XI.
Perché aveva scelto di occuparsi di quell’assurda faccenda? Ricciardi non poteva fare a meno di chiederselo.
Era ormai pomeriggio inoltrato. Dal brontolio sordo dello stomaco si rese conto di aver saltato il pranzo; era successo molte volte in passato, ma mai da quando era rientrato dal Cilento dopo i funerali di Rosa. Si fermò presso un venditore ambulante che stentoreo paragonava le proprie pizze ai piú raffinati dolci delle migliori pasticcerie.
Mentre consumava velocemente il pasto, curvo in avanti per evitare che olio e pomodoro gli colassero sui pantaloni, la domanda continuava a girargli in testa: perché?
Un caso chiuso, un’indagine senza sbocchi; l’impossibilità di osservare coi suoi occhi gli elementi, di rilevare eventuali indizi sfuggiti agli altri e soprattutto di sentire l’ultimo mezzo pensiero del morto, attraverso quella terribile, folle facoltà che il Fatto gli regalava.
Era come cercare qualcosa in un cassetto vuoto.
E tuttavia gli pareva di essere tornato vivo, concentrato su qualcos’altro che non fosse la sua angosciosa, nuova solitudine. Già quello era un grande risultato, dovette ammettere.
Inghiottito l’ultimo boccone e gratificato con una mancia aggiuntiva il venditore che, con malcelato orgoglio professionale, gli chiedeva se la sua non fosse la migliore pizza fritta della città, decise che avrebbe occupato l’ora rimasta di luce per andare a casa della contessa di Roccaspina. Ricordava il luogo, e aveva letto l’indirizzo sul verbale di De Blasio.
Era plausibile che il conte fosse uscito e rientrato senza che la moglie se ne accorgesse? Voleva controllarlo e voleva anche parlare di nuovo con la donna per concertare con lei la successiva linea d’azione. Sapeva di doversi muovere con cautela, altrimenti i superiori lo avrebbero subito bloccato. Rimettere in discussione un’indagine chiusa era un peccato mortale, in pratica equivaleva a riconoscere di aver messo in galera un innocente, ancorché reo confesso, per errore. Con la conseguenza di scatenare un’immediata reazione da Roma e un terremoto in questura.
Inoltre, sebbene non fosse facile ammetterlo con sé stesso, desiderava rivedere Bianca. Capire per quale motivo coltivasse la convinzione dell’innocenza del conte con tanta forza. Sentiva che l’amore, la fedeltà coniugale, il legame matrimoniale non erano il vero motore della sua determinazione. Di che si trattava, allora?
Il portone era aperto, ma all’ingresso non c’era nessuno e Ricciardi si inoltrò nel cortile. Al centro, una grande aiuola mostrava una vegetazione incolta attorno a una palma altissima. Non c’era traccia di carrozze o automobili: la rimessa era vuota, se non per alcune casse accatastate nell’ombra. L’impressione era di un antico sfarzo ormai svanito, di un deprimente abbandono.
Salí l’ampia scalinata fino al primo piano, dove c’era un’unica, grande porta di legno scuro.
Ad aprirgli fu una donna piuttosto anziana, con un grembiule macchiato, che lo fissò dal basso con aperta diffidenza. Chiese della contessa e la vecchia, senza rispondergli, scomparve all’interno, lasciandolo ad attendere nell’ampia anticamera spoglia.
Bianca arrivò quasi subito. Non aveva alcun ornamento, eppure gli comunicò un’impressione di estrema eleganza e raffinatezza. Indossava un abito blu a piccoli disegni bianchi, dal taglio semplice, e i capelli ramati erano raccolti in una crocchia e tenuti con un fermaglio.
Fissò gli occhi calmi in quelli di Ricciardi.
– Commissario, che sorpresa. Non aspettavo visite, scusate se mi trovate in disordine. È successo qualcosa?
Lui accennò un inchino col capo.
– Mi perdonerete, signora. Sono stato all’ospedale a trovare il dottore che si è occupato all’epoca dell’esame necroscopico, e ho fatto due chiacchiere col collega che ha aperto e chiuso l’indagine. Volevo parlarne un attimo anche con voi, se avete un minuto.
Bianca annuí.
– Ma certo. Anzi, vi ringrazio per la solerzia. Francamente non ci speravo. Accomodatevi, prego, – e lo precedette in un salottino adiacente all’ingresso.
Ricciardi riconobbe lo stesso ambiente in cui era stato ricevuto al tempo dell’indagine sull’omicidio del presunto veggente. Emanava una generale sensazione di decadenza, che aveva già provato la volta precedente, e gli riportò alla memoria un breve alterco tra il conte e la contessa. L’uomo, ricordò, aveva lo sguardo febbrile di una bestia ferita e chiusa in un angolo, mentre lei gli aveva trasmesso una specie di inquietudine, la stessa che provava ora davanti a quegli occhi gelidi e calmi e nel contempo sofferenti e appassionati; mostravano un fuoco che ardeva al di là di una spessa lastra di ghiaccio immobile e trasparente.
Bianca gli indicò una poltroncina di fronte a un divanetto.
– Posso offrirvi un po’ di rosolio? Temo di non avere molto altro. Come forse avrete notato, siamo un po’ a corto di servitú e di provviste.
Ricciardi finse di non rilevare l’amara ironia.
– Nulla, grazie. Ho appena mangiato.
– Ditemi dunque, commissario. Avete ricavato qualcosa da questi primi contatti?
Ricciardi si aggiustò i capelli sulla fronte con un distratto gesto della mano.
– Vi confesso che fatico a farmi un’idea chiara di quello che è successo dopo il delitto per il quale vostro marito è stato arrestato. E in effetti le indagini potrebbero essere state chiuse un po’ di fretta: tra le righe dei verbali si legge l’evidente sollievo per la confessione.
Sul bel volto di Bianca guizzò rapida un’ombra di sorriso.
– Condivido la vostra idea, commissario. Del resto non mi sento di biasimare i vostri colleghi. Avere uno che ti toglie le castagne dal fuoco, ancor piú quando il delitto fa un certo rumore, è una congiuntura troppo favorevole per rinunciarvi.
Ricciardi assentí.
– Dimostrate molto equilibrio, signora. Da parte mia, ammetto che qualche controllo sarebbe stato opportuno. Per fortuna la perizia medica è stata condotta dal miglior professionista che abbiamo in città, quindi qualche riscontro in piú da quel punto di vista lo abbiamo. Ora dovremmo capire…
L’ultimo raggio di sole entrò dalla finestra e giocò tra i capelli della contessa, tirandone fuori un riflesso rosso. Sembrò all’improvviso una ragazza felice di aver ricevuto un regalo inatteso, e il commissario sentí come una carezza sull’anima.
– Allora avete deciso di occuparvene! – disse la donna. – Io l’ho sentito, sapete, quando a suo tempo ci siamo incontrati, che avevate una sensibilità speciale. Anche allora sarebbe stato facile accusare Romualdo, era la soluzione piú semplice, eppure non lo avete fatto.
Ricciardi si mostrò cauto.
– È meglio essere chiari, io posso pure riprendere in mano questa vicenda e cercare qualche indizio che magari è sfuggito per la fretta di cui parlavamo prima. Ma ciò non significa che il quadro generale, cosí com’è configurato oggi, possa essere ribaltato.
– Naturalmente. Ma vedete, commissario, io so per certo che quella notte Romualdo non si mosse da casa. E se Piro è morto quella stessa notte, allora non ho dubbi che non è stato lui.
Ricciardi rimase qualche secondo in silenzio. Poi decise che era il momento di fare la sua domanda.
– Volete dirmi come fate a esserne tanto sicura? Non potrebbe essersi alzato dal letto mentre voi dormivate, per esempio? Ed essere rientrato prima che voi vi svegliaste?
Bianca arrossí violentemente e strinse le labbra. Ricciardi rilevò l’improvviso cambio di espressione e rimase perplesso. La donna si alzò in piedi.
– E va bene. Tanto impressione peggiore non potrete farvi. Venite con me, vi prego.
Il commissario la seguí per una lunga teoria di stanze immerse nella semioscurità di imposte accostate e tende chiuse. Ambienti spogli, con parati scrostati e affreschi sbiaditi sugli alti soffitti, pochi mobili, un velo di polvere su tutto ad accentuare l’immagine di tristezza e abbandono di una grande casa che aveva conosciuto il lusso ma ne manteneva solo un vago ricordo.
Bianca camminava svelta, non una parola, lo sguardo fisso davanti. Le bruciava dover esibire lo squallore della sua condizione a quell’uomo, e nel contempo sentiva crescere una rabbiosa fierezza. Sensazioni contrastanti di cui si chiedeva la ragione. Mai aveva mostrato tanto di sé, e ora lo stava facendo per salvare chi l’aveva ridotta in quello stato. Ironico, a pensarci.
Si fermò davanti a due porte chiuse, adiacenti. Con un profondo respiro, si voltò a fissare Ricciardi.
– Ascoltatemi bene, commissario. Romualdo e io siamo sposati da dieci anni. Non abbiamo avuto figli, e il nostro rapporto è andato via via deteriorandosi. Immagino che succeda spesso nei matrimoni, e di solito lo si nasconde dietro una facciata di rispettabilità e di falso affetto. Purtroppo io non riesco a fingere. E questo è un difetto gravissimo per una persona nata nel mio ambiente.
Ricciardi taceva, imbarazzato, chiedendosi il perché di quelle confidenze.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Bianca aggiunse:
– Vi starete domandando perché io vi dica queste cose. Non mi fa piacere, ma credo sia necessario che conosciate la situazione per capire da dove mi viene la certezza di quello che affermo.
Ricciardi, senza un motivo al mondo, pensò a Enrica e a Livia, ma anche a Rosa e a Nelide. La casa calda, chiassosa e disordinata di una famiglia numerosa, che intuiva da due finestre e un sorriso; quella ricca e alla moda ma un po’ solitaria, gestita da due domestiche e una sguattera e profumata di pulito e lavanda; quella comoda e sicura, ovattata e silenziosa che zia prima e nipote poi accudivano per lui come un tempio. Ognuna aveva assunto il carattere delle donne che l’abitavano, ognuna assomigliava a chi si muoveva al suo interno. Quella casa, invece, non aveva nessun marchio. Impossibile, osservandone le stanze, risalire alla personalità di chi ci viveva.
– Signora, io non sono qui per farvi visita o per formarmi un giudizio su di voi o sulla vostra vita. Mi avete cercato per un motivo, e quel motivo è la ragione di questo incontro.
Aveva pronunciato quella frase per tranquillizzare la contessa, ma subito si rese conto di come gli fosse uscita di bocca dura e fredda.
La donna sembrò riflettere sulle parole di Ricciardi.
– Mi rendo conto. E infatti quanto vi ho detto serve proprio, ritengo, a comprendere meglio quello che è successo. La mia confidenza sullo stato dei rapporti con mio marito era una premessa necessaria perché vedete, commissario, da alcuni anni lui e io non dormiamo piú nella stessa stanza.
Ricciardi restò sorpreso.
– Ma… allora come fate a sapere che quella notte era a casa? Scusate, non capisco.
– Per questo vi ho portato qui. Vedete? – Bianca accennò con la mano verso una delle porte. – Questa è la mia stanza, e in quest’altra sta mio marito. Hanno una parete in comune. È molto sottile. In origine era una unica grande camera da letto. Molto tempo fa.
Il tono della voce di Bianca non tradiva rimpianti. La sua era una semplice enunciazione di fatti.
– È proprio quella parete sottile che mi consente, anzi, mi consentiva, di sapere con assoluta precisione sia quando tornava a casa sia quando usciva. Ho un sonno molto leggero e prima di addormentarmi leggo a lungo. Quella sera è rientrato alle nove e la mattina dopo è uscito alle sette e mezza.
Ricciardi era adirato con sé stesso. Quella donna gli stava facendo perdere tempo.
– Signora, francamente credo sia impossibile per voi essere sicura che vostro marito non si sia mosso stando in un’altra stanza rispetto a lui. Basate la vostra certezza su un’impressione, e temo che questo argomento sia troppo vago per riaprire un’indagine già chiusa. Ora mi scuserete, ma devo andare.
Bianca, inaspettatamente, gli sorrise.
– Lo immaginavo. È troppo comodo avere uno che confessa un delitto per buttare via la soluzione. Figuriamoci se a mettere in discussione tutto è una donna, che per di piú non divide la camera da letto con il marito.
Continuando a fissare Ricciardi, Bianca allungò la mano verso una delle due porte e l’aprí. Il pesante battente cigolò in maniera penosa, e quando lei lo richiuse rimbombò cupo. Entrambi i rumori, anche di giorno e con i suoni della strada che arrivavano dall’esterno, risultarono perfettamente e fastidiosamente udibili.
– Credetemi, commissario: io posso dirvi con assoluta precisione quando questa porta viene aperta e quando viene richiusa. Vi ho detto che dormo poco e che mi sveglio spesso durante la notte.
Ricciardi rifletteva.
– Ammettiamo pure, per amore di discussione, che voi abbiate sentito bene e che quella notte vostro marito non sia uscito. Ammettiamo che abbia avuto qualche motivo misterioso per confessare un delitto che non aveva commesso. Ammettiamo anche che l’esame necroscopico non sbagli e che Piro sia morto effettivamente tra mezzanotte e le due. Come avrebbe fatto vostro marito a sapere che era avvenuto il delitto? E per quale motivo un uomo tanto dedito alla bella vita sarebbe uscito cosí presto di casa?
Bianca non staccava gli occhi da quelli di Ricciardi.
– Mio marito giocava, commissario. Per questo maledetto vizio, per questa malattia, ha rovinato la sua vita e la mia. Ciò però non vuol dire che facesse vita mondana o che gli piacesse far tardi per andare a teatro o a divertirsi. Quando finiva quello che aveva, e se nessuno gli faceva credito, tornava a casa e si chiudeva qui dentro. Non era raro che tornasse presto, qualche volta non si muoveva affatto. Per quanto riguarda l’uscire presto la mattina, era un’abitudine che aveva preso da qualche mese. Non ho idea di dove andasse.
– E non gliel’avete mai chiesto?
La contessa sorrise, triste.
– Commissario, io e Romualdo parlavamo poco. Pochissimo. Certe volte mi pare impossibile averlo sposato, e non ricordo nemmeno quand’è stata l’ultima volta che abbiamo riso insieme. Lui ha… aveva la sua vita e io cercavo in ogni modo di tenere insieme gli ultimi pezzi della mia. Non avevamo piú alcuna confidenza, da anni.
Ricciardi ricordò che quando era venuto al palazzo per interrogare il conte, lei gli aveva subito detto che, se era un creditore, non aveva idea di dove fosse il marito. In un lampo capí a che inferno quella donna era stata condannata dal suo matrimonio.
– Signora, potrei vedere la camera di vostro marito?
Bianca aprí di nuovo la porta che produsse lo stesso fastidioso cigolio di prima.
All’interno regnava il disordine. Mucchi ingialliti di giornali e riviste raccoglievano polvere. Un vecchio grande armadio mostrava, da un’anta semiaperta, pochi abiti e un cappotto evidentemente rivoltato. Una toletta malandata il cui specchio era reso opaco dal tempo, con una bacinella e l’occorrente per la barba. Un cassetto semiaperto, con biancheria. Due paia di scarpe un po’ scalcagnate, un letto sfatto.
Bianca era rimasta al di là della soglia. I suoi occhi fuggivano la vista di quello spettacolo.
– Non permetteva nemmeno che entrassimo per pulire, io e la cameriera. È tutto come l’ha lasciato lui, quando è andato a… Quella mattina, insomma.
Ricciardi passava in rassegna quegli oggetti di uso quotidiano cercando di formarsi un’idea sulla persona che aveva abitato quel luogo. Un uomo che aveva ceduto interamente, abbandonando ogni dignità: sembrava una stalla o una rimessa abitata da un vagabondo. C’era odore di polvere e di rancido, coperto da un profumo di basso costo. Si avvicinò alla toletta sperando di trovare qualche lettera o documenti personali. Non c’era niente.
Si riscosse.
– Signora, devo chiedervi una cortesia, e mi scuso in anticipo per l’invadenza. Vi dispiace se entro nella vostra camera e vi domando di aprire e chiudere la porta di vostro marito?
Gli occhi di Bianca gli scavavano nell’anima, ma Ricciardi resse lo sguardo.
Alla fine lei si mosse, aprí la porta accanto e fece cenno al commissario di entrare.
Ricciardi tenne gli occhi bassi, perché fosse chiaro che non aveva la minima intenzione di irrompere nell’intimità della contessa. Non poté tuttavia fare a meno di notare, di sfuggita, una stanza pulita e profumata, con due deliziose tendine e un libro aperto sul comodino.
Dando le spalle al letto, chiuse la porta. Dopo un istante sentí Bianca che apriva e chiudeva il battente dell’altra camera. La donna aveva ragione, quel rumore era piú che sufficiente a svegliare chiunque, a meno che non dormisse un sonno molto pesante.
Uscí, deciso, e si rivolse alla contessa.
– D’accordo. D’accordo. Andrò avanti. Però avrò bisogno di incontrare vostro marito, e dunque prima il suo avvocato. Potrete procurarmi un colloquio con lui?
– Ma certo, commissario. È un caro amico della mia famiglia. Spero già domani, se volete. Vi devo accompagnare?
– No, non ce n’è bisogno. Anzi, forse senza di voi parlerà piú liberamente. Attendo che mi facciate sapere il luogo e l’ora dell’appuntamento.
La donna assentí di nuovo.
– Domani in mattinata vi manderò la cameriera in questura. E, commissario…
– Sí?
– Grazie. Siete la prima persona che mi ascolta da quando… da quando è successa questa cosa. E io devo sapere. Devo.
Ricciardi fece un cenno vago con la mano.
– Non mi ringrazi. Le assicuro che, in questo particolare momento, mi è di grande aiuto avere qualcosa su cui concentrarmi. Un’ultima domanda: vostro marito è mancino?
Bianca fece un’espressione stupita.
– No, commissario. Usa la mano destra. Perché?
Ricciardi si strinse nelle spalle.
– Non si sa mai quali sono gli elementi importanti in un’indagine. Meglio assumere tutte le informazioni, intanto.
Quando furono sulla porta la contessa si voltò verso di lui.
Scelse le parole e le pronunciò a voce bassa.
– Io devo liberarmi, commissario. Non sarò libera finché non saprò il perché. Lo capite, vero?
Ricciardi annuí e se ne andò, in fretta.