Martedì 25 settembre 2012 Mattina

Stamattina mi sono svegliata presto, ma qualche ora ho dormito, che è già un miglioramento rispetto alla settimana scorsa. Mi sento quasi rigenerata, quindi non esco in terrazza ma decido di fare una passeggiata.

Mi sto isolando, quasi senza accorgermene. Gli unici luoghi che frequento sono i negozi, le lezioni di pilates e lo psicologo. Ogni tanto vado da Tara, ma per tutto il resto del tempo rimango chiusa in casa. Non c’è da stupirsi che non riesca a riposare.

Esco, svolto a destra e poi a sinistra, in Kingly Road. Passo davanti al pub, il Rose. Ci andavamo sempre; non ricordo perché abbiamo smesso. Non mi piaceva molto, a dire il vero: troppe coppie sulla quarantina che si guardano intorno in cerca di qualcosa di meglio, ma alle quali manca il coraggio di osare. Forse per questo abbiamo smesso di frequentarlo: perché non piaceva a me. Supero il pub e i negozi. Non voglio allontanarmi troppo, solo quattro passi per sgranchirmi le gambe.

È bello uscire la mattina presto, prima che inizi la scuola e i pendolari si mettano in viaggio; le strade sono vuote e pulite, il giorno è pieno di possibilità. Svolto a destra e costeggio il piccolo parco giochi, l’unico spazio verde nei dintorni. Adesso è deserto, ma tra qualche ora si riempirà di bambinetti, mamme e baby sitter. Ci saranno anche le ragazze del pilates, tutte concentrate a fare stretching, con le unghie perfettamente curate e le mani che stringono bicchieri di Starbucks.

Mi infilo in Roseberry Avenue. Se adesso girassi a destra, arriverei alla mia galleria – quella che “era” la mia galleria e ora è una vetrina vuota – ma non voglio, perché mi fa ancora male. Ho fatto di tutto per farla funzionare, ma ero nel posto sbagliato al momento sbagliato: l’arte non tira nelle periferie, non con la crisi che c’è. Svolto a destra dopo il Tesco Express, oltrepasso l’altro pub, quello più frequentato dalla gente del posto, poi torno verso casa. Sono nervosa, ho le farfalle nello stomaco. Ho paura di incontrare i Watson, non sarebbe piacevole. È lampante che non ho trovato un altro impiego e quindi che ho mentito perché non volevo più lavorare per loro.

A dire il vero, è sgradevole incontrare lei. Tom mi ignora, ma Anna è una che prende tutto sul personale. È convinta che la mia breve carriera di baby sitter sia terminata per colpa sua o della bambina. La piccola non c’entra proprio niente, anche se non è facile affezionarsi a lei, visto che non la smette mai di frignare. La situazione è molto più complicata, ma non è il caso di dare spiegazioni. A ogni modo, questa è un’altra delle ragioni che mi hanno spinta a isolarmi: non voglio incontrare i Watson. Una parte di me spera che si trasferiscano da un’altra parte. A lei non piace abitare qui: detesta la casa e odia vivere in mezzo agli oggetti della ex moglie di Tom. E poi non sopporta i treni.

Mi fermo all’angolo e sbircio nel sottopassaggio. Come al solito, l’odore di freddo e umidità mi dà i brividi. È come rovesciare un sasso per vedere cosa c’è sotto: muschio, vermi e terra. Mi ricorda quando ero bambina e giocavo in giardino con Ben; cercavamo i rospi vicino al laghetto. Vado avanti. La strada è deserta, non c’è traccia di Tom né di Anna. La mia parte melodrammatica non può che esserne delusa.

La ragazza del treno
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