XXI.
Muoviamoci, pensò Nelide. Muoviamoci. L’acqua ca nu’ camina, feti, l’acqua ferma, puzza.
Per la verità tutto si sarebbe potuto dire di Nelide, tranne che se ne stesse in ozio. Trovava sempre qualcosa da fare, e se non lo trovava se lo inventava o riprendeva il giro delle faccende domestiche, rilavando il già lavato, strofinando il già strofinato, stirando il già stirato. L’animava un’energia naturale spaventosa, incrementata dalla paura di fallire e dalla giovane età.
Che poi, a guardarla, non è che fosse facile indovinarla, la sua età. Tozza, solida e massiccia, di bassa statura ma di spalle larghe e di braccia fortissime, appena piú lunghe del normale; collo corto e ampio, viso irregolare con due occhi vivissimi e neri, le labbra strette sotto una peluria evidente; capelli ispidi e castani raccolti in una crocchia strettissima e chiusi in una cuffia candida. Chi aveva conosciuto e apprezzato la franca saggezza di Rosa ne riconosceva i tratti: Nelide le assomigliava moltissimo. Lei però sapeva di avere solo diciassette anni, e sapeva di essere inadeguata al compito che le era stato assegnato.
Disponendo con attenzione gli ingredienti della cena sul tavolo della cucina, la ragazza fece un sospiro. ’A merola cecata, quann’è notte face ’u niro, pensò, la merla cieca fa il nido di notte.
Quando la povera zia aveva cominciato a sentirsi male e aveva capito che le mancava poco aveva accelerato i tempi e chiamato a sé la nipote per completare un’istruzione che avrebbe avuto bisogno di tanti mesi ancora.
Rosa era stata un punto di riferimento per i numerosissimi membri della famiglia Vaglio. Questi lavoravano tutti nei possedimenti della famiglia Ricciardi di Malomonte, portandoli avanti con competenza e rigore assoluti. Erano loro a farsi carico della gestione dei contadini, dei mezzadri, dei pastori che utilizzavano i campi, le colline e i frutteti che prosperavano attorno al castello, giú a Fortino, nel basso Cilento. E tutti erano facilmente sostituibili, purché fossero onesti. Tutti, tranne chi governava lo stesso barone di Malomonte. La persona che teneva in piedi l’esile, tenue rapporto con colui che era il proprietario di ogni cosa, ma si disinteressava completamente del fatto di esserlo.
’U Pateterno manna ’a frisa a chi nun tene ’i rienti, qualcuno avrebbe potuto dire, Dio regala il pane a chi non ha denti. E qualcuno tra i contadini, scherzando davanti al fuoco, ogni tanto lo diceva, riferendosi a Ricciardi. Ma a bassa voce, per non farsi sentire da uno degli innumerevoli fratelli o sorelle di Rosa, o da uno dei tanti nipoti. Perché la venerazione, la devozione dei Vaglio per i baroni di Malomonte era canina a tal punto da non ammettere alcuna allusione negativa.
I padroni non si erano mai occupati delle proprie ricchezze, era un dato acquisito ormai da generazioni. Avevano un’inclinazione per le cose immateriali; amavano i libri, i sentimenti, le passioni. Il lavoro concreto, maneggiare i loro beni e accudirli, spettava ai Vaglio. Cosí era sempre stato e cosí doveva essere. Ma era complicato.
Il problema non era cucinare, lavare, stirare, in questi mestieri Nelide era perfino piú brava di Rosa, perché aveva una forza e un’attitudine alla fatica senza uguali. Si ’a fatica fusse ’na cosa bbona, la facissiro li prieviti, si diceva dalle sue parti, se la fatica fosse bella, la farebbero i preti. Ma per lei la fatica non era niente. La cosa difficile, per lei, era interpretare, tradurre, riferire. Leggere le espressioni di quell’uomo magro, sottile, dagli occhi febbrili di un colore assurdo che ricordava il fianco della montagna in primavera, quando all’alba il sole comincia a illuminare le foglie nuove, o le profondità dei piccoli laghi che si formano dopo le piogge forti. Un uomo che da un lato le faceva paura e dall’altro le ispirava la stessa voglia di proteggerlo che aveva animato sua zia. Il suo compito, lo sentiva, era fare in modo che fosse sereno, per quanto possibile.
Ma aveva diciassette anni, era solo una ragazza. Come sarebbe riuscita nel compito senza nessuno a istruirla?
Per cena avrebbe preparato la ciauledda. Era il periodo ottimale, le verdure necessarie arrivavano alla piena maturazione proprio all’inizio di quel mese. Naturalmente gli ingredienti conservabili se li faceva portare dal paese, sia perché era certa che fossero genuini sia per il risparmio. Era il primo precetto di Rosa, fare sí che l’ampia dispensa fosse sempre stracolma e che non si usassero, se non quando assolutamente necessario, prodotti della cui provenienza non si era certi. Per questo una volta ogni tre mesi da Fortino partiva un carro pieno di tutto quello che poteva essere mantenuto senza deperire.
Per la ciauledda, però, serviva la verdura fresca e Nelide si era avventurata a comprarla presso i venditori dei dintorni. Chi face ra sé fa pe’ tre, è vero. Ma a volte non si può.
Si era messa in fila presso uno che urlava piú degli altri, circondato di donne che ridevano e cianciavano. Aveva immaginato che fosse per la bontà della merce, poi si era resa conto che invece quelle galline volevano solo farsi notare dal venditore, un ragazzo bruno, dai capelli ricci e gli occhi grandi che parlava, parlava e rideva forte. Si era voltata per andarsene altrove, e quello l’aveva chiamata.
– Uè, signorina bella, e dove ve ne andate? Non la trovate da nessuna parte, la verdura di Tanino!
Le galline attorno a lui si erano voltate sorprese, non credendo alle proprie orecchie: il bel Tanino detto ’o Sarracino, sogno proibito di tutte le ragazze nubili di Santa Teresa e di molte signore sposate, che si rivolgeva a quello sgorbio di natura?
Nelide si era fermata, poi si era voltata, lenta. Aveva fissato gli occhi in quelli del Sarracino e aveva detto:
– Io non perdo tempo. Io lavoro. Buona giornata.
Tanino era rimasto con il sorriso gelato in faccia, e nel silenzio improvviso che era seguito aveva mormorato, offeso:
– E perché, io non sto lavorando? Guardate qua, è la migliore verdura del quartiere, e si vende come il pane! Non mi credete?
Nelide aveva stretto le palpebre e incassato percettibilmente la testa nel grosso collo. Era il ritratto della diffidenza.
– Terra comme lassi, usu comme truovi, – mormorò tra sé, paese che lasci, usanza che trovi. – Dalle parti mie, i verdurai vendono la verdura e i saltimbanchi fanno i saltimbanchi. Buona giornata.
E se n’era andata, mentre una bella serva rideva sguaiata, dicendo al povero Tanino rimasto a bocca aperta:
– Sarraci’, hai trovato chi ti mette a posto!
Ora però Nelide fissava perplessa cipolle, peperoni, melanzane, zucchini e patate disposte davanti a sé come un esercito in attesa di ordini. Non le piacevano, quelle verdure. Erano senza personalità. E la ciauledda imponeva il mantenimento della singola identità di ogni ingrediente, per non diventare una massa informe e senza sapore. Forse avrebbe dovuto dare una possibilità a quel saltimbanco che si fingeva verduraio.
Zi’ Ro’, pensò, e voi che avreste fatto?
Aveva preso l’abitudine di parlare con Rosa. Un po’ per chiedere aiuto, un po’ per non sentirsi sola in quella casa che, per i suoi criteri, era enorme e deserta.
Nu’ mangià cucozza ca ti cachi, nu’ passà lu mari ca t’annichi, non mangiare zucche che ti viene la diarrea e non attraversare il mare che anneghi. La risposta della zia le giunse chiara e forte, come se fosse seduta sulla solita sedia, le mani grassocce e forti intrecciate in grembo a osservarla lavorare.
Nelide era pragmatica e solida. Per lei esisteva quello che sentiva e vedeva, e lo accettava senza discutere e senza farsi inutili domande. Rosa era morta, lo sapeva, ne aveva accompagnato il corpo al paese insieme al signor barone, in un lungo viaggio doloroso. Aveva partecipato alla sua sepoltura senza piangere inutili lacrime per un evento che faceva parte del ciclo della vita. Sapeva, con assoluta certezza, che mai lo spirito di quella zia che sentiva vicina piú di una madre l’avrebbe abbandonata. Ma credeva che non ne avrebbe mai piú sentito la voce e la presenza.
Invece, qualche giorno dopo il suo ritorno a casa, eccola là. Come se fosse tornata da un breve, necessario viaggetto. Se l’era ritrovata vicino mentre faceva scorrere il dito su una fessura che aveva scoperto in una pentola di terracotta, chiedendosi se ci fosse un modo per ripararla evitando di sostituirla. Con la coda dell’occhio aveva percepito un movimento, come se qualcuno avesse attraversato la stanza; ma non c’era nessuno. Poi aveva sentito un sussurro dietro la spalla sinistra.
Metti la pentola sul fuoco forte, con poca acqua e lo zucchero. Poi passa il miscuglio sulla parte rotta: quello si carbonizza e chiude la fessura.
Grazie, zi’ Ro’, aveva detto, e lo aveva fatto. Da quel momento, ogni tanto, se l’era sentita accanto; e forse chiacchierava piú adesso che era morta di quando era viva.
Cominciò a tagliare i pomodori pensando a quale formaggio avrebbe servito al barone per accompagnare la ciauledda; il formaggio era fondamentale.
Il pecorino stagionato, quello che sta nella dispensa sullo scaffale di mezzo, disse Rosa. Nelide annuí, seria.
Ce l’avrebbe fatta, pensò.
Ce l’avrebbe fatta.