I.

Seduto davanti alla notte di settembre, Ricciardi contemplava la sua nuova solitudine.

Era una compagna diversa da quella che da sempre conosceva. La solitudine precedente era la consapevolezza di abitare una linea di confine; un luogo di follia e disperazione, pieno di grida di morte e di vita che vibravano solo per i suoi sensi disgraziati. La solitudine che aveva conosciuto dall’infanzia era un sottile, perenne malessere, un ricordo di dolore che riaffiorava in continuazione per spezzare la superficie di un’esistenza che non poteva essere normale.

Dalla finestra socchiusa entrò un soffio d’aria che fece gonfiare le tende nel buio. Lontana, ma favorita dal silenzio, una voce cantava chissà quale canzone, facendo arrivare fin lí incomprensibili suoni che la distanza privava dell’armonia. Settembre. La memoria del caldo, la promessa del fresco. Finestre aperte, finestre chiuse.

Eppure, pensò Ricciardi, questa nuova compagna a confronto della precedente è come il mare rispetto a un lago.

Non dormiva piú di qualche ora a notte, ormai. Lui, che aveva sempre trovato in un sonno profondo il conforto e il nascondiglio dalle urla mute che gli risuonavano nella testa quando camminava tra morti e vivi, che molesti e insistenti gli frastornavano i sensi. Lui, che mai aveva tardato piú di qualche minuto ad addormentarsi, spegnendo le percezioni come se avesse girato un interruttore per cercare pace almeno nel tempo della notte.

Con gli occhi spalancati a fissare il soffitto, sperava di essere in un incubo e di potersi risvegliare in quel mondo che, se prima era un inferno, ora, lo capiva, poteva diventare perfino peggiore.

Rosa.

Rosa che gli sorride mentre canta una ninna nanna incomprensibile, in un dialetto cosí antico da essere stato dimenticato.

Rosa che gli sente la febbre con le labbra sulla fronte, e corre a preparare un infuso di acetosella, cerfoglio e lattuga che è assai peggio del mal di gola.

Rosa che gira borbottando per la casa che dopo un po’ non la senti piú, perché diventa un piacevole rumore di fondo.

Rosa che continua a mettere il sale nell’acqua con cui lava la biancheria perché non geli quando la stende ad asciugare, facendo finta di non sapere che qui in città la temperatura non scende mai sotto lo zero, nemmeno nel pieno dell’inverno.

Rosa che lo prega, gli ingiunge, lo supplica e lo minaccia perché trovi una donna che pensi a lui quando lei non ci sarà piú.

Scopriva adesso, Ricciardi, con immensa amarezza che non ci aveva mai creduto. Non aveva mai immaginato che la sua tata, l’unica vera madre di pelle e carne e coperte e cibo che aveva avuto, se ne sarebbe andata davvero in una notte di luglio, in quella stessa estate che adesso resisteva per non morire come ogni anno a settembre.

Perché non me lo hai detto che te ne saresti andata davvero? Perché non mi hai fatto capire che tutte quelle minacce nascondevano un malessere, qualcosa che andava al di là degli acciacchi piccoli e inutili che lamentavi dalla mattina alla sera per farti dire che no, non eri affatto vecchia?

E nemmeno ti vedo, ora, seduta sul letto vicino a me. Che ripeti ossessiva un messaggio di distacco, come tante anime morte che incontro per strada, nei giardini, nelle stanze e nei vicoli, che urlano e sussurrano il mezzo pensiero che la morte gli ha spezzato, che cantano la loro canzone di dolore. Un coro immenso per uno spettatore solo: la mia follia.

Te ne sei andata e basta.

Lo squarcio aperto dalla morte di Rosa nella sua vita, pensò Ricciardi, non si sarebbe rimarginato mai. Avrebbe lasciato una cicatrice slabbrata, pronta a sanguinare ogni volta che una parola, un suono o uno sguardo gli avesse riportato l’infanzia e l’adolescenza agli occhi del ricordo. Un dolore sordo e pulsante, pronto a rinnovarsi ancora e ancora. Capiva adesso, lui che con la sofferenza aveva fatto amicizia fin da bambino, quanto fosse terribile da sopportare una perdita come quella.

Lo aiutava un po’ la presenza di Nelide, la nipote di Rosa, cosí simile a lei. Rosa aveva fatto appena in tempo a prepararla; un ultimo, straordinario regalo per far sentire di meno la sua assenza. A volte, di sottecchi e quand’era distratto, a Ricciardi pareva di percepire la presenza della stessa tata, per quanto fisicamente e nei comportamenti la ragazza le assomigliava; e tutto in casa era rimasto uguale, come se l’economia domestica fosse uno spartito ben noto da continuare a suonare.

Ma c’era di piú, rifletté Ricciardi mentre guardava la notte di settembre scorrere verso l’alba. Ora era solo. Anche nei sogni piú assurdi, quelli che concedeva a sé stesso nella stanza piú riposta della sua anima tormentata.

Attraverso il buio e senza vederla, gli occhi andarono a cercare la finestra del palazzo di fronte. Distava pochi metri, mezzo piano piú in basso. Dava su una cucina, per quello che poteva scorgere; una grande cucina dove una famiglia numerosa si riuniva per mangiare e dove, dopo aver rigovernato, una ragazza alta, con gli occhiali e un meraviglioso sorriso che sbocciava inaspettato, si sedeva a ricamare con la mano mancina.

Era rimasto a guardare quei lenti, metodici gesti per mesi e mesi; stagione dopo stagione, attraverso la pioggia che batteva sui vetri e nelle cocenti sere d’estate, il movimento della mano, l’inclinazione del capo, il bagliore della lampada sulle lenti di lei lo avevano ammaliato. Sicuro di non essere visto, al riparo dell’oscurità, si era innamorato della vita che sapeva di non poter avere. Ed era andato identificando con quella ragazza serena e dolcissima la speranza assurda della propria felicità.

Il germe di quel sogno aveva messo lentamente radici.

Chissà, magari un giorno avrebbe trovato la forza di condividere la sua terribile condizione di malato mentale. O forse l’amore, il doversi prendere cura di qualcuno, avrebbe messo la sordina all’urlo dei morti che incontrava a ogni angolo di strada. E il deserto in cui si costringeva a vivere non sarebbe piú stato una condanna definitiva.

La morte imminente di Rosa lo aveva spinto a un gesto disperato. Aveva raggiunto Enrica, che era scappata da lui per trovare un equilibrio fuori da quell’amore impossibile. L’aveva trovata perché il padre, superando per amore della figlia la riservatezza alla quale l’educazione e il carattere lo costringevano, gli aveva detto dov’era e che cosa sentiva nel cuore.

Ora la notte era arrivata a quell’attimo di assoluta sospensione che precede la luce. Era il momento in cui Ricciardi, sveglio e tormentato, sapeva di doversi confrontare senza difese con la propria solitudine. Il momento in cui doveva essere sincero con sé stesso. Dalla finestra arrivò la canzone lontana, resa piú chiara dal vento che ne trascinava il suono. Distinse qualche parola, era la voce di un uomo: in dialetto, ma comprensibile. Vattene, pazza. Va’, farfallina, e torna, e torna a quest’aria cosí fresca e bella.

L’aveva trovata, Enrica. L’aveva vista nella luce della luna, sotto le stelle. L’aveva vista vestita di bianco, piú bella e serena di quanto la ricordasse. Le avrebbe detto, se fosse stata sola, che Rosa se ne stava andando. Le avrebbe detto che gli dispiaceva tanto, per tutto. E che avrebbe voluto trovare un comune amico che li presentasse. E scriverle lettere sempre piú appassionate, e chiedere al padre di lei l’onore e il permesso di condurla al cinematografo, o a ballare. Se fosse stata sola, le avrebbe preso la mano e piangendo, forse, sarebbe riuscito a raccontarle il suo perenne dolore.

Ma non era sola.

Attraverso il buio i suoi occhi verdi e famelici avevano visto i capelli biondi di un uomo, le sue spalle larghe, il suo profilo avvicinarsi a quello di lei. Per un bacio.

Lo vedi che anchio, disse la canzone lontana. Mi abbaglio piano piano. E che mi brucio la mano per volerti cacciare via?

Solo, pensò Ricciardi. Solo senza nemmeno un sogno pazzo a farmi compagnia. Ma almeno tu sarai felice, amore mio. Avrai un marito che ti amerà in modo completo e alla luce del sole, senza visioni di cadaveri che dicono parole misteriose vomitando sangue dalle bocche contorte. E avrai dei figli limpidi e sereni come non sarebbero stati i miei.

Si rese conto che cominciava a distinguere i contorni delle cose attorno a lui. La notte aveva perso la sua battaglia.

Si alzò silenziosamente, per affrontare di nuovo quel terribile nemico che era la vita.