Sera

Si è tagliato mentre si faceva la barba; ha un po’ di sangue sulla guancia e sul colletto. Ha i capelli umidi e profuma di sapone e dopobarba. Mi saluta con un cenno del capo, poi si sposta per farmi passare, ma non dice nulla. La casa è buia; le tende sono tirate, le finestre chiuse. Ci sono molti contenitori Tupperware sugli scaffali della cucina.

«Tutti hanno portato qualcosa da mangiare» spiega, poi mi invita a sedermi, mentre lui rimane in piedi, con le braccia lungo i fianchi. «Cosa volevi dirmi?» Non mi guarda nemmeno in faccia, si muove come un automa. Mi dà l’idea che abbia gettato la spugna, ormai.

«Volevo parlarti di Anna Watson, chiederti... Com’era il suo rapporto con Megan? Andavano d’accordo?»

Lui sembra perplesso. Appoggia le mani allo schienale della sedia. «No. Cioè... non è che si odiassero, però non si conoscevano bene, non c’era un vero rapporto tra di loro. Perché vuoi saperlo?» Il tono è stanco, affaticato.

Devo uscire allo scoperto. «L’ho vista. Penso di averla vista, vicino al sottopassaggio della stazione. Quella sera... la sera della scomparsa di Megan.»

Lui scuote la testa, cerca di afferrare quello che ho appena detto. «Cosa? L’hai vista? E tu dov’eri?»

«C’ero anch’io. Stavo andando da Tom, il mio ex marito, ma...»

Strizza gli occhi e si massaggia la fronte. «Aspetta un attimo! Tu eri lì e hai visto Anna Watson? E allora? Lo so che c’era anche lei: abita a pochi metri da noi. Ha riferito alla polizia di essere andata alla stazione verso le sette, ma di non aver incontrato Megan.» Stringe la sedia, sta perdendo la pazienza. «Cosa stai cercando di dirmi?»

«Avevo bevuto» spiego, e subito dopo arrossisco per la vergogna, come al solito. «Non ho un ricordo preciso, ma ho come l’impressione che...»

Scott solleva la mano. «Basta così! Non voglio sentire altro! Tu hai un problema con il tuo ex e con la sua nuova moglie, mi sembra ovvio, ma questo non ha niente a che fare con me e con Megan, hai capito? Ma non ti vergogni? Hai idea di quello che sto passando? Lo sai che la polizia mi ha interrogato stamattina?» Stringe la sedia con forza, come se volesse spezzarla. «E tu vieni qui a raccontarmi queste stronzate! Mi dispiace che la tua vita sia un disastro, ma credimi, rispetto alla mia è una passeggiata di salute! Quindi, per favore...» Indica la porta.

Mi alzo. Mi sento davvero ridicola. «Volevo aiutarti. Io volevo solo...»

«Ma tu non puoi, hai capito? Non puoi aiutarmi. Nessuno può farlo! Mia moglie è morta e la polizia pensa che sia stato io a ucciderla!» Ha alzato la voce, è paonazzo in viso. «Credono che io sia il colpevole!»

«Ma... Kamal Abdic...»

Scaglia la sedia contro la parete. Faccio un balzo indietro, spaventata, ma lui non si muove. Resta fermo, con le mani sui fianchi. Le vene del collo pulsano sotto la pelle.

«Kamal Abdic non è più sospettato» sibila a denti stretti. Sta lottando per rimanere calmo, ma è schiumante di rabbia. Voglio andarmene, però lui mi blocca il passaggio.

«Lo sai cosa ha detto?» mi chiede, mentre si volta per raccogliere la sedia. No, non lo so, è ovvio, ma lui non sta più parlando con me. «Kamal ha raccontato un sacco di palle. Sostiene che Megan era infelice, che io ero geloso, possessivo e che la sottoponevo a... Che parole ha usato? A violenze psicologiche.» È disgustato. «Stando a lui, Megan aveva paura di me.»

«Ma lui è...»

«Non è l’unico. La sua amica, Tara, dice che a volte le aveva chiesto di coprirla, di mentirmi per non farmi sapere dov’era e cosa faceva.»

Mette a posto la sedia, che però cade a terra. Io mi sposto verso l’uscita, allora lui mi guarda. «Sono colpevole. Praticamente mi hanno già condannato.»

Allontana la sedia rotta con un calcio e si accascia su un’altra. Non so cosa fare: rimango o me ne vado? Lui riprende a parlare, la sua voce è poco più di un sussurro. «Aveva il cellulare in tasca.» Mi avvicino. «C’era un messaggio che io le avevo mandato. È l’ultima cosa che le ho detto, le ultime parole che ha letto. Va’ al diavolo, stronza bugiarda

Ha abbassato la testa, inizia a tremare. Sono abbastanza vicina da toccarlo. Gli appoggio le dita sulla nuca, e lui non mi respinge.

«Mi dispiace.» Non è una frase di circostanza. Sono davvero sconvolta dalle sue parole, perché so benissimo cosa significa amare qualcuno e dirgli le cose più tremende, in un momento di rabbia o di angoscia. «Un sms non è sufficiente. Se è tutto quello che hanno...»

«Ah no?» Si riscuote e allontana la mia mano. Vado a sedermi davanti a lui. «Ho un movente. Non mi sono comportato... Non ho reagito come avrei dovuto quando lei se n’è andata. Ci ho messo troppo a preoccuparmi e a provare a chiamarla.» Ride. «E poi, secondo Kamal Abdic, sono un tipo violento.» Mi guarda e vedo una luce di speranza nei suoi occhi. «Ma tu... tu potresti parlare alla polizia e dire che non è vero, che lui sta mentendo. Puoi raccontare un’altra versione della storia, convincerli che io ero innamorato di lei, che eravamo una coppia felice.»

Adesso sì che sono terrorizzata: lui crede che io possa aiutarlo. Si fida di me, ma io sono soltanto una bugiarda.

«Non mi crederebbero» replico. «Mi ritengono una testimone inaffidabile.»

Il silenzio riempie la stanza; una mosca sbatte contro i vetri della porta-finestra. Scott si gratta la crosticina sulla guancia. Sposto la sedia e lui mi guarda.

«Tu eri qui» dice, come se avesse capito soltanto adesso le parole che gli ho detto un quarto d’ora fa. «Tu eri a Witney la sera della scomparsa di Megan?»

Sento il sangue pulsarmi nelle orecchie. Annuisco.

«E perché non l’hai riferito alla polizia?» Si sta arrabbiando.

«L’ho fatto, ma non ho visto... non ricordo nulla.»

Si avvicina alla porta a vetri e apre le tende. Il bagliore del sole è accecante.

«Eri ubriaca, ma devi ricordare qualcosa. Per forza, è per questo che continui a venire qui, no?» Si volta a guardarmi. «Ho ragione, vero? È per questo che insisti a chiamarmi. Tu sai qualcosa.» Non è una domanda, e nemmeno un’accusa o un’ipotesi: lui ne è convinto. «Hai visto la sua auto? Pensaci: è un’Opel Corsa blu.» Io scuoto la testa e lui solleva le braccia, in un gesto di disappunto. «Non arrenderti: concentrati! Che cosa hai visto? Hai visto Anna Watson, ma questo non significa nulla. Avanti, pensa!»

Cerco disperatamente di ricostruire le immagini della mia memoria, ma è uno sforzo inutile. Non vedo niente di reale, niente che possa essere d’aiuto. Stavo litigando, o forse ho assistito a una lite. Sono inciampata sugli scalini della stazione, un tizio con i capelli rossi mi ha aiutata: è stato gentile con me, però adesso mi fa paura. Avevo un taglio sulla testa, uno sul labbro e lividi sulle braccia. Ricordo di essere stata nel sottopassaggio: era buio ed ero spaventata. Ho sentito delle voci, qualcuno chiamava il nome di Megan. No, quello era un sogno, non era vero. Ricordo il sangue: sulla testa, sulle mani. Ricordo Anna, ma non Tom, né Kamal, Scott o Megan.

Lui non smette di fissarmi, aspetta che dica qualcosa; vuole parole di speranza, ma non ho nulla da offrirgli.

«È successo tutto quella sera» afferma. Torna a sedersi al tavolo, più vicino a me. Suda e trema, come se avesse la febbre. «Loro pensano che sia successo quella sera... anche se non possono esserne sicuri a causa... a causa delle condizioni del corpo.» Sospira. «Ma credono sia accaduto allora, o subito dopo.» Sta di nuovo parlando alla stanza, come se io non ci fossi. Lo ascolto in silenzio: il decesso è stato provocato da un colpo alla testa, il cranio era fratturato in più punti. Non è stata stuprata o, almeno, non è possibile stabilirlo con certezza: il cadavere era ridotto in pessimo stato.

Torna in sé e vedo la paura e la disperazione nel suo sguardo.

«Se ricordi qualcosa, devi aiutarmi. Rachel, per favore, fai uno sforzo di memoria!» Il mio nome sulle sue labbra, sentirlo mi provoca un senso di nausea. Mi sento patetica, inutile.

Sul treno, mentre torno a casa, ripenso a quello che ha detto e mi chiedo se possa esserci un fondo di verità. Sono ossessionata da questa storia perché c’è qualcosa che è rimasto intrappolato dentro la mia testa? Ho delle informazioni che vorrei disperatamente rivelare? Provo qualcosa per lui, un sentimento al quale preferisco non dare un nome, perché so che è sbagliato, oppure c’è dell’altro? Se la mia mente custodisce un segreto, allora devo trovare qualcuno che mi aiuti a svelarlo. Uno psichiatra o uno psicoterapeuta, per esempio: qualcuno come Kamal Abdic.

La ragazza del treno
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