Domenica 18 agosto 2013 Mattina presto
Sono rimasta in soggiorno per tutta la notte, con la tv accesa. La paura andava e veniva, come le mie forze. Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo: la vecchia ferita è ancora aperta e sanguina copiosamente. Sono stata una sciocca, lo so. Solo una stupida poteva pensare di avere un’altra possibilità con lui: è bastata una conversazione, un momento che io ho scambiato per tenerezza, ma che era soltanto un po’ di sentimentalismo, condito di senso di colpa. Eppure mi fa male. Questa volta non devo evitare il dolore, ma assaporarlo fino in fondo: se non lo farò, se continuerò a stordirmi, non se ne andrà mai via.
Sono stata un’imbecille a pensare che ci fosse un legame tra me e Scott, e che potessi aiutarlo. Sono una cretina, ormai lo so, ma posso cambiare, vero? Non sono obbligata a continuare in questo modo. Sono rimasta qui tutta la notte e mi sono ripromessa di riassumere il controllo della mia vita. Andrò via, a mille chilometri di distanza. Mi cercherò un lavoro e tornerò ad avere il mio cognome da nubile. Taglierò i ponti con Tom, sarà difficile rintracciarmi. Ammesso che ci sia qualcuno intenzionato a farlo.
Non ho dormito molto. Sono stata qui a progettare il mio futuro; ogni volta che stavo per prendere sonno, sentivo la voce di Tom, chiara come se lui fosse stato vicino a me: Eri sbronza da far schifo. Eri in uno stato pietoso. Allora mi svegliavo di soprassalto, piena di vergogna. Ma non era soltanto la vergogna: era anche un fortissimo déjà-vu. Avevo già sentito quelle frasi, quelle stesse parole.
Non riuscivo a fermare le immagini che vorticavano nella mia testa. Mi ero svegliata con il cuscino macchiato di sangue, mi faceva male la bocca, come se avessi battuto la guancia, avevo le unghie sporche, la testa a pezzi, poi Tom era uscito dal bagno con un’espressione strana, a metà tra la rabbia e il dispiacere, e la paura mi aveva di nuovo travolta, come un’onda.
«Cosa è successo?»
Tom mi aveva mostrato i lividi sulle braccia, sul petto, dove lo avevo colpito.
«Tom, non è possibile. Io non ti ho picchiato. Non ho mai alzato le mani su nessuno, in tutta la mia vita.»
«Rachel, eri ubriaca marcia. Ricordi qualcosa di ieri sera? Quello che hai detto?» Me lo aveva ricordato lui, io non ci credevo perché non sembravano parole uscite dalla mia bocca. E quella faccenda della mazza da golf, il buco nell’intonaco, bianco e grigio come un occhio che mi scrutava ogni volta che passavo, e io non riuscivo a far combaciare la violenza di cui mi parlava con la paura che ricordavo di aver provato. O che credevo di ricordare.
A un certo punto, avevo smesso di chiedergli cosa avevo fatto, e anche di negare, quando lui me lo raccontava, perché non volevo conoscere i dettagli, non volevo ascoltare il peggio, e tutte le cose orrende che avevo detto e fatto quando ero sbronza da far schifo. A volte mi minacciava di registrarmi e farmi risentire le mie parole. Ma non lo ha mai fatto, per fortuna.
Dopo un po’, avevo capito che quando mi svegliavo in quelle condizioni non dovevo chiedere cosa era successo, solo scusarmi per quello che avevo combinato, per ciò che ero e giurare che non lo avrei fatto mai più.
Ma adesso non sono ubriaca. Devo ringraziare Scott se sono così spaventata da non avere il coraggio di uscire a comprarmi qualcosa da bere. Ho paura di perdere la lucidità, perché è proprio in quel momento che divento più vulnerabile.
Devo essere forte, non ho altra scelta.
Mi si chiudono gli occhi per il sonno. Spengo la tv, così non ci sono più rumori, mi rigiro e mi rannicchio perché sento che stavolta sto per addormentarmi. Ed è allora che accade: bang! La terra si spalanca e io balzo in piedi, con il cuore in gola. L’ho visto, adesso l’ho visto!
Ero nel sottopassaggio e lui veniva verso di me; mi ha dato uno schiaffo colpendomi la bocca, poi ha alzato il pugno. Aveva le chiavi in mano, ho sentito un dolore lancinante quando il bordo seghettato mi ha lacerato il cranio.