Martedì 10 settembre 2013 Mattina
Quando il treno si ferma al semaforo, senti un cambiamento nell’atmosfera: è come il ronzio della corrente elettrica. Adesso non sono l’unica a guardare fuori dal finestrino, forse non lo sono mai stata. Di solito, i passeggeri osservano le case che sfilano lungo i binari, ma le vedono in maniera diversa. Ora però tutti vedono la stessa cosa; qualcuno ne parla a voce alta.
«Eccola, è quella! No, è l’altra, sulla sinistra! Quella con le rose vicino alla recinzione: è lì che è successo!»
Le case al civico 15 e 23 sono vuote. Porte e finestre sono aperte, ma soltanto perché sono state messe in vendita e quindi sono visitabili dai potenziali acquirenti. Ci vorrà un po’ prima che qualcuno si decida a comprarle. Gli agenti immobiliari accompagneranno soprattutto curiosi e ficcanaso, che vogliono vedere il punto esatto in cui lui è caduto e il suo sangue ha inzuppato la terra.
Mi fa male immaginare tutta la gente che camminerà in quelle stanze, nella casa delle mie speranze. Cerco di non pensare a quello che è successo dopo. Ci provo, ma non ci riesco.
Io e Anna, impregnate del suo sangue, ci siamo sedute fianco a fianco, sul divano: le due mogli, in attesa dell’ambulanza. Anna ha chiamato la polizia e i soccorsi, si è occupata di tutto. Prima sono arrivati i medici, ma era troppo tardi per Tom; poi i poliziotti in divisa, e infine gli investigatori, la Riley e Gaskill. Quando ci hanno viste insieme, sono rimasti a bocca aperta. Ci hanno interrogate, ma io non ero in grado di rispondere. Non ce la facevo nemmeno a respirare. Anna, invece, era calma e ha dato tutte le risposte.
«È stata legittima difesa. Ho visto tutto, dalla finestra. Lui l’ha inseguita con il cavatappi. Voleva ucciderla, e lei non ha avuto scelta. Ho provato a...» Solo allora ha esitato, e l’ho vista piangere. «Ho provato a fermare l’emorragia, ma non ci sono riuscita.»
Un poliziotto ha preso Evie, che era rimasta addormentata per tutto il tempo, e ci ha portate al commissariato. Hanno sistemato me e Anna in stanze separate e ci hanno fatto altre domande, che però non ricordo. Mi sforzavo di concentrarmi, di parlare. Ho detto che mi aveva picchiata con una bottiglia e che poi mi aveva aggredita con il cavatappi. Ero riuscita a sottrargli l’arma e a usarla contro di lui, per difendermi. Mi hanno visitata e hanno controllato le ferite alla testa, alle mani, alle unghie.
«Non sembrano ferite da difesa» ha commentato la Riley, dubbiosa. Poi mi hanno lasciata nella stanza; sulla porta c’era un poliziotto di guardia. Era il ragazzo con l’acne che era venuto a casa con Gaskill. Poi la Riley è tornata. «La signora Watson conferma la sua versione. Adesso può andare.» Non riusciva a guardarmi negli occhi. Un agente mi ha accompagnata all’ospedale, dove mi hanno suturato la ferita alla testa.
I giornali hanno parlato a lungo di Tom. Ho scoperto che non aveva mai fatto il servizio militare. Aveva provato a entrare nell’esercito, ma era stato respinto due volte. Anche la storia di suo padre era una bugia: lui aveva sottratto i risparmi ai genitori e li aveva sperperati. Loro lo avevano perdonato, ma lui aveva tagliato i ponti quando il padre si era rifiutato di ipotecare la casa per prestargli altro denaro. Aveva mentito sempre, su tutto, anche quando non ce n’era bisogno.
Ricordo bene quando Scott, parlando di Megan, mi aveva detto: « Non ho idea di chi fosse realmente». Mi sento proprio come lui. La vita di Tom era fondata sulle menzogne: falsità e mezze verità, che lo facevano apparire migliore e più interessante di quanto non fosse in realtà. E io me le sono bevute tutte, ci sono cascata in pieno, così come Anna. Noi eravamo innamorate di lui. Mi chiedo se avremmo mai potuto amare la versione più debole, difettosa e meno abbellita. Io penso di sì: gli avrei perdonato tutti gli errori e i fallimenti. Dopotutto, ne ho commessi tanti anch’io.