XXXVIII.
Ricciardi scendeva giú per la strada grande, diretto all’ufficio, dopo una notte quasi del tutto insonne.
Era stato difficile aspettare l’alba, con le immagini che si rincorrevano dietro e davanti agli occhi, volti ed espressioni, e sole e mare e bambini morti abbracciati a ricordargli il dolore. E nelle orecchie la confusione non era certo meno, con le parole del duca e della moglie di Piro e soprattutto di Enrica: tutto si affastellava nella sua mente stanca e vigile, assonnata e sveglia, macinando senza sosta il passato e il futuro per ricostruire un presente senza senso.
L’aveva incontrata, non poteva crederci. L’aveva incontrata dopo averla spiata la sera prima dallo spiraglio delle tende e le aveva perfino detto di quell’uomo, ripensando alla notte di Ischia e a quello che aveva visto nascosto dietro le fronde, e lei gli aveva gettato la colpa addosso. Ma qual era la sua colpa? Era solo. Era rimasto senza nessuno a pensarlo. Mentre Enrica aveva una famiglia numerosa come un esercito. E qualcuno che la baciava sotto le stelle.
E poi, che diamine voleva dire: a che serve tutto questo mare? Che avrebbe dovuto risponderle?
Ricciardi camminava, lo sguardo chino e le mani in tasca. Camminava avendo nella testa lo stesso vento e la stessa sabbia del giorno prima. E il vento portava in giro in maniera disordinata anche le poche, confuse idee sul caso Roccaspina, al quale sentiva di non dedicarsi abbastanza. La composta sofferenza della contessa che gli aveva chiesto aiuto avrebbe meritato la chiarezza di un rifiuto, invece di una carenza di attenzione.
La via andava popolandosi, un po’ in ritardo rispetto al reticolo dei vicoli che si dipanavano a monte e a valle. Il commissario ascoltava i richiami da una casa all’altra, il suono delle imposte che si aprivano al nuovo giorno. Sempre cosí, alle sette di mattina: un altro mondo, un minuscolo universo di volti e sentimenti.
Un gruppetto festoso di ragazzi gli passò davanti di corsa, con la cartella in spalla. Qualche scuola aveva cominciato ad accogliere gli alunni per i corsi di preparazione al passaggio di classe; era quel periodo ibrido in cui gli ultimi bagnanti in calzoncini e a piedi nudi incrociavano i primi scolari in divisa.
A poca distanza il commissario vide una figura che per statura avrebbe potuto tranquillamente essere uno dei giovani in transito per il mare o una scuola, ma la cui divisa non lasciava adito a dubbi. Quando gli arrivò vicino si fermò incuriosito.
– Don Pierino, buongiorno. Come mai in giro cosí presto e da queste parti?
Il piccolo prete gli rivolse un largo sorriso.
– Semplice, commissario. Aspettavo voi. Mi potete concedere un minuto?
Ricciardi aveva incontrato don Pierino un anno e mezzo prima, nel corso dell’indagine sull’omicidio del marito di Livia. Avevano simpatizzato, pur essendo diversi che di piú non si poteva. Il prete era allegro, estroverso, appassionato di musica lirica, il poliziotto, che fra l’altro provava un certo fastidio per le rappresentazioni basate sulla finzione dei sentimenti, l’esatto l’opposto. Però condividevano un sincero, profondo senso di partecipazione all’altrui dolore, un territorio abbastanza ampio per ospitare, se non una vera e propria amicizia, almeno un rapporto di buona confidenza.
– Ma certo, padre, – disse perciò Ricciardi. – Che succede? Avete bisogno di aiuto?
Don Pierino alzò una mano.
– Eh, di aiuto ne servirebbe eccome: gente che si ammala, bambini che non hanno da mangiare, capifamiglia sbattuti in carcere senza avere i soldi per difendersi da accuse strampalate; povere donne costrette a prostituirsi per dare da mangiare alle famiglie, vittime dell’usura, e chi piú ne ha piú ne metta. Ma queste sono cose che conoscete già, e anzi voi siete tra i pochi che combattono dalla mia stessa parte, credete che non lo sappia?
– Facciamo del nostro meglio, padre. Ma ditemi, allora, cosa posso fare per voi?
Il prete prese Ricciardi sottobraccio e gli indicò la strada in direzione della questura.
– Vi accompagno fino all’angolo, se non vi dispiace. Vorrei parlarvi di una questione.
Si incamminarono.
Erano una coppia davvero strana. Ogni tanto incrociavano qualcuno che riconosceva l’uno o l’altro, e le reazioni erano, a seconda del caso, molto diverse. Ricciardi dovette ammettere che don Pierino, era evidente, risultava assai piú apprezzato. Certo un prete fa piú simpatia di un poliziotto, pensò, ma forse il suo atteggiamento un po’ fosco contribuiva.
– Commissario, – disse il sacerdote, – vi devo chiedere uno sforzo d’immaginazione. Immaginate un prete, diciamo un vice parroco, bellissimo e buonissimo, alto e biondo, in odore di santità. Ci riuscite?
Suo malgrado, e nonostante la nottataccia, Ricciardi si trovò a sorridere.
– Sí, non ho difficoltà, soprattutto in questo momento. Andate pure avanti.
– Ecco, supponete che un giorno questo straordinario modello di bellezza e virtú riceva la visita in sacrestia di un suo amico, una persona buona e rispettabile, ma assai riservata: uno di quelli che prima di fare una confidenza personale si lasciano torturare. E supponete che questa persona si metta a chiacchierare come non è mai successo, e che il vice parroco si renda conto di come le sue parole nascondano grande sofferenza. D’accordo?
Ricciardi era incuriosito, non aveva la minima idea di dove don Pierino volesse andare a parare.
– Sí, padre, – rispose.
– Ecco, – riprese don Pierino, rallentando l’andatura, – secondo voi quel vice parroco alto e biondo e santo cosa dovrebbe fare? Accogliere le confidenze del suo amico, non in confessione sia chiaro, e cercare di dargli conforto oppure prendere l’iniziativa di dargli una mano?
Il commissario si bloccò.
– Padre, se si tratta di cosa che riguarda il mio lavoro, vi prego, non abbiate timore. Possiamo intervenire con discrezione e senza rivelare la provenienza di una notizia di reato che…
Don Pierino scosse il capo con vigore.
– No, no, commissa’, che avete capito? Nessun reato, ci mancherebbe altro! Lo so che in quel caso mi sarei potuto rivolgere a voi, ma sarei venuto a trovarvi in ufficio. Invece, come vedete, mi sono messo ad aspettarvi a un angolo di strada. Mi sono ricordato quante volte vado a officiare per qualche infermo e vi incrocio da queste parti di mattina presto.
– Ma allora di che si tratta, padre?
Don Pierino riprese a camminare.
– Dunque, commissa’, la faccenda è un po’ delicata. E io, credetemi, non so bene da dove incominciare. Sembra strano, sapete, ma non è che un prete sia uno che per forza ama farsi i fatti altrui. Lo dobbiamo fare per mestiere, ma non ci piace. Perlomeno, non a me.
Davanti al portone di un palazzo, agli occhi di Ricciardi si presentò il suicida volante deceduto due giorni prima. Era vivido e reale; gli parve quasi che se avesse allungato una mano avrebbe potuto toccarne il cranio sfracellato e l’addome deformato dalle costole sfondate. Inginocchiato sulla strada nel punto in cui era morto, sopra una macchia bruna che non era ancora stata lavata via, ripeteva: amore mio, non passerò un solo minuto ancora senza di te.
Preso di sorpresa, Ricciardi trasalí. Don Pierino seguí il suo sguardo e si soffermò sulla strada macchiata di sangue.
– Lo avete saputo, eh? Il professor De Stefano. Quando era viva la moglie veniva sempre a messa, poi, morta lei, non ci è venuto piú. Spesso ho pensato di venire a trovarlo, ma una volta una cosa, una volta un’altra…
Ricciardi sentiva la voce del poveretto pulsargli in testa. L’amore che uccide, l’amore che non lascia niente in piedi dietro di sé, l’amore che distrugge. Due ragazze passarono ridendo, le gonne a pieghe svolazzanti dietro la camminata svelta e piena di vita, i tacchi che percuotevano il marciapiede, le borsette a tracolla che dondolavano sui fianchi. La vita. La morte.
Amore mio, non passerò un solo minuto ancora senza di te.
– Per favore, venite al punto. Devo andare in ufficio.
Don Pierino lo fissò costernato. Il cambio di tono di Ricciardi, la freddezza delle sue parole lo avevano disorientato.
– Ma… ho detto qualcosa che vi ha fatto dispiacere, commissario? Se è cosí scusatemi, io parlo, parlo e magari non mi rendo conto.
Ricciardi si passò una mano sugli occhi.
– No, padre. Anzi, scusatemi voi. È che da qualche tempo non riesco a dormire bene e ho sempre un po’ di emicrania.
– Sí, sí, vi capisco. Non ci vediamo da quando vi venni a trovare per parteciparvi le condoglianze per la povera signora Rosa, e a essere franchi, in effetti, non avete un bell’aspetto. Questo mi conferma che forse è stata una buona idea venire a cercarvi. Vi devo fare una domanda, commissario. Una sola domanda.
– Prego.
– Per quanto tempo ancora volete condannarvi a questo dolore che, qualsiasi sia la ragione, vi portate in corpo?
Ricciardi si fermò di nuovo e guardò il prete. Dietro di lui l’immagine orrenda del suicida continuava a ripetere la folle litania del suo amore. Speriamo che da qualche parte, anche all’inferno, tu abbia il conforto che chiedi, pensò.
– Padre, siate piú chiaro.
Don Pierino esitava, poi si lanciò.
– Questo vice parroco alto e biondo della mia favoletta vuole molto bene al suo amico. E il suo amico adora la figlia, una ragazza delicata e gentile, dall’animo vulnerabile. Una ragazza che potrebbe, sentendosi allontanata dall’uomo che ama davvero, fare per la propria vita una scelta che magari non è quella giusta, della quale pentirsi, e che pagherebbe con l’infelicità. E allora il vice parroco alto e biondo vorrebbe tanto dire all’uomo che ha in mano il cuore della giovane di smetterla di alzare mura in cui lui stesso rischia di rimanere rinchiuso. Dirgli di aprirsi alla vita e ai sentimenti.
Ricciardi si voltò e fissò nel vuoto, che per lui vuoto non era.
Amore mio, ripeté il morto.
– E secondo voi, padre, cosa risponderebbe quest’uomo al vice parroco alto e biondo? Non gli direbbe forse che le mura esistono e che non è lui a costruirle, ma la vita, il destino? Non gli direbbe che a volte si vorrebbe, si vorrebbe tanto, ma che esistono ostacoli insuperabili?
Don Pierino scosse il capo, deciso.
– No, non potrebbe dirlo. Perché nulla è insuperabile, con un po’ di buona volontà. La felicità si conquista, non si può attenderla come se fosse dovuta. Il Signore ci ha dato la possibilità di scegliere, commissario. È il regalo piú grande che ha fatto all’umanità.
Non passerò un solo minuto ancora senza di te.
– Amare qualcuno significa volere il suo bene, padre. Voi dovreste saperlo. E quando si è sicuri di essere il male, ci si deve allontanare. Per impedire che proprio chi si ama di piú bruci sulla fiamma della candela.
Don Pierino, colpito dalla gravità delle ultime parole di Ricciardi, rimase qualche istante in silenzio. Poi la sua voce uscí piú commossa.
– Vedete, commissario, le anime sono fragili. Esseri bellissimi e fragili, di cristallo, lasciano passare la luce e il calore, ma non sono in grado di trattenerli. Le anime sono di vetro, e a strapazzarle troppo possono incrinarsi e dare riflessi sbagliati. Non sottovalutate l’anima, commissario. Abbiate il coraggio di guardare al suo interno, la superficie è trasparente, ve lo consentirà.
Ricciardi distolse lo sguardo dall’immagine del morto.
– Ditelo al vice parroco alto e biondo. Ognuno ama come può, e nella maniera che crede piú giusta. Buona giornata.
E si allontanò.
Rimasto solo all’angolo della strada, Don Pierino sussurrò poche parole, la bocca distorta in una piega amara:
– Io pregherò per voi ogni giorno, commissario Ricciardi. Ogni singolo giorno.