata d'intensità.
Un sorriso triste e pieno di calore, il sorriso che si rivolge a chi sta soffrendo, apparve sul volto di Maria, che si alzò e si mise le mani ai fianchi ed esclamò: «Sherman, Sherman, Sherman, che cosa possiamo fare di te?».
Mosse il piede destro in una certa sua maniera e lo fece ruotare per un attimo sul tacco della scarpa nera con i tacchi a spillo. Gli lanciò uno sguardo con i grandi occhi scuri e tese le mani verso di lui, palme in alto, in un gesto d'offerta.
«Vieni qui, Sherman.».
«Maria… è importante!»
«Lo so. Ma vieni qui.»
Cristo! Lo voleva riabbracciare. Di nuovo. Be'! Abbracciala, idiota! È un segno che vuol essere al tuo fianco! Abbracciala per salvarti la vita! Sì! Ma come? Sono equipaggiato! Ho una cartuccia di vergogna sopra il mio petto! Una bomba di disonore sopra le reni! E poi cosa farà lei? Piomberà sul letto? E poi? Be', santo Dio! Ragazzo! Lo sguardo sul viso di lei diceva: "Sono tua!". Era il tuo scontrino per venirne fuori! Non buttar via la fortuna! Fa' qualcosa! Agisci!
Si alzò dalla sedia. Si mosse furtivo verso quel che di meglio c'era al mondo. Si chinò in modo che il petto di lei non toccasse il suo e che le sue reni non potessero venir raggiunte dalle mani della ragazza. L'abbracciò come un vecchio che cerca di toccare la terra, e così portò la testa molto in basso. Il suo mento era praticamente sulla clavicola di lei.
«Sherman!» disse lei. «Qualcosa non va? Che cosa hai sulla schiena?»
«Nulla.»
«Sei tutto ingobbito.»
«Mi spiace.» Si spostò di fianco, con le braccia sempre attorno alle spalle di Maria. Tentò di abbracciarla di sbieco.
«Sherman!» lei si tirò indietro per un attimo. «Sei tutto sbilenco. Che cosa ti succede? Non vuoi che ti tocchi?»
«No! No… forse sono troppo teso. Non sai che cosa ho passato» Decise di insistere sulla cosa. «Non sai quanto mi sei mancata, quanto ho avuto bisogno di te.»
Lei lo studiò, poi gli gettò lo sguardo più caldo, umido, labiale possibile. «Be'!» disse, «sono qui.»
Lei fece un passo verso di lui. Ci siamo. Basta chinarsi! Basta con gli spostamenti laterali! Adesso doveva prendere i suoi rischi! Forse il microfono era abbastanza ben inserito perché lei non lo avvertisse, soprattutto se la baciava… se la baciava appassionatamente! Le braccia di lei dovevano rimanere attorno al suo collo. Finché le teneva in quel posto, mai sarebbe arrivata alle reni. Erano a pochi centimetri di distanza. Lui fece scivolare le sue braccia sotto quelle di lei, per portarle di forza attorno al collo. Le strinse le scapole, per trattenerle in alto. Un gesto goffo, ma necessario, essenziale.
«Oh, Maria!» Questa specie di gemito appassionato non gli era proprio, ma poteva funzionare, doveva funzionare.
La baciò. Chiuse gli occhi e lo fece nell'interesse della sincerità. Si concentrò per tenere le braccia alte sul corpo di lei. Era consapevole di essere vagamente impiastricciato di rossetto, saliva calda e odore del respiro di lei, che recava in sé l'aroma riciclato e vegetale di gin.
Un momento. Che cosa cavolo faceva lei? Stava liberando le braccia dalla stretta delle braccia di lui, giù giù verso i fianchi! Lui alzò i gomiti e tese i muscoli superiori delle braccia per cercare di allontanare le braccia di lei dal corpo, senza parere di farlo di proposito. Troppo tardi! Ormai lei aveva le mani sui suoi fianchi, e cercava di avvicinare i fianchi di lui ai suoi. Ma non erano abbastanza lunghe, le braccia di Maria! E se le mani di lei risalivano fino alle sue reni? Sporse il sedere in fuori. Se le dita di lei perdevano contatto con i suoi fianchi, forse lei avrebbe lasciato perdere. Le dita di Maria… dov'erano? Per un attimo non sentì niente. Poi… qualcosa alla vita, sul fianco. Cazzo! Confonderla… era la sua unica speranza. Le labbra di lei ancora premevano le sue. Lei si contorceva ritmicamente e appassionatamente. Lui si divincolò arretrando e muovendo i fianchi in qua e in là, per allontanarla. Le dita di lei… le aveva perse di nuovo. Ogni sua fibra nervosa era in allarme rosso, alla ricerca di individuarne la presenza. D'un tratto i fianchi della donna cessarono di dimenarsi. Le labbra erano sempre avvinghiate alle sue, ma il motore si era spento. Lei liberò la bocca e tirò indietro la testa di qualche centimetro, cosicché lui vide tre occhi fluttuare davanti al suo volto. Ma le braccia della donna erano ancora attorno a lui.
«Shennan! Che cos'hai sulla schiena?»
«Sulla schiena?» Cercò di spostarsi, ma lei non lo lasciò fare. Lo teneva sempre stretto tra le braccia.
«C'è come un oggetto, qualcosa di metallico o altro… una piastra, sulla schiena.»
Ora sentiva la pressione del braccio di lei. Era proprio sopra il registratore! Tentò di spostarsi leggermente prima da una parte poi dall'altra, ma lei aveva sempre la mano sull'oggetto. Tentò un autentico shimmy. Inutile! Adesso lo aveva ghermito in pieno!
«Sherman, che cos'è?»
«Non lo so. La mia cintura… la fibbia della cintura… non so.»
«Non puoi avere la fibbia della cintura sulla schiena!»
Ora si era completamente allontanata da lui davanti, ma ancora teneva la mano sul registratore.
«Maria! Cosa cavolo!?»
Si spostò di lato con una specie di arco, ma lei si spostò fulmineamente dietro di lui come un lottatore in cerca di una presa risolutiva. Colse per un attimo il viso di lei. Un mezzo sorriso… un mezzo cipiglio rabbioso… un brutto presagio.
Si liberò con uno strattone. Lei lo affrontò a muso duro.
«Sherman!» Shahman. Un sorriso beffardo che attendeva il momento buono per uscire in un urlo accusatorio. Lentamente: «Voglio sapere… che cosa hai sulla schiena».
«Per l'amor di Dio, Maria. Che cosa ti ha preso? Non è niente. Forse i bottoni delle bretelle… io non so.»
«Voglio vedere, Sherman.»
«Che cosa vuoi vedere?»
«Togliti la giacca.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Togliti la giacca. Voglio vedere.»
«È pazzesco!»
«Qui dentro ti sei tolto molto di più, Sherman.»
«Su, Maria, adesso sei proprio sciocca.»
«Allora accontentami. Fammi vedere cos'hai sulla schiena.»
Supplicante: «Maria, per favore. È troppo tardi per giocare».
Lei gli si avvicinò, un tremendo sorriso sempre in volto. Voleva far da sé! Vedere cosa c'era! Lui fece un salto di lato. Lei lo seguì. Lui si scansò di nuovo.
Una risatina forzatamente giocosa: «Che cosa fai, Maria?».
Prendendo a respirare con affanno: «Vedremo!». Lo caricò. Lui non riuscì a scansarsi. Gli mise le mani sul petto e cercò di afferrargli la camicia! Lui si coprì come una pulzella.
«Maria!»
L'urlo cominciò: «Tu stai nascondendo qualcosa, vero?».
«Adesso sta' calma…»
«Tu stai nascondendo qualcosa! Che cavolo hai sotto la camicia!?»
Gli balzò di nuovo addosso. Lui si scansò, ma, prima ancora che potesse accorgersene, lei gli fu alle spalle. Gli mise le mani sotto la giacca. Afferrò il registratore, anche se questo era ancora sotto la camicia, e la camicia era sempre infilata nei pantaloni. Lui sentì che glielo sfilava dalla schiena.
«È un filo, Sherman!»
Le abbassò la mano con la sua, per impedirle di tirarlo fuori. Ma la mano di lei era sotto la giacca e la sua sopra la giacca. Lui prese a saltellare, tenendo stretta rabbiosamente la cosa che si agitava sotto la giacca.
«È… un… registratore… brutto… bastardo!»
Le parole sprizzavano fuori in grugniti spaventosi mentre loro due saltellavano per la stanza. Soltanto lo sforzo la tratteneva dal gridare a gola spiegata.
Ora le aveva afferrato il polso. Doveva fare in modo che lei abbandonasse la presa. Strinse sempre più forte.
«Mi fai… male!»
Strinse ancora più forte.
Lei uscì in un urletto di dolore e lasciò andare. Per un attimo la rabbia intensa sul volto di lei lo paralizzò.
«Sherman… schifoso, disonesto bastardo!»
«Maria, ti giuro…»
«Tu… giuri, eh!» Lei gli si lanciò addosso di nuovo. Lui corse verso la porta. Lei gli afferrò una manica e la parte posteriore della giacca. Lui tentò di liberarsi. La manica cominciava a staccarsi dal corpo. Lui avanzò a fatica verso la porta. Sentiva il registratore che gli ballonzolava sulle natiche. Ormai pendeva sopra i pantaloni, da sotto la camicia, attaccato soltanto per il filo.
Poi ci furono una confusa visione di seta nera e un rumore secco. Maria era sul pavimento. Uno dei suoi tacchi alti si era piegato e la donna era scivolata. Sherman corse verso la porta. Non poteva far altro, la giacca gli bloccava le braccia.
Era nell'ingresso. Udì Maria che singhiozzava, e poi la sentì urlare:
«Giusto, giusto, scappa! Con la coda tra le gambe!»
Era vero. Stava scendendo traballando per le scale con il registratore penzolante sotto il sedere. Si sentiva pieno di vergogna, come un cane.
Quando fu al portone, la verità lo colpì. Con la sua stupidaggine, incompetenza e fifa era riuscito a perdere la sua ultima speranza.
Ahi! Padrone dell'Universo.