L.
Erano a poca distanza dalla questura, eppure a Ricciardi non venne in mente di chiedere aiuto, o urlare, o tentare la fuga, o fare alcun tipo di resistenza. L’atteggiamento cortese dei due uomini, la loro voce sicura, l’urgenza dei modi lo presero in contropiede. Quando si rese conto che poteva essere in pericolo, la grande automobile scura era già in movimento.
Guidava il piú giovane, in maniera tranquilla, non troppo veloce. Il piú anziano aveva preso posto accanto a lui sul sedile posteriore. Aveva l’espressione rilassata, ma sotto la giacca era ben visibile un rigonfiamento.
Una pistola. Quell’uomo aveva una pistola, e la posizione della mano destra diceva che era pronto a usarla. Ricciardi se ne rese conto con un vuoto allo stomaco.
– Chi siete? Dove stiamo andando?
La voce gli uscí un po’ stridula. Tradiva la paura. Gli dispiacque.
Sorridendo in maniera tutt’altro che rassicurante, l’uomo seduto al suo fianco rispose con un tono che stonava con il contesto.
– Solo una passeggiata, commissario. Non avete niente da temere. Solo una passeggiata tra amici.
Ricciardi fece scorrere gli occhi sullo sportello al suo fianco: non c’erano maniglie per aprire, né per abbassare il finestrino.
– Mi avete rapito o sono in arresto?
La domanda voleva essere ironica, rimarcare l’assurdità della situazione, ma l’uomo la considerò seriamente.
– Nessuna delle due cose, – rispose. – Andiamo a incontrare delle persone che vogliono parlare con voi. Non so dirvi altro.
L’automobile fendeva il traffico di carri e vetture pubbliche, allontanandosi dal centro. Ricciardi incrociò lo sguardo di un bambino, che prima lo salutò con la mano poi fermò il gesto, leggendo la disperazione nei suoi occhi. Non aveva nulla da temere, si ripeteva. Non aveva fatto niente di male.
Anche lui, che non aveva l’abitudine di intrattenersi a chiacchierare nei corridoi della questura, aveva sentito di persone scomparse dalla sera alla mattina e sulle quali organi del ministero dell’Interno avevano steso un’inquietante coltre di silenzio. Però per la maggior parte si trattava di dissidenti, individui che svolgevano attività politica ed esprimevano in pubblico e sui giornali idee apertamente contrarie al regime. Ricciardi si disinteressava di certe questioni, e si teneva alla larga da ogni discussione sull’argomento.
La mente lo portò subito a Bruno Modo. Era l’unico fra le persone con cui aveva confidenza a esprimere a voce alta, anche troppo alta, il proprio pensiero tutt’altro che ortodosso. Piú volte lo aveva esortato a stare attento, a non esporsi. Pochi mesi prima lo aveva anche aiutato a uscire da una situazione pericolosa, e le persone con cui aveva dovuto parlare gli avevano dato atto della sua posizione di indifferenza politica.
Ma allora che voleva da lui quella gente? Possibile che si trattasse di delinquenza comune? Qualcuno che aveva arrestato che voleva vendicarsi, o cose del genere?
No. I due nella macchina non avevano nulla del delinquente comune. Erano silenziosi, anonimi, ben sbarbati, pettinati. Indossavano abiti di buona fattura e cappelli nuovi. Potevano essere due uomini d’affari, o due professori universitari, non fosse stato per il rigonfiamento sotto la giacca.
Si stavano dirigendo verso la periferia orientale. La via larga, in terra battuta, era fiancheggiata sulla destra dalle alte mura del porto mercantile e a sinistra dall’infinita teoria di baracche in cui abitavano le famiglie di operai delle fabbriche che si scorgevano in lontananza.
– Siamo quasi arrivati, – disse l’uomo.
L’automobile svoltò in una via laterale, poi in un’altra immergendosi in un reticolo di strade tutte uguali. Stavano girando in tondo, capí Ricciardi. Volevano confonderlo, perché gli fosse difficile ritrovare il luogo. Alla fine, e piuttosto all’improvviso, imboccarono un cancello anonimo che portava nel cortile di quella che poteva essere una piccola fabbrica abbandonata. Non c’era nessuno, né i vetri polverosi delle finestre sembravano celare uffici di qualsiasi genere.
L’autista scese e aprí dall’esterno lo sportello del collega, che a sua volta andò ad aprire quello del commissario. Ricciardi scese nello spiazzo polveroso. Il silenzio era assoluto. Il cuore gli pulsava in gola: se gli avessero sparato e lo avessero lasciato lí, nessuno avrebbe saputo piú niente di lui.
Gli venne in mente Enrica, poi Maione. Chissà cosa avrebbero immaginato, se fosse scomparso. Chissà se si sarebbero trovati tra loro per ricordarlo. L’assurdità del pensiero lo fece quasi sorridere, ma subito dopo gli montò una rabbia fredda: che cosa volevano da lui? Come si permettevano di trattarlo cosí?
L’uomo piú anziano lo prese per un braccio, come per condurlo da qualche parte. Ricciardi reagí scostandogli la mano con un gesto secco e spolverandosi la manica con ostentazione. L’uomo rispose con una specie di ghigno e indicò con affettazione una porta.
Entrarono in un ambiente fresco, immerso nella penombra. C’era odore di muffa e di chiuso. Attraversarono un ampio locale che quando lo stabilimento era in funzione doveva essere stato adibito alla manifattura. Arrivarono a un’altra porta in cima a una rampa di scale.
Il piú giovane dei due bussò con discrezione.
Una voce rispose dall’interno.
– Avanti.
La stanza era di medie dimensioni, senza finestre né altre aperture. Il giovane rimase fuori dalla porta, le gambe larghe e le braccia conserte. L’altro condusse Ricciardi davanti a un tavolo dietro al quale c’erano quattro uomini, e si mise in piedi alla sua destra.
A sinistra c’era un ometto dall’aria truce, con una cicatrice sulla fronte; al suo fianco un uomo grasso che fumava un sigaro pestilenziale; poi un distinto signore dai capelli candidi, molto elegante; all’estrema destra un giovane, poco piú di un ragazzo, in camicia nera. No, non si trattava di delinquenti. Ricciardi pensò che avrebbe dovuto sentirsi rassicurato, invece avvertiva dentro di sé una grande ansia.
Decise di anticipare ogni discorso.
– Signori, non so chi siate né cosa vogliate da me. Però vi devo avvertire che sono un ufficiale di polizia e che la mia prolungata assenza sarà di certo notata dai miei colleghi, quindi…
L’uomo dai capelli bianchi lo interruppe.
– Vi abbiamo fatto venire qui proprio perché sappiamo chi siete. In tutti i sensi.
Gli altri tre sogghignarono, come se avessero ascoltato una barzelletta divertente. Ricciardi provò un forte fastidio.
– Allora volete spiegarmi, signor…?
L’uomo scosse il capo.
– No, commissario. I nostri nomi non devono interessarvi.
Ricciardi rifiutò di archiviare cosí in fretta la questione.
– Credo sia mio diritto sapere con chi sto parlando, non credete?
Gli rispose l’uomo grasso col sigaro. Aveva un forte accento settentrionale che Ricciardi non seppe identificare.
– Siamo persone che hanno a cuore la sicurezza della nazione, caro signore. Convinte che essa passi anche per il decoro e la sanità dei costumi.
Ricciardi lo fissò, perplesso.
– Non capisco che cosa intendiate. Credo debba esserci uno sbaglio.
Il giovane con la camicia nera parlò all’improvviso, l’espressione dura, gli occhi stretti.
– Non c’è nessuno sbaglio, Ricciardi. Piuttosto c’è un reato, una serie di comportamenti contro la legge che ci obbligano a intervenire, e subito. Le città fasciste sono luoghi ordinati e pieni di romano, virile orgoglio. Non tolleriamo comportamenti rivolti a sovvertire l’ordinamento, anche morale.
Ricciardi si sentiva girare la testa: sembrava un incubo.
– E che cosa avrei fatto, io? Quale comportamento…
L’uomo coi capelli bianchi fece schioccare le dita della mano destra verso quello con la cicatrice in fronte, che parlò con voce acuta, quasi in falsetto.
– Dunque, abbiamo qui alcuni rapporti di sorveglianza. Premetto che quest’attività si è resa necessaria a seguito della segnalazione fatta a un nostro funzionario. Da questi rapporti emerge chiaramente la vostra inclinazione alla pederastia.
La parola cadde nel silenzio come una bomba. Ricciardi disse:
– Che cosa? Ma siete pazzi?
L’uomo in camicia nera rispose secco.
– No. Il deviato, il malato, il contro natura sei tu. E come tale sarai asportato, come si fa con gli ascessi.
Il tizio con la cicatrice in fronte riprese, scartabellando alcuni fogli che aveva davanti.
– Non risulta che abbiate avuto relazioni femminili negli ultimi sei anni. Nessuno vi ha visto frequentare un bordello o incontrare prostitute a casa vostra. Non siete fidanzato né risulta che lo siate mai stato.
– E questo che c’entra? – chiese Ricciardi.
L’ometto continuò con la sua vocina sottile.
– In compenso frequentate spesso un uomo, tale Modo Bruno, medico presso l’ospedale dei Pellegrini, già sotto nostra sorveglianza perché sospettato di attività politica contro lo Stato. Con quest’uomo vi incontrate senza altra compagnia, e non piú tardi di due sere or sono siete stato a casa sua, dove vi siete ritrovati da soli.
Ricciardi urlò:
– Ma era ubriaco! L’ho solo aiutato a mettersi a letto, non si reggeva in piedi!
L’uomo grasso col sigaro rise in modo sguaiato.
– Ah, lo ammettete! Lo avete aiutato ad andare a letto, e in che altro lo avete aiutato?
L’uomo dai capelli candidi, che evidentemente a quel tavolo era il piú alto in grado, riprese la parola con un tono che sembrava addirittura conciliante.
– Come è naturale, Ricciardi, in questi casi procediamo con molta discrezione; se qualcuno vuole praticare questo orribile vizio standosene in silenzio per conto suo, non sollevando un polverone ed evitando ostentazioni come, devo darvene atto, fate voi, tendiamo a fregarcene. Voi però siete un rappresentante dello Stato, addirittura un commissario di polizia. Uomini come voi dovrebbero costituire un esempio.
Il giovane con la camicia nera completò il ragionamento.
– Per questo non intendiamo consentire che si perpetui questo sconcio. Né possiamo fare un pubblico processo, mettendo in ridicolo l’istituzione stessa di cui tu, frocio infame, fai parte. Cosí ti sbattiamo su uno scoglio per tutti gli anni che ti ci vorranno per ridiventare normale, se mai lo sei stato.
Ricciardi non riusciva a crederci. Fece un passo avanti verso il giovane, e l’uomo al suo fianco lo trattenne con forza per il braccio.
– Non potete, senza una prova! Sono vostre congetture, immaginazioni, fantasie! Chi…
L’ometto con la cicatrice in fronte scorse il foglio che aveva fra le mani.
– Sussiste la testimonianza di un’autorevole esponente della società cittadina, una donna che è stata addirittura onorata dell’amicizia personale della famiglia del duce. Questa donna ha dichiarato a un nostro funzionario che avrebbe voluto intrattenere rapporti con voi, ma che voi vi siete rifiutato. È vero?
Livia. Era stata Livia a dire questo di lui? Era mai possibile?
– Io… sí, ma è stata una circostanza particolare; lei aveva bevuto e…
Il giovane in camicia nera gli coprí la voce, sprezzante.
– Io quelle ubriache me le sbatto pure meglio. Forse era brutta, la madame? Forse non era attraente?
L’uomo coi capelli bianchi fece un sorriso.
– No, no. Tutt’altro. Direi che in questo momento la signora è forse la piú bella donna della città.
Quello col sigaro sbuffò.
– Signori, ma che stiamo aspettando? Sbattiamo questo degenerato sulla prima nave che va dove sapete e togliamoci il pensiero. Oltretutto, commissario, là dove vi mandiamo troverete un sacco di gente come voi. Starete benissimo, credetemi.
Prima che Ricciardi potesse ribattere la porta si aprí. L’uomo che lo aveva portato fin lí in automobile entrò, si avvicinò e si chinò per mormorare qualcosa all’orecchio di quello coi capelli bianchi, che assunse un’espressione infastidita e anche un po’ turbata. Dopo un attimo di riflessione, disse:
– Va bene. Se è davvero cosí urgente, fateli passare.
Gli altri tre lo fissarono incuriositi, ma lui non aggiunse altro.
La porta si aprí di nuovo e, reggendosi al bastone, entrò Carlo Maria Fossati Berti, duca di Marangolo.
Al suo fianco, Bianca di Roccaspina.