Lunedì 29 luglio 2013 Mattina

Alle 8.07 sono sul treno, diretta al mio ufficio immaginario. Cathy ha passato il fine settimana con Damien. Ci siamo viste ieri sera, però non le ho dato l’occasione di rimproverarmi. Ho subito iniziato a scusarmi per il mio comportamento, le ho detto che ero stata davvero male ma che mi stavo riprendendo e avevo voltato pagina. Lei ha accettato le scuse, o almeno ha finto di accettarle. Poi mi ha abbracciata: la sua bontà è inesauribile.

I giornali non parlano più di Megan. Il «Sunday Times» ha pubblicato un articolo sull’incompetenza della polizia; secondo una fonte anonima, il suo è «uno dei tanti casi nei quali si è proceduto a un arresto frettoloso, sulla base di prove deboli o lacunose».

Siamo quasi arrivati al semaforo. Sento il rumore familiare della frenata e alzo lo sguardo verso la casa – non posso farne a meno – anche se ormai non c’è più niente da vedere. Porte e tende sono chiuse. La pioggia cade senza sosta e il giardino è pieno di pozzanghere.

D’istinto, decido di fermarmi a Witney. Tom non mi è stato utile, ma forse l’altro tizio, quello con i capelli rossi, può aiutarmi a ricordare. Aspetto che tutti i passeggeri siano scesi dal treno e si siano allontanati, poi mi siedo sull’unica panchina al coperto lungo il binario. Forse sarò fortunata e lo vedrò passare; potrei seguirlo e parlargli. È l’ultimo tentativo che mi è rimasto: se non funzionerà, sarò costretta a lasciar perdere.

Passa mezz’ora. Mi agito ogni volta che sento qualcuno salire le scale, soprattutto il picchiettio dei tacchi alti. Se Anna mi vedesse, potrei ritrovarmi nei guai. Tom è stato chiaro: l’ha convinta a non chiamare la polizia, ma se insisto...

Sono le nove e un quarto. L’ho perso, a meno che non inizi a lavorare tardi. Adesso piove forte, e non posso affrontare una giornata in giro per Londra, senza niente da fare. Non ho soldi, soltanto una banconota da dieci sterline che mi ha dato Cathy, e mi deve durare finché non avrò il coraggio di chiedere un prestito a mia madre. Scendo le scale, decisa a spostarmi sul binario opposto per tornare ad Ashbury, ma proprio allora vedo Scott: sta uscendo dall’edicola che si trova davanti all’ingresso della stazione. Si è coperto la faccia con il bavero della giacca.

Lo rincorro e lo raggiungo all’angolo, proprio davanti al sottopassaggio. Lo afferro per un braccio e lui si volta, spaventato.

«Per favore, possiamo parlare?» gli chiedo.

«Merda! Che cazzo vuoi?»

Mi ritraggo e alzo le mani. «Mi dispiace, davvero. Volevo soltanto scusarmi, darti una spiegazione...»

Adesso diluvia. La strada è deserta, e noi siamo bagnati fradici. Lui scoppia a ridere, poi solleva le mani in alto. «Andiamo a casa, o rischiamo di affogare.»

Mette a scaldare l’acqua per il caffè e sale al piano di sopra a prendermi un asciugamano. La casa non è linda come la settimana scorsa; non odora più di disinfettante. Nell’angolo del soggiorno vedo un mucchio di giornali e tazze sporche sparse dappertutto, sulla mensola e sul tavolo.

Scott ricompare e mi passa l’asciugamano. «È un porcile, lo so. Mia madre mi stava mandando fuori di testa, non faceva altro che pulire e mettere in ordine. Abbiamo litigato e non la vedo da qualche giorno.» In quel momento, gli squilla il cellulare. «Parli del diavolo... Non la smetterà mai.»

Lo seguo in cucina.

«Mi dispiace tanto per quello che è successo.»

Lui si stringe nelle spalle. «Lo so, ma non è colpa tua. Cioè, sarebbe stato meglio se tu non fossi...»

«Se non fossi un’ubriacona?»

Mi volta la schiena, sta versando il caffè. «Sì, però non avevano abbastanza prove per accusarlo, in ogni caso.» Mi porge la tazza e ci sediamo al tavolo. Una delle fotografie incorniciate è stata capovolta. Scott mi sta parlando. «Hanno rinvenuto alcune tracce a casa sua: capelli e cellule epiteliali. All’inizio lui ha negato che lei fosse stata nel suo appartamento, poi lo ha ammesso.»

«E perché ha mentito?»

«Già, perché? Ha confessato che lei è stata da lui due volte, per parlare, ma non ha detto di cosa: è vincolato al segreto professionale. Le tracce sono state trovate al piano terra, non in camera da letto. Lui giura che non avevano una relazione, ma è un bugiardo, quindi...» Si passa la mano sugli occhi; è provato, sembra meno imponente, quasi consumato. «C’era una macchia di sangue nella sua auto.»

«Mio Dio!»

«Sì, del gruppo sanguigno di Megan, ma forse non potranno estrarre il dna perché è un campione troppo scarso. Dicono che non significa nulla, ma com’è possibile? C’è il sangue di mia moglie nella sua auto!» Scuote la testa. «Avevi ragione: più ci penso, più mi convinco che è lui il colpevole.» Mi guarda, per la prima volta da quando siamo arrivati. «Lui se la scopava e lei voleva interrompere la storia, così lui... le ha fatto qualcosa. È andata così, ne sono sicuro.»

Ha perso la speranza, e non me la sento di biasimarlo. Sono passate più di due settimane; lei non ha chiamato, non ha usato la carta di credito, non ha prelevato denaro. Nessuno l’ha vista, sembra essere sparita dalla faccia della terra.

«Lui ha suggerito alla polizia che lei potrebbe essere scappata» aggiunge Scott.

«Chi, il dottor Abdic?»

«Ha detto che lei era infelice con me e che potrebbe aver deciso di andarsene.»

«Cerca di discolparsi e sviare le indagini.»

«Lo so, ma loro credono a tutto quello che dice quel bastardo. La Riley, dovresti vederla quando parla di Abdic: le piace! Lui è il povero rifugiato, il perseguitato...» Scuote la testa, è davvero abbattuto. «Magari ha ragione lui. Avevamo litigato sul serio, ma io non credo che... che lei non fosse felice con me. Lo era, certo che lo era.» Inizio a pensare che voglia convincere se stesso, prima di tutti gli altri. «Ma se aveva una relazione con lui, allora non era davvero felice con me, vero?»

«Non è detto. Forse era uno di quei... com’è che si chiamano? Transfert: è così che si dice, no? Quando un paziente si affeziona, o pensa di affezionarsi, al suo terapeuta. Il medico dovrebbe resistere e spiegargli che non è un sentimento vero.»

Lui mi fissa mentre parlo, ma è chiaro che non mi sta ascoltando.

«Com’è stato nel tuo caso? Hai lasciato tuo marito perché avevi un altro?»

Scuoto la testa. «L’esatto contrario, in realtà. È lui che ha incontrato Anna.»

«Mi dispiace.»

So cosa sta per dire, così lo anticipo. «Ho iniziato prima, quando eravamo ancora sposati. A bere, intendo. Stavi per chiedermelo, vero?»

Annuisce.

«Abbiamo provato ad avere un figlio.» Mi trema la voce; è passato un sacco di tempo, ma mi viene da piangere ogni volta che ne parlo. «Scusami.»

«Va tutto bene.» Si alza in piedi e va a prendermi un bicchier d’acqua, poi lo appoggia sul tavolo, davanti a me.

Mi schiarisco la gola, nel tentativo di assumere un tono distaccato. «Abbiamo provato ad avere un bambino, dicevo, ma non ha funzionato. Io sono caduta in depressione e ho iniziato a bere. Ero diventata insopportabile e Tom ha cercato consolazione altrove. Lei è stata ben contenta di alleviare le sue pene.»

«Mi dispiace davvero, è terribile. So cosa provi... Anch’io volevo un figlio, ma Megan continuava a dire di non sentirsi pronta.» Adesso è lui ad asciugarsi le lacrime. «È uno di quegli argomenti che a volte... ci facevano discutere.»

«Avevate litigato per questo, la sera che se n’è andata?»

Sospira, sposta la sedia all’indietro e si alza in piedi. «No, era per un altro motivo.» Si volta per non guardarmi in faccia.

La ragazza del treno
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