XLIV.

Manco a dirlo, l’invito di Manfred aveva creato un vero e proprio subbuglio nella famiglia Colombo. Era atteso, certo, ma non cosí presto.

Questi tedeschi se puntano un obiettivo non perdono tempo per raggiungerlo, aveva detto Maria, e con soddisfazione, perché l’obiettivo era la figlia; ma il concetto possedeva un’inquietante sfumatura militaresca che diede i brividi a Giulio.

Enrica avrebbe gradito che l’invito le fosse recapitato in modo discreto, cosí da poter differire quell’incontro; da piú di ventiquattr’ore se ne stava quasi sempre chiusa in camera, accampando un lieve malessere dovuto alla mezza stagione e, forse, a una forma di influenza presa da qualche bambino al quale dava lezione.

Il padre si era affacciato nella stanza diverse volte, per chiederle in un sussurro se avesse bisogno di qualcosa; come lei era soggetto a emicranie, sapeva quanto fossero dolorose. Questo per la forma: nella sostanza voleva rendersi conto dello stato d’animo della figlia. Per uno spirito deduttivo come il suo, le condizioni in cui la mattina precedente era rientrata da una lunga passeggiata solitaria rendevano quell’indisposizione piú che sospetta.

Ma l’invito non era stato discreto affatto. Aveva fatto irruzione il giorno prima in forma di biglietto aperto, consegnato insieme a un gigantesco mazzo di fiori e ritirato dalla madre e dalla sorella al cospetto di tutto il pianerottolo, riunito in seduta plenaria. In pratica, Enrica era stata l’ultima a saperlo.

Manfred le chiedeva di dedicargli un’ora del pomeriggio successivo. Se non fosse stato possibile, pregava di comunicarlo allo stesso fattorino, però, aggiungeva con la strana grafia diritta e un po’ gotica, sperava con ardore in una risposta positiva.

Siccome tale risposta fu rilasciata di slancio direttamente dal comitato di ricevimento floreale, che non comprendeva la ragazza, fu positiva eccome. E l’appuntamento mediante fattorino fissato alle sedici.

La domanda, fin dall’immediato, fu una e una sola: che ti metti? Nella foga della scelta dell’abito, corredata da una discussione sulla marea di aggiustamenti ai quali sarebbe stato necessario sottoporre uno degli inadeguati capi dello scarno guardaroba di Enrica, nessuno si curò della mancanza di entusiasmo dell’interessata. Giulio a parte, ovviamente, al quale, tuttavia, fu fornita la giustificazione della persistente emicrania.

Lui, però, continuava a chiedersi che cosa fosse successo in quella passeggiata per la quale era partita un’Enrica e ne era tornata un’altra.

La ragazza, dal canto suo, era a dir poco distratta. L’incontro casuale, assurdo e inaspettato con Ricciardi l’aveva sconvolta. Non era preparata, e invece di assumere un atteggiamento formale e distaccato aveva parlato senza pensare, cosa che per lei equivaleva a camminare nuda per strada.

Aveva ripensato per ore a quello che aveva detto lei e a quello che aveva detto lui, e non si capacitava. A che serve tutto questo mare?, gli aveva chiesto. Ma che domanda era? Che significava? Non ne aveva la piú pallida idea, eppure in quel momento le era sembrata l’unica cosa sensata da dire.

La spallata alle certezze che a fatica si era costruita l’aveva poi data l’espressione dell’uomo. Avesse mostrato indifferenza, cortesia o semplice gentilezza sarebbe stato facile per lei salutare, magari con un cenno del capo e un sorriso, e tirare dritto anche se col cuore in tumulto. Ma non era stato cosí: era piú sconvolto di lei.

L’immagine dei suoi occhi sgranati, della bocca aperta, del ciuffo di capelli sulla fronte era vivida e univoca. Sorpresa, sconcerto; perfino paura. E quelle parole assurde: io vi ho visti. Ma che aveva visto? Che aveva potuto vedere, se non un ospite qualsiasi seduto alla tavola di famiglia in una sera di settembre?

Tra sé però doveva ammetterlo. Manfred non era l’ospite qualsiasi di una sera di settembre, era l’uomo che in una notte di luglio l’aveva baciata sotto la luna e che, per dolore e per paura della vita che sarebbe venuta, per il passato e per il futuro, lei non aveva respinto.

Ma quel bacio, Ricciardi non poteva certo averlo visto.

Con la testa altrove e senza entusiasmo aveva perciò subito la concitazione della parte femminile della famiglia, alla quale le vicine facevano da coro greco; uno dei momenti peggiori fu la massiccia offerta in prestito di orribili gioielli e accessori pacchiani, tutti rifiutati con cortesia.

Quanto al vestito, il comitato optò infine per una gonna con camicetta e giacchino écru a pois con una cloche dello stesso tessuto e guanti in tinta, con borsetta e scarpe beige; la madre ottenne di stringere un po’ in vita la blusa per dare risalto al seno, punto forte di Enrica. La ragazza non ebbe nemmeno la forza di reagire.

Alle sedici in punto del giorno dopo la sorella Susanna, di vedetta dietro le imposte, annunciò l’arrivo di Manfred. So’ tedeschi, disse ammirata per la puntualità, neanche si trattasse di una questione di orgoglio nazionale. Enrica scese e l’uomo la salutò sfiorandole la mano con le labbra, e mandando in visibilio una tribuna di familiari sul balcone.

Solo Giulio, se non fosse stato al negozio, si sarebbe accorto dello sguardo lanciato da Enrica verso una certa finestra del palazzo di fianco. Una finestra chiusa.

Per fortuna la passeggiata al braccio di Manfred non fu pesante. Il maggiore aveva tante cose da narrare a proposito di quel suo primo periodo di stanza in città, e lei poté trincerarsi dietro educati e interessati monosillabi. Le raccontò dell’ambiente del consolato, della simpatia degli impiegati e dei camerieri italiani, e della prosopopea del console. Camminando verso il centro, incontro a una leggera brezza che saliva dal mare, riportò divertenti aneddoti della giornata negli scavi archeologici; le disse di un professore tedesco convinto di parlare un ottimo italiano e che invece nessuno capiva, il che generava assurdi equivoci con gli operai locali, che si esprimevano solo in dialetto.

In breve Enrica sentí sorgere dentro di sé la tranquillità che Manfred le aveva sempre dato. Era come muoversi in un territorio nuovo eppure conosciuto, confortevole e vicino a quella serenità cui aspirava cosí tanto. Rise perfino, attirandosi gli sguardi curiosi e compiaciuti delle persone che li incrociavano. Lui era in divisa, bello ed esotico, e molte ragazze gli indirizzavano occhiate inequivocabili. Ciò gratificava Enrica, sebbene in modo piuttosto blando; non le procurava però alcuna fitta di gelosia, e invece avrebbe dovuto. Anche questo, disse tra sé, era indicativo di qualcosa, ma non avrebbe saputo dire di cosa.

Manfred commise l’inconsapevole errore di portarla al Gambrinus. Un luogo per lei pieno di significati, piacevoli e spiacevoli. Ci andava col padre, ci aveva incontrato piú volte Ricciardi, vi aveva visto quella donna, Livia, bellissima e sicura di sé come lei non sarebbe mai stata. Nell’attesa che un cameriere gli sgomberasse un tavolino alzò gli occhi in direzione di una lingua di mare che si stendeva lontana nel pomeriggio, come una minaccia. A che servi?, pensò. A che cosa servi?

Si sedette, mentre Manfred le spostava cortesemente la sedia. Ordinarono lei un gelato alla crema, lui un bicchiere di vino bianco. Dall’interno arrivavano attutite le note del pianoforte, ma a poca distanza un ragazzo magro suonava un’altra canzone, facendo volare le dita sul mandolino.

Tutto si poteva dire della città, commentò Manfred, tranne che mancava la musica.

Perché, che si poteva dire della città?, chiese Enrica.

Il maggiore si strinse nelle spalle, facendo un gesto vago verso la lieve salita che portava a Monte di Dio. Niente, lo sai, le solite cose.

Quali solite cose?, domandò lei. Intravedeva dietro la vetrata un tavolino non occupato. Ben due volte vi aveva visto seduto Ricciardi, lo sguardo assorto verso l’esterno mentre sorbiva il suo caffè, davanti a sé un piattino con una sfogliatella mangiata a metà.

Manfred sorrise un po’ imbarazzato. Il disordine, lo sporco. I delinquenti. Quello che si dice.

Enrica strinse gli occhi dietro le lenti. A poco piú di un metro tre ragazze cercavano di attirare l’attenzione del bel soldato biondo ridacchiando, lanciando occhiate e accavallando le gambe.

Ah, questo dicono, della città.

L’ufficiale si agitò un po’ sulla sedia, senza smettere di sorridere. Ma è gente che non la conosce, che ne parla cosí, senza averla mai vista.

Enrica sentiva montare dentro una strana rabbia. Sapeva che Manfred l’aveva invitata per parlare d’altro, per stabilire di nuovo il contatto di quella notte al chiaro di luna, e capiva che, forse, la sua reazione eccessiva a una frase innocente era un modo di aggrapparsi al primo pretesto per rinviare una situazione che non avrebbe saputo come fronteggiare.

Non ancora, almeno.

E tu, replicò, tu che la città la conosci non sai spiegare che c’è ben altro? Che ha mille straordinarie bellezze?

A Manfred si appannò il sorriso, ma solo per un momento. Sei ingiusta, rispose. Lo sai che non lascio mai passare una vacanza senza venire qua, e che ho scelto questa destinazione fra le tante che mi offrivano. E sai che fra i motivi che mi hanno spinto a questo ci sei tu.

Il tavolino dietro la vetrata. Una sedia vuota sulla quale sedeva un fantasma che sorseggiava il caffè e guardava lei, proprio lei.

Questo non c’entra nulla, disse. La senti questa musica? Il mandolino, non il pianoforte. Sembra suonata per i turisti, per avere qualche centesimo d’elemosina. Ma non è cosí: è un’espressione, è il canto della città. È una storia, un racconto. Questo posto racconta storie, Manfred. Le racconta parlando, suonando, cantando e anche solo coi suoi colori. E voi, in quel freddo grigio in cui vivete, sapete solo parlare del disordine, dei ladri e dei delinquenti. E l’aria? E le canzoni?

E il mare?

Manfred si rabbuiò. Non capiva la piega che stava prendendo quel pomeriggio, ma non gli piaceva neanche un po’.

Io non la penso cosí, Enrica. Io voglio bene alla tua gente, e amo questo posto, se lo ami tu. Sono venuto per…

Non devi amarlo se lo amo io, Manfred. Devi amarlo in assoluto. Perché è bello, e magico, e anche se a volte è disperato e ha bisogno di aiuto rimane l’unico posto al mondo dove si può essere completamente felici. Non lo capisci?

Il tavolino al di là del vetro. Il mandolino che si lamentava dolcemente. I colori degli abiti delle donne, i camerieri che svolazzavano in marsina, reggendo in bilico sulle abili mani guantate vassoi pieni.

Enrica si alzò all’improvviso.

Scusami, disse. Non sto bene in questi giorni. Ho mal di testa. Mi accompagneresti a casa?

Manfred si alzò a sua volta, l’aria costernata. Certo, tesoro, certo. Scusami. Rimandiamo, ma sappi che tornerò a invitarti, magari domani o dopodomani. Viviamo nel grigio e nel freddo, ma non siamo grigi e freddi, e quando troviamo qualcosa di importante, non ci rinunciamo facilmente.

Le offrí il braccio, galantemente, dopo aver lasciato i soldi sul tavolino. Le ragazze lí accanto rivolsero uno sguardo velenoso a quella donna acida e alta, molto meno bella di ognuna di loro, che aveva il potere di comandare come un cagnolino un uomo cosí attraente. Sarà ricca, mormorò una, facendo ridere tutte.

Il mandolino del ragazzo magro continuava a raccontare una struggente storia di amore e dolore.

Prima di prendere la via del ritorno, Enrica ringraziò la lingua azzurra che diventava bruna nella sera, all’orizzonte.

Dopotutto, si disse, ecco a che cosa serve tutto questo mare.