Arrivato alla macchina, frugai tra le carte che mi aveva dato il signor Repko. Tra di esse c'era la ricevuta fornita da Darcy e Maddux quando avevano restituito gli articoli presi in precedenza per esaminarli. L'elenco comprendeva un cellulare e un laptop, ma non un palmare e non ricordavo di averne visto uno in casa Repko.
Cercai il biglietto da visita di Darcy e lo chiamai per chiedergli se avessero trovato un palmare sul cadavere di Debra.
«Certo. Era nella borsa. Lo abbiamo restituito alla famiglia.»
«Non il cellulare, aveva anche un palmare.»
«Tipo un Blackberry?»
«Sì. Lo avete trovato?»
«Un momento...»
Scambiò qualche parola con qualcuno nella stanza, poi tornò in linea.
«No, niente del genere. Abbiamo trovato il cellulare, quello sì. Maddux dice che era un Samsung.»
«Ho appena parlato con Casey Stokes. La Leverage li fornisce a tutti i dipendenti. Debra aveva usato il suo quella sera alla cena.»
«Noi abbiamo trovato solo il Samsung. Abbiamo controllato l'elenco delle telefonate fatte con il cellulare e con il telefono fisso dall'appartamento. Se avessimo avuto il palmare avremmo controllato anche quello. Forse ce l'ha la famiglia.»
«Ce l'avrebbero se glielo aveste consegnato voi. Avrebbe dovuto trovarsi vicino al cadavere, nella macchina o nel suo appartamento.»
«Non so cosa dirti. So che stai pensando che può averlo preso l'assassino, ma come possiamo saperlo o dimostrarlo? Potrebbe anche averlo perso.»
«Un momento, Darcy. Rifletti. Se la Leverage forniva i palmari, probabilmente pagava anche le bollette.»
«So dove vuoi arrivare, ma non c'è niente che io possa fare. Se questo caso fosse ancora mio, mi farei dare un mandato per i tabulati delle telefonate e chiederei al gestore di fornirmi il testo di tutte le e-mail e dei messaggi. Ma non è più il mio caso. È passato a Marx e lui l'ha chiuso.»
«Sapevate che Marx è un cliente della Leverage?»
Darcy non rispose.
«Darcy?»
«Stai scherzando.»
«Quando la Leverage vi ha bloccati, ha trattato segretamente con Marx. Ha condotto lui le indagini per tenere i loro clienti lontano dai riflettori.»
«Quel figlio di puttana.»
«Già.»
«Ecco come mai ci hanno pressato perché facessimo marcia indietro. È stato carino da parte sua informarci.»
«Il nome di Marx non è mai saltato fuori?»
«Finora no. Maddux darà i numeri.»
Subito dopo chiamai Michael Repko. Michael ricordava che la sorella aveva un palmare, ma non sapeva dove fosse. Acconsentì a chiederlo ai genitori e ai fratelli. Stavo ancora parlando con lui quando un bip del telefono mi avvertì di una chiamata di Pat Kyle. Chiusi con Michael e passai a Pat.
«Sono o non sono la migliore?» esordì.
«Sono anni che lo sostengo e non solo per far arrabbiare tuo marito.»
«È il minimo che si merita. Hai da scrivere?»
«Sì. Hai trovato Tomaso?»
«È con un'agenzia pubblicitaria che si chiama Figg-Harris. Figg ha cercato di contattarlo per chiedergli se poteva dare il suo numero di telefono, ma il ragazzo non ha risposto alle sue chiamate. Ho dovuto fare pressioni.»
«Ho capito. Spara.»
«Okay. Questo è il cellulare.»
Mi dettò un numero che cominciava con il prefisso 818, e un indirizzo di North Hollywood. La ringraziai e poi chiamai il numero di Angel, ma non ebbi miglior fortuna del suo agente. Dopo cinque squilli rispose la segreteria.
«Ciao, sono Andy, il mito prossimo venturo. Lasciate un messaggio e vi richiamerò. Pace.»
Andy. Il mito prossimo venturo.
Lasciai il mio messaggio, ma non attesi che il mito prossimo venturo mi richiamasse. Partii e mi diressi a nord.
L'inebriante limpidezza goduta quando soffiava il Santa Ana era sparita insieme al vento. L'aria era sonnolenta, densa di foschia. Un velo di bruma avvolgeva l'insegna di Hollywood e le cime dei grattacieli lungo il Wilshire Corridor.
Era quasi l'una quando uscii dall'autostrada all'altezza degli Universal Studios diretto da Henry's Tacos. Dopo quattro taco svoltai in una bella strada residenziale incuneata nell'area pianeggiante tra Toluca Lake e Studio City. L'edificio principale era una piccola casa in stile Craftsman con un grande portico e un cartello IN VENDITA in giardino. Il vialetto che correva di lato alla casa portava a un garage sul retro convertito in dépendance.
Lasciai l'auto in strada e mi avviai a piedi lungo il vialetto.
La doppia porta di quello che un tempo era il garage era stata sostituita da porte finestre dotate di veneziane per garantire un minimo di privacy. Sullo spiazzo davanti alle porte erano stati sistemati un tavolo da giardino e delle sedie, riparati dal sole da un pergolato di buganvillea cremisi. Bussai sul vetro.
«Angel? Sono Elvis Cole.»
Angel non rispose.
Bussai di nuovo, poi mi spostai in giardino. Sul lato della dépendance c'erano due finestre e una porta, probabilmente risalenti ai tempi in cui la struttura era ancora un garage. Il giardino era protetto dagli sguardi dei vicini da una recinzione ricoperta di campanule rampicanti e altra buganvillea. Campanule viola e buganvillea facevano a gara per attirare l'attenzione.
La porta laterale era chiusa, e le finestre erano protette da tende. Tornai alle portefinestre, bussai di nuovo, poi decisi di andare a parlare con i padroni di casa. Se non altro, avrei potuto chiedere loro di avvertire Angel che ero passato a cercarlo.
Ridiscesi il vialetto, salii i gradini del portico e suonai il campanello. Nessuno rispose neppure lì. Avvicinando il volto alla finestra riuscii a vedere il soggiorno, il tinello e parte del corridoio. Senza mobili. I proprietari o gli inquilini se n'erano già andati. Forse anche Tomaso se n'era andato e non si era premurato di informare il suo agente, ma mi sembrava poco probabile. Gli attori che cercano di affermarsi vivrebbero nelle tasche dei loro agenti, se potessero.
Tornai alla dépendance con l'intenzione di lasciare un biglietto ma, dopo averlo scritto, decisi di chiamare Angel ancora una volta. Poteva essere dietro l'angolo come pure essere partito per Las Vegas con degli amici e stare via settimane.
Quando il cellulare suonò lo sentii squillare dentro la casa. Abbassai il mio telefono e rimasi in ascolto. Cinque squilli e poi più nulla. Dal mio cellulare giunse il messaggio registrato di Angel.
«Angel?» dissi.
Niente.
Misi via il telefono e bussai di nuovo. Poi provai ad aprire. La prima coppia di portefinestre era chiusa a chiave, la seconda, però, si aprì come abbassai la maniglia.
La dépendance era un monolocale arredato con mobili da quattro soldi: un tavolo, un televisore e un divano letto. Sul tavolo erano posati un cellulare, un portafoglio e delle chiavi. Sul pavimento erano impilati manuali di recitazione e regia, alle pareti erano appesi manifesti non incorniciati di thriller moderni tipo Il grande Leborvski e Gone Baby Gone. L'arredamento era ridotto al minimo, ma Angel aveva riempito l'appartamentino con le cose tipiche di un aspirante attore, cose che non avrebbe mai più rivisto.
Angel Tomaso era sdraiato a faccia in giù sul divano con un lato della testa così incrostato di sangue da risultare nero nella luce incerta della stanza. Indossava un paio di boxer e una maglietta. Le braccia e le gambe nude erano scure nei punti in cui il sangue si era depositato. Qualcuno aveva scritto sulla parete a lettere rosse irregolari: TI HO AMATO.
Restai in ascolto, ma Angel era solo. Il minuscolo appartamento era silenzioso, a parte un'unica mosca che continuava a volare in cerchio sul cadavere. Nel tempo che rimasi lì a guardare sulla porta, altre mosche si aggiunsero alla prima.
Entrai e andai verso il cadavere. Il divano sotto la testa era nero di sangue e sul soffitto sopra il corpo si vedeva una sottile scia di sangue provocata dal ripetuto sollevarsi dell'arma. Il lato della testa sotto l'orecchio destro era stato colpito più volte con un corpo contundente. Qualunque oggetto fosse stato usato per ucciderlo, non si trovava più lì.
Il messaggio sembrava essere stato scritto con il sangue, ma quando guardai meglio mi resi conto che si trattava di rossetto.
Le porte e le finestre non avevano segni di effrazione. L'appartamento era in ordine e non pareva essere stato perquisito. Feci attenzione a non lasciare impronte e a non inquinare la scena. Il portafoglio conteneva sessantadue dollari, una carta di credito Visa e una Mastercard. Sul bancone del cucinino era posata una lettera della zia, ancora chiusa. Vederla mi rattristò, e pensai che avrebbe fatto meglio ad aprirla quando ancora ne aveva l'occasione.
Osservai il corpo e le tracce di sangue per un po', poi uscii per chiamare la polizia. Sedetti al tavolino sotto la buganvillea e inspirai l'aria profumata, così diversa dall'odore dentro casa. Avrei dovuto chiudere le porte, ma non lo feci. Era rimasto solo già troppo a lungo. Pensai a sua zia e capii che sarebbe stata dura per lei e per il resto della famiglia a Austin. Era sempre dura, quando morivano in quel modo.
Ero ancora seduto lì quando due agenti in uniforme varcarono il cancello, risalirono il vialetto e mi vennero incontro. Quando videro il corpo di Angel attraverso le portefinestre aperte, mi ordinarono di alzare le mani.