Sera

Salgo gli scalini della stazione di Corly e mi tremano ancora le gambe: dev’essere l’adrenalina. Il treno è pieno, impossibile trovare un posto a sedere, così mi fermo a metà del vagone. Fa un caldo insopportabile. Respiro piano, mi guardo i piedi. Cerco di dare un senso a quello che provo.

Gioia, paura, confusione e, soprattutto, senso di colpa.

Non è andata come mi aspettavo.

Quando sono arrivata allo studio, ero in preda al panico: ero convinta che avrebbe capito subito che sapevo tutto e mi avrebbe vista come una minaccia. Temevo di dire la cosa sbagliata, di lasciarmi sfuggire il nome di Megan. Sono entrata in sala d’attesa, una stanza piuttosto anonima, e ho parlato con una segretaria di mezz’età. Lei ha annotato i miei dati senza nemmeno guardarmi. Mi sono seduta a sfogliare una vecchia copia di «Vogue» cercando di sembrare annoiata, come gli altri pazienti. Tremavo e pensavo alla mia prossima mossa.

C’erano due persone, oltre a me: un ragazzo sui vent’anni, intento ad armeggiare con il telefonino, e una donna che fissava il pavimento e non ha sollevato la testa nemmeno quando la segretaria ha chiamato il suo nome. Si è alzata e si è allontanata: sapeva già dove andare. Ho aspettato cinque minuti, forse dieci. Avevo il respiro corto; l’aria in quella stanza era afosa e opprimente, facevo fatica a respirare. Temevo di svenire da un momento all’altro.

Poi una porta si è aperta ed è uscito un uomo. E ancor prima di vederlo, ero certa che fosse lui. Certa come lo ero stata la mattina in cui lo avevo visto per la prima volta, quando sapevo che non poteva essere Scott quella sagoma indistinta che si muoveva verso Megan. Quella figura alta, dai gesti languidi.

«Signora Watson?»

Ho alzato gli occhi e ho sentito un brivido lungo la schiena. Gli ho stretto la mano: era calda, asciutta ed enorme, molto più grande della mia.

«Prego» ha aggiunto, invitandomi a entrare nello studio. Stavo ripercorrendo le orme di Megan. Lei aveva fatto le medesime cose: si era seduta di fronte a Kamal, sulla stessa sedia, e lui aveva intrecciato le mani nello stesso modo, aveva annuito con lo stesso cenno del capo, chiedendole: «Bene, di cosa vuole parlarmi oggi?».

Tutto in lui emanava calore: la sua mano, quando l’ho stretta, il suo sguardo, anche il tono della sua voce. Cercavo indizi che mi mostrassero la presenza del maniaco brutale che aveva spaccato la testa a Megan, del rifugiato politico traumatizzato dalla violenza della guerra. Non ho visto niente del genere. E, per un po’, mi sono dimenticata di me stessa e che lui avrebbe dovuto incutermi timore. Ero lì, e il panico era sparito. Ho cercato di concentrarmi su quello che dovevo dirgli. Gli ho raccontato che avevo problemi con l’alcol, da quattro anni, e che questo mi era costato il matrimonio e il lavoro, senza contare che stavo mettendo a rischio la mia salute fisica e forse anche quella mentale.

«Dimentico le cose. Soffro di una forma di amnesia e non ricordo dove sono stata o quello che ho fatto. A volte mi viene il dubbio di essermi comportata in maniera terribile, ma non ne conservo memoria. E se... se qualcuno mi racconta quello che ho fatto, mi sembra impossibile che sia successo davvero. È come se parlassero di un’altra persona. Ed è difficile sentirsi responsabili di qualcosa che non si ricorda, quindi non provo mai abbastanza senso di colpa. Sto male, ma non mi riconosco nelle azioni che mi attribuiscono. È come se non mi appartenessero.»

Mi è uscito tutto di getto, dopo pochi minuti che ero con lui. Ero pronta a parlare, aspettavo soltanto la persona giusta per farlo. Non avrebbe dovuto essere lui. Mi ha ascoltata in silenzio, senza battere ciglio o prendere appunti, poi ha annuito. «Lei vuole assumersi la responsabilità delle sue azioni ma le risulta difficile, dal momento che non riesce a ricordarle?»

«Sì, è proprio così.»

«Quindi come possiamo assumerci le nostre responsabilità? Può scusarsi, certo, e anche se non è sicura di aver commesso qualcosa di sbagliato non significa che le sue scuse non siano sincere.»

«Ma io voglio sentire il pentimento. Io vorrei... vorrei stare peggio.»

Lo so che è strano, ma ci penso in continuazione: non mi sento abbastanza in colpa. Io so di cosa sono responsabile, sono consapevole delle cose tremende che ho fatto, pur non ricordandone i dettagli, ma sono lontane da me. È come se le osservassi attraverso un vetro.

«Lei crede di doversi sentire peggio? Pensa di non stare abbastanza male per i suoi errori?»

«Esatto.»

«Rachel, mi ha detto di aver causato la fine del suo matrimonio e di aver perso il lavoro: non ritiene di aver ricevuto una punizione abbastanza severa?»

Ho scosso il capo.

Abdic si è appoggiato allo schienale. «Forse lei è un po’ troppo dura con se stessa.»

«No, non lo sono.»

«Va bene. Facciamo un passo indietro: ha detto di aver iniziato a bere... quattro anni fa? Può parlarmi di quel periodo?»

Ho esitato. Il suono della sua voce e la dolcezza dei suoi occhi non mi avevano soggiogata del tutto. Non ero così disperata. Non gli avrei raccontato la verità: che desideravo un figlio, più di qualsiasi altra cosa al mondo. Gli ho detto che il matrimonio era andato in pezzi, che ero depressa, che l’alcol mi era sempre piaciuto e avevo perso il controllo della situazione.

«Il suo matrimonio è finito, quindi. Lei ha lasciato suo marito o è stato lui ad andarsene, oppure... è stata una decisione consensuale?»

«Lui aveva un’amante. Ha incontrato un’altra e si è innamorato di lei.» Ha annuito, voleva che continuassi. «Non è stata colpa sua: è stata soltanto colpa mia.»

«Perché dice questo?»

«Avevo già iniziato a bere...»

«Quindi l’adulterio di suo marito non è stata la causa scatenante della separazione?»

«No. Io ci ero già dentro fino al collo, e il mio alcolismo lo ha allontanato da me. È per questo motivo che ha smesso di...»

Kamal aspettava che parlassi, senza forzarmi.

«Che ha smesso di amarmi.»

Ho avuto una reazione che non avevo previsto: sono scoppiata a piangere davanti a lui. Non avrei dovuto abbassare la guardia e parlargli della mia vita: mi sarei dovuta inventare una storia. Mi sarei dovuta preparare meglio.

L’ho guardato e per un attimo ho sentito che lui provava qualcosa per me. I suoi occhi non esprimevano pena, ma comprensione: voleva davvero aiutarmi.

«Allora, Rachel, lei ha iniziato a bere prima della fine del suo matrimonio. Riesce a individuare una causa? Non è facile, non tutti sono in grado di farlo. Per alcuni, si tratta di un declino lento e progressivo, che li fa cadere in uno stato di depressione o dipendenza. A lei è capitato qualcosa di specifico? Un lutto, per esempio, o una perdita?»

Ho scosso la testa: non volevo dirglielo. Non glielo dirò.

Ha aspettato qualche minuto, poi ha guardato l’orologio sulla scrivania.

«Ne riparliamo la prossima volta, che ne dice?» ha suggerito, poi mi ha sorriso e io sono rabbrividita.

Tutto è caldo in quell’uomo, tranne il suo sorriso. Quando ha scoperto i denti ho visto l’assassino che vive in lui. Ho sentito lo stomaco contorcersi, il cuore battere impazzito. Me ne sono andata senza nemmeno stringergli la mano: non ce la facevo a toccarlo.

Capisco, davvero. Ora so cosa ha visto Megan in lui: non soltanto la sua innegabile bellezza. È calmo e rassicurante, gentile e paziente. Un essere innocente, fiducioso e un po’ sprovveduto può lasciarsi ingannare e non vedere oltre l’apparenza. Ma io ho scorto il predatore. Per un’ora, sono stata affascinata da lui. Mi sono confidata, ho dimenticato chi era. Ho tradito Scott e anche Megan, e mi sento in colpa per averlo fatto.

Ma, più di ogni altra cosa, mi sento in colpa perché voglio tornare da lui.

La ragazza del treno
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