II.
Cantano. Che hanno da cantare, chi lo sa. Forse cantano per non impazzire, e cosí fanno impazzire gli altri.
E quest’aria, la stessa aria di fuori. Sembra impossibile. Mi ricordo questo tempo, settembre, che tornavamo dalla villeggiatura e papà mi consolava perché non avrei visto Bianchino, il mio puledro, fino a quando non mi ci avessero ricondotto di nuovo. Maledetto Bianchino. Maledetto, perché è da te che mi è venuta la passione per i cavalli.
Notte, aria dolce e canzoni. Una volta mi bastavano per essere felice. No, non è vero, non mi bastavano: mi serviva quell’ansia allegra, quell’attimo di dolorosa aspettativa. Perché è quello, il gioco: l’attimo dell’attesa. Meglio del vino, meglio dell’oppio, meglio di due puttane insieme. Quando quattro cavalli fanno l’ultima curva e si presentano sul rettilineo, testa contro testa, bava alla bocca, schiuma sul manto. O quando i dadi rotolano irregolari, saltando e inclinandosi: su una faccia la fortuna e sull’altra la disgrazia. Quando la pallina gira cercando il numero giusto, che sfiora e manca per depositarsi sulla casellina sbagliata. Quando ti consegnano una coppia di carte e tu ne sollevi un angolo, il cuore in gola.
Quattro passi per due, e quale sarà l’altezza? Tre metri, forse nemmeno. E questa finestra infima, con un muro davanti e un pezzo di cielo senza stelle. Pure le stelle hanno vergogna di affacciarsi. Pure loro hanno paura di impazzire, a guardare qui dentro. E questo canta, canta, e nessuno che urli sta’ zitto.
Amore, amore. Mio grande, dolcissimo amore. Chissà se sei sveglia, adesso. Chissà se mi pensi, se capisci quello che ho fatto per te. Chissà se la luna ti accarezza il profilo, se assaggia la tua pelle.
Io ho sbagliato, e pago. Cosí è, no? Ho pagato tutto quello che dovevo pagare. Ogni volta che ho perso, ho pagato. Con soldi, case, patrimonio. Ho pagato servi, carrozza, automobile. Ho pagato rispetto, onore. Ho pagato il nome, perfino. Ho causato dolore, e ne causo, e altro ne causerò. Mia madre è morta di vergogna. Eppure so che, se ne avessi l’occasione, mi fermerei di nuovo a veder rotolare i dadi, e punterei, e vincerei dieci per perdere mille.
Notte, notte di settembre. Quando passi? E quando smette di cantare, questo pover’uomo?
Sbarre. Sbarre alla finestra, sbarre alla porta. Sbarre per lasciar passare aria, ma non persone. Sbarre per tenere lontana la libertà.
Dormire, dovrei. Dormire senza sognare. Se ne avessi avuto la forza sarei morto allora, quando ho capito che non c’era ritorno. Invece di causare la morte. Maledetto, io ti odio ancora. E ti vorrei morto ancora, altre cento volte, e altre cento volte lo direi che ti volevo morto, bestia vigliacca, malnato bastardo venuto dalla melma. Ma era meglio che fossi morto io, al tuo posto, e ben prima.
Perché quelli come me, sai, sono inadeguati alla vita. Siamo gente che non è preparata alla rovina. Mentre tu, maledetto, avresti saputo muoverti bene nel fango dal quale eri venuto, tu che sei figlio e nipote di nessuno, mentre io posso risalire a dieci generazioni prima della mia. E stanotte li vedo tutti, i miei antenati, che mi aspettano per dirmi in faccia quello che pensano di me, che ho venduto il loro nome. Stanotte che non ho niente da bere, qui dentro, che non posso ubriacarmi per dormire e non pensare, o anche solo per non ascoltare questa maledetta canzone.
Io, il conte Romualdo Palmieri di Roccaspina. Io, che possedevo le terre di un re. Io, che quando sono nato ho ricevuto tre giorni di visite ininterrotte e piú argento e oro in regalo di un principe, e che tutto mi sono giocato fino all’ultimo grammo, senza pietà.
Meglio sarebbe stato se fossi morto in quelle fasce. Prima di te, maledetto usuraio vile e merdoso, che invece non hai mai tentato la sorte perché la costringevi a fare quello che volevi tu. Eppure anche stanotte, mentre questo cielo senza stelle da nero diventa latte, prima che l’alba arrivi di nuovo sulla mia rovina, non riesco ad augurarmi di non averti mai incontrato.
Dio, quando smette questa canzone? Questa canzone d’amore che mi devasta.
L’ultima notte. Ha deciso che è l’ultima notte che trascorre sveglia ad aspettare l’alba. L’ultima notte, senza sapere il perché.
Se lo è chiesta mille volte, forse diecimila in questi tre mesi. Perché l’ha fatto? Per quale motivo?
D’accordo, è malato; è instabile, squilibrato. Decine di notti lei ha passato in giro per sordidi vicoli, cercandolo presso indirizzi scribacchiati sul retro di biglietti del lotto, con l’inchiostro sbavato dalle lacrime e dalla pioggia. Decine di notti in piedi, nell’ombra, nascondendosi alla vista di individui sporchi e bavosi, per assicurarsi che non trovasse la morte con un coltello nella pancia, coinvolto in una lite tra ubriachi. Notti terribili, che ancora adesso le lasciano addosso un tremore di febbre e paura, e che tuttavia erano meno atroci di queste, tormentate dal dubbio.
Perché lei sa che lui è innocente.
Lei sa che lui quella notte dormiva nel suo letto, nell’altra stanza a pochi metri da lei. Il solito, inquieto sonno pieno di fantasmi e vino, a rigirarsi in preda a chissà quali mostri generati dalla coscienza e dalla paura del sole che sarebbe sorto l’indomani.
Lei sa che se il sangue è stato sparso quella notte, non è stata la mano di lui a spargerlo.
Lei sa che un uomo, ancorché folle, ancorché malato, ancorché vile e bugiardo, non è il diavolo in persona e non può trovarsi contemporaneamente in due luoghi diversi.
E allora ha deciso che questa è l’ultima notte che passa senza fare qualcosa per scoprire la verità. Per sapere perché lui ha detto di averlo fatto.
Si gira di nuovo verso il balcone socchiuso. Le tende hanno un fremito, nell’ultimo colpo di vento della notte. Ormai l’alba sta arrivando.
Sa bene cosa fare. Lo ha deciso da giorni, da settimane. Si trattava solo di trovare un po’ di coraggio, e quest’ultima notte insonne glielo ha regalato.
Ricorda bene il nome di quell’uomo. Strano, perché di solito non ha buona memoria per i nomi. Eppure il suo nome se lo ricorda bene, anche se il volto è legato a un altro momento di paura e di furore.
Ma soprattutto, di quell’uomo, ricorda lo sguardo.
E la pietà che aveva letto in fondo a quegli incredibili occhi verdi.