X.
Il dottore uscí dalla sala settoria strofinandosi le mani sul camice.
– Oh, ma che lieta sorpresa! Il caro Ricciardi, privo del suo compagno di scena di avanspettacolo, il famoso brigadiere Maione. A che devo l’onore? Non mi pare che ospitiamo morti ammazzati, qui in albergo.
Nonostante la solita ostentazione di sarcasmo e ironia, Ricciardi sapeva che se c’era un uomo partecipe senza riserva delle sofferenze alle quali assisteva dalla mattina alla sera, quello era Bruno Modo. Il medico si passò la mano nei folti capelli candidi, scrutando il commissario al di sopra delle lenti cerchiate d’oro.
– Be’, fatti un po’ vedere. Un po’ dimagrito, o sbaglio? Mi sa che la fanciulla a forma di comò che ti accudisce ha meno autorità della povera Rosa nel costringerti a nutrirti.
Gli occhi del medico corsero alla fascia nera che Ricciardi portava al braccio, sopra la giacca. In quanto unica persona con la quale il commissario aveva un rapporto di confidenza, era ben consapevole del suo forte legame con la tata. Si era battuto con tutte le armi che la scienza gli metteva a disposizione per salvarla, ma l’emorragia cerebrale aveva vinto.
– Ma figurati, Nelide è peggio di sua zia, – gli rispose Ricciardi. – Si mette in piedi come un gendarme e non sposta i piatti dalla tavola se non ne vede il fondo. È anche brava, non ho avuto nemmeno l’impressione che fosse cambiato qualcosa. Rosa è stata perfetta pure in questo. Le ha insegnato tutto.
Modo, che la ricordava benissimo, scosse il capo.
– Era straordinaria. Una donna straordinaria. E poi ti sopportava, il che la rendeva un’autentica eroina. Dài, accompagnami fuori a fumare e a prendere un po’ d’aria. Immagino sia una bella giornata, qui in galera non me la fanno nemmeno annusare.
Uscirono nel cortile retrostante, che aveva un’aiuola fiorita con un paio di panchine attorno a un albero secolare. L’ombra era piacevole. Sembrava impossibile che a pochi metri, dietro il muro di cinta, la città brulicasse come un formicaio.
Appena si sedettero arrivò un cagnolino bianco a macchie marroni, un orecchio basso e uno alto, la coda che sferzava frenetica l’aria. L’animale si avvicinò al dottore, che gli grattò ruvidamente la testa, estraendo dal camice un boccone di pane.
– Eccoti, cane. Come va la giornata? Prendi, qualcosa da mangiare per te, cosí non rompi le scatole alla cucina. Credi che non sappia che ti piazzi là fuori e che quei disgraziati degli inservienti ti mollano tutti gli avanzi?
Ricciardi sorrise brevemente. Era stato testimone dell’incontro tra il dottore e il cane, un anno prima o giú di lí, e gli piaceva notare come fossero ancora inseparabili.
– Ma ancora non glielo hai dato, un nome?
Modo si strinse nelle spalle.
– E perché dovrei? Mica ci sono altri cani che abitano con me. Né nomi né guinzagli, amico mio: il segreto delle relazioni è la libertà. Dimmi, piuttosto, che cosa ti porta qui? Non credo che tu non abbia saputo resistere al desiderio di assorbire da me un po’ di saggezza e di cultura.
Ricciardi allungò una distratta carezza all’animale che, avendolo riconosciuto, gli aveva appoggiato una zampa sulla gamba.
– Sí, in effetti ti devo chiedere qualche informazione. Però dovrai fare uno sforzo di memoria, la faccenda risale a qualche mese fa.
Modo si accese una sigaretta, aspirando con soddisfazione.
– Figurati, io mi ricordo tutto, mica sono vecchio come te. Sarà una piacevole variazione rispetto alla routine quotidiana, ultimamente mi arrivano qui solo suicidi, maledizione. Ieri mi hanno portato uno in due pezzi, pensa: si era buttato sotto un tram proprio a cento metri da qua. Che tristezza.
Ricciardi rivide davanti agli occhi il busto tranciato dell’uomo che mormorava imprecazioni alla fioraia inconsapevole.
– Nei primi giorni dello scorso giugno hai fatto un esame necroscopico a un certo Piro Ludovico, un avvocato. Te lo ricordi?
Modo corrugò la fronte.
– Certo che mi ricordo, te l’ho detto che fra noi due il rimbambito sei tu. E poi, come potrei dimenticare? Un viavai di carrozze e automobili con l’autista: quell’uomo era in rapporti d’affari con tutti i debosciati e i nullafacenti della anemica aristocrazia di questa città morente. Dal punto di vista mio, però, niente di particolare. Al di là della ferita mortale, nessun’altra lesione.
Ricciardi annuí, riprendendo ad accarezzare la testa del cane.
– Sí, ho letto il verbale. Ma raccontami qualcosa di piú sul cadavere. Sei sicuro di ricordare bene?
Il dottore sbuffò il fumo.
– Guarda che sei al cospetto della mente piú limpida della nazione, e infatti sono l’unico a capire verso quale baratro si sta avviando questo Paese ora che pure la Germania ha scelto di farsi governare dai buffoni. Dunque: il morto aveva una cinquantina d’anni, e non era in gran forma fisica. Le arterie, i polmoni, gli organi interni mostravano i soliti segnali d’usura della gente di quel ceto. Però un paio di decine d’anni, salvo complicazioni, poteva campare ancora, se quell’altro tizio non decideva altrimenti.
– E c’erano segni di colluttazione? Che so, pelle sotto le unghie, qualche livido…
Modo scosse il capo.
– No, ti ho detto che non c’erano altre lesioni. Sono andato io stesso a fare il sopralluogo; una bellissima casa a Santa Lucia, una splendida giornata d’estate col mare che pareva entrare dalla finestra. Peccato morire, in un posto cosí.
Ricciardi si fece piú attento.
– Davvero sei arrivato quando il morto era ancora là? In che posizione era? Hai visto qualche particolare, qualcosa che ha attirato la tua attenzione?
Modo lo guardò curioso.
– Oh, mamma mia, che foga! Ma si può sapere che succede? Avete riaperto le indagini? Credevo che l’assassino avesse confessato. Almeno cosí ho letto sui giornali.
Il commissario fece un vago gesto con la mano.
– No, no. Anzi, questa conversazione deve rimanere riservata. Sto ricostruendo certi aspetti su richiesta di… privatamente, insomma. Allora, mi dici se ti ricordi qualcosa?
Il medico si concentrò.
– Dunque, vediamo. Il cadavere era riverso sul ripiano della scrivania. C’erano carte, cambiali, contratti. Non c’era tantissimo sangue, da ciò dedussi che il colpo non aveva reciso arterie, come infatti risultò dall’esame.
– E poi? Nient’altro?
– Nient’altro. Solo quel colpo. Come se l’avesse colto di sorpresa: bum, e faccia sul tavolo. Ricordo una statuetta di bronzo sul tavolo, un ragazzino pescatore, che nemmeno era caduta. Un calamaio pieno d’inchiostro. Un portacarte con dentro lettere e documenti ancora diritto. Lui, come se si fosse addormentato.
Il cane si accucciò ai piedi di Ricciardi e cominciò a sonnecchiare, ma un orecchio rimase alto, attento a rilevare qualsiasi rumore fuori dall’ordinario.
– E tu non ti sei fatto un’idea di questo tagliacarte o di questa penna con cui sarebbe stato ucciso Piro?
Modo scosse il capo.
– No, niente tagliacarte. La ferita era netta, un foro profondo almeno diciotto centimetri, ma non recava tagli laterali. Non un coltello e nemmeno un tagliacarte. Una penna sí, può essere, anzi magari è probabile. Asciutta, però, perché non c’erano tracce d’inchiostro sulla pelle.
Il commissario sembrava osservare con la massima attenzione il respiro ritmico del cane.
– Ma insomma, com’è morto?
Il dottore indicò un punto sotto il suo orecchio destro.
– Il colpo è stato inferto subito dietro la mandibola, sul lato destro, medialmente allo sternocleidomastoideo. La punta, la penna o quello che era, è entrata obliqua di circa sessanta gradi e ha attraversato i muscoli del collo fino alla laringe, come ho scritto nel rapporto dell’esame necroscopico. La vittima, in pratica, è rimasta soffocata nel suo sangue in meno di un minuto.
Ricciardi era assorbito completamente dalla descrizione.
– A destra. Un mancino, quindi?
Modo si strinse nelle spalle.
– Non è detto. Per dare un colpo va bene anche l’altra mano, mica è un lavoro di precisione. Però chi l’ha vibrato era di sicuro piú in alto rispetto alla vittima, l’angolo parla chiaro.
– E lui non ha chiamato aiuto.
– No che non l’ha fatto. Non poteva, con la lacerazione della cartilagine. Se avesse potuto, probabilmente l’avrebbero sentito anche a quell’ora di notte. Faceva caldo, e c’era la finestra aperta.
Il commissario tacque a lungo. Poi disse:
– Moglie e figli che dormivano a pochi metri. La finestra aperta. Uno che in piena notte arriva, discute, probabilmente litiga, perché altrimenti non si capisce perché lo abbia ammazzato, e lo uccide. Poi se ne va tranquillamente, riapre la porta, scende le scale, esce dal palazzo. Nessuno lo vede. Nessuno lo sente.
Modo allargò le braccia.
– O magari qualcuno lo vede e sceglie di farsi i fatti suoi, semplicemente. O magari a quell’ora, in un quartiere nobile, tutti dormono nonostante il caldo. Sta di fatto che il conte Comesichiama ha confessato, no? Perché avrebbe dovuto, se non fosse stato lui?
Di nuovo silenzio. Poi, a mezza voce:
– Già, perché?
Il dottore si alzò.
– Io devo tornare in corsia, ho un vecchio con una brutta polmonite che secondo me non arriva a domani. Senti, Ricciardi, ho preso una decisione importante che ti riguarda: una di queste sere superi la tua proverbiale avarizia e impieghi un po’ delle tue considerevoli sostanze per invitarmi a cena. C’è una nuova trattoria che mi dicono abbia un vino cosí scadente che ti puoi ubriacare bevendone meno di un litro. D’accordo?
Ricciardi protestò debolmente.
– Bruno, lo sai, non mi sento di uscire la sera. È un periodo un po’…
Modo alzò la mano, brusco.
– Forse non mi sono spiegato: è un ordine del tuo medico. Niente scuse. Vengo a prenderti in questura dopodomani alle otto, ché domani sono di turno.
– Ti hanno mai detto che i tuoi modi ricordano quelli dei fascisti?
Il dottore scoppiò a ridere, svegliando il cane che balzò in piedi.
– Ah, mi hai scoperto! In realtà sono una spia incaricata dal duce in persona di scoprire chi sarebbe disposto a intrattenere rapporti di amicizia con un dissidente, allo scopo di mandarlo al confino. Al mio posto verranno a prelevarti una decina di squadristi che ti faranno un bel mazziatone.
Ricciardi era rassegnato.
– Ci sto, meglio una decina di squadristi che una serata intera a sentire le tue farneticazioni politiche.
Quando uscí dal cortile Modo stava ancora ridendo, e il cane scodinzolava felice.