XVIII.
I due bambini annegati se ne stavano abbracciati e lividi nella luce, a pochi metri dall’ingresso del circolo nautico. Ricciardi, fermo a breve distanza, li osservava con le mani in tasca. Sembrava guardare il mare che luccicava placido verso l’orizzonte.
Gli faceva sempre uno strano effetto, andare vicino al mare. Lui che era un cilentano di montagna, cresciuto in mezzo a gente pragmatica abituata a lottare con la natura per procacciarsi da vivere, rimaneva stordito di fronte a quella distesa sempre uguale e sempre diversa, in movimento perenne ma apparentemente ferma, un ponte inquieto verso il resto del mondo ignoto, e ignoto anch’esso nelle profondità e nelle superfici. Il suo animo introspettivo ne vedeva la bellezza terribile, e ne rimaneva ammaliato. Ma non riusciva a prendere confidenza sufficiente a volergli bene, anche dopo tanti anni.
Poi, naturalmente, c’erano i morti, pensò continuando a fissare i due cadaveri tremanti e stretti nell’abbraccio che li aveva uccisi. I morti, che punteggiavano la costiera. I morti, i pescatori d’inverno e i bagnanti d’estate, le cui emozioni malefiche venivano portate a riva dalla risacca, come se invece che a decine o centinaia di metri fossero spirati proprio lí, sulle pietre della scogliera. I morti, traslucidi e sbiaditi nella pioggia o nel sole, che sussurravano la propria terribile canzone per un pubblico di un solo spettatore.
Uno era un po’ piú grande, l’altro non doveva avere piú di sette o otto anni. Il piccolo era bluastro, la bocca semiaperta dalla quale usciva una bolla di bava bianca che sembrava un orribile fungo, gli occhi semichiusi; mormorava: vieni, vieneme a piglia’, nun c’a faccio. L’altro, i peli ritti e la pelle d’oca, gli occhi rivoltati nelle orbite e le labbra e la lingua nere, ripeteva: nun me tira’, nun me tira’.
Una giornata al mare, pensò con dolore Ricciardi. Si assomigliano, saranno stati fratelli.
Pensò al padre di quei bambini, dovunque si trovasse in quel momento, ammesso e non concesso che fosse ancora vivo, che non fosse morto di dolore. Se non l’aspettasse da qualche parte appeso a una corda, o con la schiena spezzata per un salto da un ponte. Si domandò se il suo cuore non fosse stato schiacciato dal rimpianto di non essere stato là, in riva al mare, per salvare i propri figli.
Si riscosse ed entrò passando dal civettuolo arco che costituiva l’ingresso del circolo. Sembrava un altro mondo. Attorno alle aiuole fiorite perfettamente disegnate e curate passeggiavano coppie eleganti, in abito da mattina; sulle panchine sedevano gentiluomini col giornale aperto e il cappello bianco, che ogni tanto si detergevano annoiati il sudore dalla fronte con candidi fazzoletti; camerieri in livrea volteggiavano discreti, distribuendo cocktail e caffè.
Ricciardi si sentí fuori luogo, e ben lieto di esserlo.
Meno di un’ora prima una guardia aveva introdotto nel suo ufficio la donna anziana che lo aveva fatto entrare in casa Roccaspina. Senza una parola, continuando a guardarlo diffidente come la prima volta che l’aveva incontrato, gli aveva consegnato un biglietto ripiegato e se n’era andata senza salutare. Il biglietto diceva, in una bella grafia in corsivo: «Circolo del Remo d’Oro. Avvocato Attilio Moscato. Ore undici». Non un saluto, non una parola di accompagnamento. Ricciardi espresse un sorriso. La contessa sapeva andare subito al dunque, in qualsiasi circostanza.
Si guardò attorno e prima di chiedersi come avrebbe potuto riconoscere l’uomo che stava cercando fu tolto dall’imbarazzo da un signore con panama e giacca bianca che sventolava un fazzoletto verso di lui da un tavolino sulla terrazza rivolta al mare. Quando lo raggiunse, l’uomo si alzò tendendo la mano.
– Voi dovete essere il commissario Ricciardi. Avvocato Moscato, per servirvi. Attilio Moscato.
Ricciardi ricambiò la stretta.
L’avvocato era un uomo di circa quarant’anni, dai lineamenti sottili, con denti bianchi e regolari sotto un paio di baffetti curatissimi. Un fiore rosso all’occhiello e la catena d’oro di un orologio da tasca che spuntava dal panciotto completavano l’eleganza degli abiti. Indicò al commissario una sedia del tavolino, piazzato strategicamente all’ombra di una tettoia. A pochi metri alcune barche da diporto ondeggiavano pigre all’ormeggio, qualche marinaio ne lustrava i ponti con cura.
– Accomodatevi, prego. Qua la mattina si fa a gara per accaparrarsi i tavolini all’ombra, che vi credete; è una giungla. Cosa vi offro? Un caffè, qualcosa da mangiare? È troppo presto per un liquorino, che dite?
Ricciardi scosse il capo.
– Un caffè andrà benissimo, grazie. E grazie per il tempo che mi dedicherete.
L’avvocato lo scrutò per un momento come a valutare se per caso lo stesse prendendo in giro, poi decise di no e sorrise facendo cenno a un cameriere, al quale ordinò, oltre al caffè per l’ospite, una sfogliatella per sé.
– Che vi devo dire, a me quest’aria di mare mette sempre appetito. Allora, avete conosciuto Bianca. Una donna notevole, non vi pare? Bellissima, tra le piú belle del giro. Ma pure un poco triste, sempre seria. Non una persona facile, insomma.
Il commissario non era là per spettegolare, e volle chiarirlo.
– Avvocato, ho chiesto io alla contessa di incontrarvi. Come forse saprete, è convinta che il marito si sia accusato del delitto di Ludovico Piro senza averlo compiuto. Asserisce, la contessa, che il conte quella notte era in casa e non si è mosso. Voi cosa ne pensate?
Moscato fece scorrere gli occhi sulle barche, continuando a sorseggiare il tè che stava bevendo quando Ricciardi era arrivato.
– Bah, commissa’, che vi devo dire: Bianca ha sostenuto questa tesi fin dal primo momento, ma di fronte a una confessione molto circostanziata e mai ritrattata, senza contraddizioni ed espressa in piena lucidità non c’è stato niente da fare. E molto poco si può fare adesso. Secondo me state perdendo tempo.
Ricciardi non era disponibile a farsi dare lezioni su come impiegare il proprio tempo.
– Io comunque vorrei capire qualcosa di piú di questa faccenda, anche se le indagini, come saprete, sono state chiuse. Voi conoscete da molto il conte?
– Ma certo, dai tempi del liceo. Chi, se non un amico intimo e affezionato, si sarebbe preso l’onere della difesa con la prospettiva certa di doverci rimettere anche le spese? Gli voglio bene, a quel disgraziato. E voglio bene pure a Bianca, che conosco da quando era una ragazzina, perché mia madre e sua madre giocavano a canasta insieme. Ma questo non vuol dire che creda anch’io all’innocenza di Romualdo.
– Che tipo è?
– Eh, Romualdo… Vi dovrei dire com’era, e com’è diventato. Era un ragazzo allegro, di cuore, spassosissimo: rideva sempre, faceva scherzi. Una famiglia importante, importantissima. Molto antica. Il padre era una delle figure piú in vista della generazione sua. Aveva un futuro davanti, Romualdo. Si è laureato in Giurisprudenza pure lui, ma non ha mai esercitato: troppo occupato a mangiarsi tutte le sostanze.
– Aveva dei vizi?
– Non «dei vizi». Un unico vizio. Romualdo gioca. Ha sempre giocato, ma alla fine è diventata un’ossessione. Prima i cavalli, poi il lotto, poi le carte. Poi tutte e tre le cose insieme. Ha buttato un patrimonio immenso, credetemi: e ha ridotto in rovina pure Bianca, che aveva le sue sostanze. Una tragedia.
Ricciardi insistette.
– E nient’altro? Che so: lusso, donne…
Moscato ebbe un’espressione di meraviglia.
– Donne? Ma no. Si era fidanzato con Bianca da ragazzino, quelle cose non dico combinate dalle famiglie, ma favorite sí, del resto erano due bei nomi. Romualdo è un ragazzo colto ed elegante, e lei l’avete vista, quando aveva un poco d’allegria era una specie di sole. No, donne niente. Solo quel demone là. Ma bastava e avanzava, credetemi. Lo divorava, quel demone. Una malattia inestinguibile.
– E i suoi rapporti con Piro? Come si erano conosciuti, e da quando?
L’avvocato tirò un lungo sospiro. Un enorme gabbiano, fermo su una bitta, stridette brevemente.
– Vedete, commissario, questo è un piccolo mondo. Poche decine di persone, forse un centinaio. Andiamo nelle stesse scuole, frequentiamo alle stesse ore gli stessi salotti, gli stessi teatri. È come se la città fosse un treno, e noi popolassimo un solo vagone senza uscirne mai. Ogni tanto succede che viene un momento, magari alcuni anni, che per diverse ragioni la porta dello scompartimento si apre, qualcuno scende e qualcun altro sale.
Si fermò come se avesse detto, con finta noncuranza, qualcosa di molto importante. Diede un morso al dolce, masticò, ingoiò e si pulí i baffetti con un tovagliolo. Ricciardi aspettò con pazienza che riprendesse.
– Ludovico Piro era un arrivista. Un poco di buono che ha approfittato di chi qua dentro, per un motivo o per l’altro, è andato in rovina, e credetemi se vi dico che sono in tanti. Li vedete? Guardateli bene. Sorridono, passeggiano, si vestono con cura, vanno in vacanza al mare in inverno e in montagna d’estate, ma molti non hanno un centesimo, e semplicemente non riescono a fare a meno della vita che hanno condotto da quando sono nati. Piro prestava i soldi. Li prendeva da qualche ente di cui era l’amministratore e con gli interessi guadagnavano tutti, lui in primis. Romualdo, poveretto, è caduto nella sua rete e non sapeva come uscirne. Per questo l’ha ammazzato.
– Quindi voi siete convinto che sia stato lui? Che Roccaspina abbia ucciso Piro?
Moscato lo fissò perplesso.
– Commissario… perché avrebbe confessato, altrimenti?
Ricciardi tacque a lungo, riflettendo. A quanto pareva lui era l’unico che Bianca fosse riuscita a convincere.
Poi disse:
– Avvocato, io vorrei incontrare il vostro cliente. Avrei bisogno di parlare un po’ con lui, e soprattutto di guardarlo negli occhi. Pensate che si possa fare?
Moscato parve sorpreso dalla richiesta.
– Ma… immagino di sí. Verreste con me, magari potremmo dire che siete un mio assistente. Il fatto che l’indagine sia chiusa credo non vi consenta di ottenere un permesso dalla questura.
Ricciardi acconsentí.
– Certo. A me basterà ritrovarmi con lui, anche in vostra presenza. Voglio solo fargli qualche domanda, cosí ci togliamo il pensiero.
– Va bene. Del resto ero intenzionato ad andarci, anche per fargli sentire un poco di conforto, pover’uomo. Purtroppo dal punto di vista della linea di difesa non c’è molto da fare. Se il cliente confessa, al povero avvocato rimane ben poco a cui appigliarsi, non vi sembra?
Ricciardi si alzò.
– Vi ringrazio, avvocato. Se vi venisse in mente qualcosa, vi prego, mandatemi a chiamare. Altrettanto, se mi consentite, farò io. Credo che la contessa abbia il diritto di liberarsi da questo dubbio che la tormenta.
Moscato sorrise, triste.
– Certe volte avere un dubbio aiuta, commissario. Uno può tenere lontane le ipotesi piú difficili da accettare. Chissà, forse non l’aiutate alla povera Bianca, se le togliete il dubbio. Buona giornata.
E riportò l’attenzione sul gabbiano immobile sulla bitta.
All’esterno, sotto il sole, erano rimasti solo i due fratellini annegati abbracciandosi.
Ricciardi li sentí mormorare, ma non si voltò a guardarli.