IX.

Ricciardi e Maione scorrevano i verbali, scritti nel linguaggio della burocrazia poliziesca, cercando tra le righe qualcosa di rilevante.

Il brigadiere, in piedi alle spalle della poltrona del superiore, si diede per vinto.

– A me mi pare che non hanno fatto niente di sbagliato, commissa’. D’accordo, l’hanno chiusa in fretta, l’indagine, ma effettivamente una volta che si presenta uno che ha il movente, l’occasione e l’opportunità e racconta per filo e per segno come è andata, che potevano fare?

Ricciardi picchiettò col dito sul foglio dov’erano indicate le motivazioni della chiusura dell’inchiesta.

– Potrei anche darti ragione, però non vedo i riscontri conclusivi. In pratica non c’è stato un interrogatorio del presunto reo confesso, e nessun confronto delle sue dichiarazioni con gli elementi oggettivi. Hanno preso il conte di Roccaspina e lo hanno «trasferito immediatamente al carcere giudiziario di Poggioreale, sotto la competenza dell’Autorità di pubblica sicurezza». E cosí si sono tolti il pensiero.

Maione scosse la testa.

– E che dovevano fare, commissa’, scusate? Leggete qua: il conte ha raccontato tutto, nei minimi particolari. Durante la notte, avendo bevuto parecchio e perso al gioco, gli è venuto in mente di andare da Piro per convincerlo a rimandare la restituzione di un debito che teneva. L’avvocato, che dormiva poco, gli ha aperto personalmente e lo ha ricevuto nel suo studio. Hanno avuto un alterco, il conte ha preso un oggetto dalla scrivania, non si ricorda se una penna o un tagliacarte e gli ha dato un colpo. Poi si è messo paura, se n’è uscito e se n’è andato a casa. Quando si è svegliato, da sobrio, è andato da Piro a vedere se per caso aveva sognato, e invece si è trovato davanti al cadavere e alla polizia, rappresentata da quei bei mobili di De Blasio e del mio collega Cozzolino. A quel punto ha confessato e la storia si è chiusa. Abbiate pazienza, che ci vedete di strano?

Ricciardi rileggeva di continuo gli stessi fogli.

– Prima di tutto, manca l’arma del delitto. Il conte non ricorda che cosa ha usato, è vero, ma nello studio e nell’ingresso non hanno trovato niente.

Maione allargò le braccia.

– Ma gliel’hanno chiesto, non vedete? E il conte ha risposto che non si ricorda, appunto; che forse se n’è liberato lungo la strada per tornare a casa.

– Intanto l’arma non c’è. Poi gli orari non sono stati riscontrati. Da dove veniva, il conte? A che ora aveva lasciato la sua compagnia notturna? Ed è mai possibile che nessuno l’abbia sentito bussare a casa Piro?

Il brigadiere passò davanti alla scrivania.

– Commissa’, io lo vedo che qualche elemento traballa un po’ e voi lo sapete che io li schifo dal profondo del cuore sia De Blasio sia quel gagà di Cozzolino. Ma, onestamente, non capisco che dovevano fare in quella circostanza. Hanno avuto la soluzione del caso su un piatto d’argento e l’hanno presa. Tutto qua.

Ricciardi rifletté, annuendo. Poi si alzò in piedi.

– Sí, ma alcuni riscontri si possono fare anche a posteriori. E se dobbiamo dare ascolto alla contessa, e mi pare che abbiamo deciso cosí, da qualche parte bisogna pur cominciare. Ti chiedo una cortesia, Raffaele. Siccome dobbiamo restituire questi verbali a quell’idiota di De Blasio entro domattina, ricopiameli integralmente. Io nel frattempo mi faccio una passeggiata all’ospedale dei Pellegrini, cosí vedo se Bruno Modo si ricorda qualcosa dell’esame necroscopico che ha eseguito su Piro.

Maione guardò sconsolato la piccola pila di fogli nella cartella.

– Mamma mia, commissa’. Voi lo sapete che non è cosa mia, scrivere: tengo le dita troppo grosse. Vi dispiace se coinvolgo Antonelli, dell’archivio? A lui ci piace assai, dice che tiene una bellissima calligrafia e che a scuola pigliava sempre i diplomini di merito.

Ricciardi si produsse nella solita smorfia che chiamava sorriso.

– Fai come vuoi. Ma mi raccomando: riservatezza estrema. Non voglio ritrovarmi tra i piedi Garzo che vuole sapere che cosa stiamo facendo. Abbiamo deciso di tornare su un’indagine chiusa, ricordati. Al lavoro, adesso. Ci vediamo piú tardi.

Risalendo via Toledo, mentre il mezzogiorno cedeva al pomeriggio. Risalendo la via principale, proprio quando la gente torna a casa o va al lavoro, o cerca da mangiare, o cerca di arrangiarsi. Quando tutti sono per strada a gustarsi l’aria di mezzo, quella con il sapore del mare e il frizzante del bosco, da aspirare come fosse oppio per sentir cambiare l’umore in meglio senza un perché, e Dio sa se ce n’è bisogno.

Ricciardi percorreva il breve tragitto che lo avrebbe portato all’ospedale godendosi la momentanea solitudine che si può avere solo in mezzo a una folla indaffarata. Cercava di mantenere la mente sul caso che non era un caso, sull’indagine che non poteva essere un’indagine. Si chiedeva come e perché si stesse occupando della questione, lui che interpretava sempre il lavoro come un fattore necessario, come un avere a che fare con le ombre dell’animo umano per obbligo e mai per volontà propria.

Non era uno di quei tutori dell’ordine che fanno della ricerca dei criminali una specie di precetto morale. Si rendeva conto che dall’esterno, agli occhi dei colleghi della questura e pure dei magistrati, poteva apparire cosí: il suo addentare i casi, il suo dedicarsi alla loro soluzione anima e corpo senza intervalli o pause sembrava appunto una missione, qualcosa che andava al di là di un mero attaccamento professionale. Del resto, anche il fatto di non avere una vita sociale, una donna o molti amici, feste e ricevimenti da frequentare, circoli ai quali appartenere confermava quest’opinione che ci si poteva fare di lui.

Ma non era cosí, rifletté mentre camminava defilato per evitare la massa di gente che intasava la strada. In realtà lui odiava il lato oscuro dell’animo umano ed era terrorizzato da quanto fosse in grado di concepire la fiumana variopinta e puzzolente che ridendo, cantando, urlando e chiacchierando si riversava in vie e vicoli, creando le passioni che l’avrebbero portata alla gioia o, piú spesso, alla rovina. Avrebbe evitato volentieri di averci a che fare, col crimine. Avrebbe dato tutto quello che aveva per essere una persona normale, con l’unico obiettivo di farsi una famiglia e portarla avanti meglio possibile.

All’angolo di strada si presentò ai suoi occhi una scena grottesca e terribile. Una piccola fioraia se ne stava accovacciata a terra, con davanti un paniere di viole, rose selvatiche e giunchiglie. Sorridendo, cercava di richiamare l’attenzione dei passanti con una cantilena: ciure, ciure delicate, evere addirose, ma vuje vulite bbene a quacchedune? Fiori delicati, tradusse Ricciardi, ed erbe profumate. Da regalare a chi amate.

Di fronte alla bambina, a meno di un metro, il commissario percepí il cadavere di un uomo di mezza età. Gli occhi vuoti del morto, con la bocca digrignante di dolore estremo, fissavano alla stessa altezza, senza vederli, quelli della ragazzina: il corpo era stato tranciato di netto a metà dal tram sotto il quale si era gettato, e scompariva alla vista di Ricciardi all’altezza del bacino sanguinante, da cui fuoriuscivano bianche le vertebre e rosei gli intestini. La voce del morto, per lui perfettamente udibile, almeno quanto la cantilena della ragazzina, bestemmiava contro la miseria e la disperazione che lo avevano portato a cercare quella fine atroce.

Accelerò il passo senza rispondere all’invito della fioraia, estraendo dalla tasca un fazzoletto profumato e premendoselo sulla bocca per arginare la nausea improvvisa.

Ecco il perché, pensò. Ecco la spiegazione del mio attaccamento al lavoro, a quello che potrebbe sembrare il patologico piacere a rimestare nel fango che donne e uomini si portano chiuso nelle stanze segrete del cuore. Come faccio, come farei a ignorare tutto questo dolore? Come potrei sfuggirgli, come posso evitarlo, se mi arriva addosso a un angolo di strada in questo meraviglioso pomeriggio di settembre?

Giunse nel fresco dell’ospedale dei Pellegrini e fu investito da un silenzio che gli sembrò irreale, dopo il chiasso della piazza antistante dove si svolgeva un perenne mercato.

Conosceva bene il luogo, e si inerpicò per la scalinata che portava al reparto del dottor Modo.