XXVIII.
Aveva riflettuto a lungo, prima di prendere l’iniziativa. Si trattava di assumersi la responsabilità di un grosso rischio, e il rischio, gli avevano sempre detto, era qualcosa da evitare. Assolutamente.
Tuttavia era davvero preoccupato. In fondo, rifletteva, l’incarico che gli era stato dato era molto preciso. Per quanto possibile e, ovvio, nella massima riservatezza, doveva fare in modo che la signora Vezzi Lucani Livia non corresse pericoli e stesse bene.
Non era un incarico come gli altri, di questo Falco era consapevole. In genere sorvegliava individui sospettati di essere sovversivi o delinquenti, o entrambe le cose. E allora erano lunghi appostamenti su una panchina con un giornale in mano, al sole; all’angolo di un vicolo con un ombrello aperto sotto la pioggia; su un ponte, il cappello tenuto con entrambe le mani per impedire che il vento se lo portasse via. Sempre in attesa che un portone si aprisse e ne uscisse qualcuno per annotare un orario su un taccuino e infine tornarsene a casa, maledicendo il giorno in cui avevi accettato un determinato cambio di sede o di funzione.
Un lavoro come un altro, si diceva Falco. Sapeva bene quanto fosse falsa, nel suo caso, quella frase fatta, ma gli piaceva immaginare di poterla dire. No, non era un lavoro come un altro, e piú passavano i giorni, i mesi, gli anni, meno lo era.
Occuparsi di Livia era stato strano fin dal principio. Quando il suo superiore lo aveva chiamato per affidargli il compito, gli era parso quasi imbarazzato. Era entrato nell’ufficio, una stanza anonima nel retrobottega di un negozio, di ceste nella fattispecie, ma la merce cambiava ogni giorno, credendo che sarebbe partito per sorvegliare un gruppo di confinati sospettati di voler costituire un’associazione contro il partito. Era consapevole, Falco, di essere tra gli agenti migliori: apprezzato e stimato, tutte le precedenti missioni portate a termine con assoluta precisione e puntualità, senza esagerazioni e soprattutto mantenendo una completa riservatezza. Falco, si diceva nell’ambiente, era affidabile, discreto e invisibile. L’ultima questione di cui si era occupato aveva portato all’arresto di otto persone che sembravano non avere tra loro alcun contatto, e che invece si scrivevano e si riunivano perfino, partendo dai piccoli paesi dove abitavano per incontrarsi in città. Un successo di una discreta rilevanza, alla fine di un certosino lavoro di appostamenti e ricerca di riscontri durato un anno e mezzo. Si aspettava perciò che quell’ometto senza nome e senza età, anonimo e di pochissime parole, perfettamente dimenticabile se non per una cicatrice sulla fronte che ricordava una virgola e gli occhi piccoli e vispi che saettavano di continuo da un lato all’altro della stanza, avesse in serbo per lui qualcosa di importante, di molto importante.
Ricordava quella sera. Gli era arrivato il biglietto di convocazione nella casella di posta fissata, un ambulante di dolciumi in Villa al quale aveva chiesto un palloncino colorato ottenendo in risposta uno sguardo intenso e un fuggevole gesto di consapevolezza, dopodiché si era ritrovato da solo al cospetto dell’uomo senza nome. Senza preamboli e senza mai guardarlo in faccia, questo gli aveva riferito brevemente la soddisfazione di Roma per l’ottimo lavoro.
Falco aveva avuto l’impressione che il superiore gli facesse quei complimenti malvolentieri, il che gli aveva provocato un sottile brivido di piacere. Quel velato fastidio poteva significare solo che l’ometto dalla virgola sulla fronte si sentiva insidiato da lui nella sua posizione.
Poi gli aveva spiegato il nuovo incarico.
Dapprima Falco non aveva creduto alle proprie orecchie, e aveva faticato a mantenere la proverbiale impassibilità: era l’ennesima prova alla quale lo stavano sottoponendo, si era detto. Aveva sentito di molti colleghi che avevano avuto la carriera stroncata per aver discusso un ordine o una strategia. Perciò aveva annuito, ringraziato e si era disposto all’ascolto.
Una cantante anzi, una ex cantante, vedova di un grande tenore. Che si trasferiva in città perché infatuata addirittura di un poliziotto, un commissario strano sotto sorveglianza da tempo, uno che operava spesso fuori dagli schemi, ma sul quale, come aveva letto dai rapporti, non emergeva nulla di anomalo se non una sospetta solitudine e la mancanza di qualsiasi vizio.
La donna doveva essere protetta, gli aveva spiegato il superiore, era molto cara a persone ai massimi livelli e non doveva correre alcun rischio. Si rendeva conto della singolarità della cosa, però gli avevano raccomandato che a occuparsene fosse uno dei migliori. Falco aveva cercato di capire se ci fosse dell’ironia in quelle parole, ma al solito non ne aveva trovata. Aveva preso gli scarni dati trascritti su un unico foglio e il fascicolo della donna, se n’era andato con un saluto freddo e formale e aveva passato la notte a studiare, aggrappandosi a quell’unica frase: molto cara a persone al massimo livello. In seguito avrebbe scoperto che Livia era tra le amiche piú intime della figlia del duce.
Era rimasto nell’ombra, come prescritto, a sorvegliarne il trasferimento e l’impianto della casa. Aveva costruito attorno a lei una rete di protezione affinché non le capitasse nulla di male in una città che non era mai come sembrava. Poi, a seguito di alcune circostanze imprevedibili, era stato costretto a chiederle un contatto diretto.
Era una cosa che, se possibile, andava evitata. La stessa esistenza dell’organizzazione, ancorché se ne parlasse molto e in termini sempre piú circostanziati, non doveva essere mai rivelata, tantomeno a chi era oggetto di sorveglianza. Ma in quel caso Falco aveva dovuto ottenere la collaborazione della donna, per evitare che si mettesse nei guai.
Ci ripensava ora, mentre saliva la rampa di scale del magnifico palazzo in cui Livia aveva scelto di abitare. Ripensava a quell’incontro e all’emozione che era riuscito a nascondere sotto la consueta impassibilità solo in virtú del lungo esercizio e dell’addestramento al quale era stato sottoposto.
Prima di allora l’aveva osservata perlopiú da lontano, tranne in qualche episodio, al teatro o per strada, fingendo di incrociarla per caso o prendendo un posto in un palco attiguo. E l’aveva studiata sulle innumerevoli fotografie scattate dai giornali in occasione di ricevimenti, inaugurazioni o prime rappresentazioni, ritratta insieme ad alte figure del Fascio. Sapeva chi era, e credeva di sapere com’era.
Poi se l’era ritrovata davanti.
La bellezza, pensava Falco mentre suonava alla porta, finché non ce l’hai davanti non puoi definirla. La bellezza è una questione di piccole mosse dei muscoli, di un battito di ciglia, di un movimento delle dita. La bellezza, pensava Falco, si sposta nell’aria come le onde radio, e se stai lontano non puoi percepirla per quella che è. La bellezza ti arriva in petto come un colpo improvviso, e il suo ricordo produce un’eco con cui, dopo, bisogna fare i conti per sempre.
Falco era diventato ben lieto di quell’incarico, all’inizio vissuto come un purgatorio professionale, dopo che aveva conosciuto Livia. Dopo che le sue narici avevano inalato quello strano profumo e i suoi occhi avevano incrociato quello sguardo nero e profondo, seguendo poi i contorni morbidi e flessuosi di un corpo statuario, promessa di un paradiso inaccessibile.
Gli era stato naturale, da quell’istante, proteggerla. Ed era ogni volta un piacere vederla e parlarle. Tuttavia ebbe coscienza di un sentimento piú denso solo quando la sentí cantare.
Amava molto la musica, era la sua sola debolezza. L’unico messaggio di bellezza che gli arrivava da un passato che aveva dovuto dimenticare, ma senza eccessivo rimpianto. Ricordava di avere assistito a un’opera dove Livia era fra gli interpreti, ma nell’occasione non aveva sentito tremare il petto come quando, sulla terrazza della casa in cui aspettava di entrare, aveva ascoltato la voce di quella donna meravigliosa modulare una canzone che non era mai stata cantata prima. Era stato allora che il suo vecchio cuore indurito aveva saltato un battito, per poi mettersi a galoppare impazzito; era stato allora che aveva provato per la prima volta una sensazione di smarrimento e innocenza, turbamento e debolezza; era stato allora che, quasi incredulo, aveva sentito gli occhi appannarsi di lacrime.
Erano passati due mesi. Due mesi in cui aveva dovuto confrontarsi con la consapevolezza di un sentimento nuovo, con ogni probabilità in contrasto con il proprio incarico. Due mesi in cui aveva cercato di trovare un precario equilibrio tra la professione e il suo essere uomo. Limitando il desiderio di piú frequenti occasioni di incontro, concentrandosi sull’espressione di vago disgusto di Livia ogni volta che se l’era trovato davanti. Impegnandosi per convincerla, un po’ alla volta, che voleva soltanto proteggerla, tenerla lontana dai pericoli in cui lei stessa e le sue fragili emozioni potevano metterla.
Tutto nella consapevolezza livida e sofferente che lei amava un altro. Un altro che senza un perché si manteneva irraggiungibile, forse a sua volta innamorato di un’altra persona.
E ora una ricerca fatta solo per compiacere Livia, una semplice indagine che doveva essere di mera routine lo aveva messo di fronte a qualcosa che mai avrebbe immaginato. In via indiretta, e molto marginale, il lavoro per proteggere Livia aveva finito per incrociare la presenza in città di una probabile spia militare tedesca.
Il fascicolo era secretato e il suo ufficio non era ancora stato investito della questione, ma gli occhi e le orecchie allenati di Falco non potevano cadere in errore. Il maggiore von Brauchitsch, appena insediato come funzionario culturale al consolato di Germania, aveva una segnalazione di massima allerta ed era già stato sottoposto a sorveglianza riservata ventiquattr’ore al giorno; e intratteneva da un mese e mezzo una fitta corrispondenza con la ragazza che abitava proprio accanto a Ricciardi, la stessa che era stata amica della defunta governante Rosa Vaglio e che era con ogni probabilità oggetto delle attenzioni del commissario.
Questa novità, se da un lato rendeva piú complicato proteggere Livia, un cui eventuale contatto col tedesco poteva avere conseguenze di portata non valutabile, dall’altro apriva per Falco interessanti spiragli. Non sarebbe certo passata inosservata l’assunzione da parte sua di informazioni sull’uomo, su ciò che faceva e su chi frequentava. Uno dei suoi, per esempio, aveva appena saputo che il maggiore era stato da un fioraio e che aveva inviato un bouquet di rose alla madre di Enrica. Il biglietto di accompagnamento preannunciava una visita per quella sera, come rivelato dal commerciante, che per una fortunata ma non rara circostanza era anche un informatore dell’organizzazione.
Falco aveva in mente di stilare un rapporto in cui informava i superiori di aver trovato un canale attraverso il quale avrebbe potuto osservare piú da vicino i movimenti di von Brauchitsch; una modalità discreta e laterale, ma al tempo stesso piú ravvicinata dei semplici appostamenti o dell’intercettazione della corrispondenza. Questo gli avrebbe fatto guadagnare un’inattesa visibilità, consentendogli un avanzamento nelle misteriose gerarchie della sua struttura.
Prima però doveva essere certo che Livia fosse consapevole dei rischi cui andava incontro essendo anche solo indirettamente vicina ai movimenti del maggiore. Quel Ricciardi era decisamente un pericolo, sia in un senso sia nell’altro. Poteva impedire il consolidamento del rapporto del maggiore con Enrica, se solo avesse chiesto alla ragazza di non vederlo piú, oppure diventare un ostacolo insuperabile nell’avvicinamento dello stesso Falco a Livia, se invece avesse deciso di accettare le attenzioni della bella cantante. Sarebbe stato utile, opportuno e piacevole trovare il modo di liberarsi di lui, magari per sempre.
In questa prospettiva aveva disposto di intensificare la sorveglianza del poliziotto. Magari sarebbe saltato fuori un appiglio per sbatterlo in galera, o per mandarlo al confino da qualche parte. Mai perdere le speranze.
Clara, la cameriera di Livia, aprí la porta; al posto del solito bel sorriso esibiva però un’espressione interdetta, triste. Falco ebbe addirittura l’impressione che avesse pianto. Chiese se fosse tutto a posto, e la ragazza scosse il capo, le labbra tremanti, incapace di parlare.
L’uomo si spaventò. Era forse accaduto qualcosa di male a Livia? Sempre in silenzio, Clara lo introdusse direttamente nel salotto, immerso nella penombra della sera. Di solito la ragazza era ciarliera e per liberarsene bisognava dirle in modo chiaro che poteva andare. Stavolta, invece, sembrava aver fretta di lasciarlo solo. Scappò via senza nemmeno accendere la luce.
Falco allungò la mano verso l’interruttore, ma una voce graffiata proveniente dal buio lo prevenne.
– No, per favore.
Aguzzò gli occhi e vide la sagoma di Livia, sdraiata sul divano. L’aria era impregnata dell’odore di fumo e alcol; d’impulso andò alla finestra e l’aprí, lasciando le tende accostate. Livia ebbe un accesso di tosse.
– Che avete, signora? State male?
Livia non rispose. Canticchiava, la voce impastata, una cantilena irriconoscibile. L’uomo si rese conto che era ubriaca.
Accese la lampada che stava su un tavolino. Livia era in veste da camera, aperta sul davanti, macchiata di liquore. A terra, vicino a lei, c’erano un posacenere pieno e due bottiglie: una rovesciata, che aveva creato una piccola pozza di liquido sul tappeto, l’altra semivuota. Alla fine del braccio disteso nel vuoto una mano reggeva, in precario equilibrio, un bicchiere.
– Eccovi, caro Falco, l’uomo senza faccia e senza nome. Vi hanno mandato per riportarmi a Roma, vero? Vi hanno chiesto di raccogliere i pezzi di questo rottame di donna, è cosí?
Pur nell’evidente stato di ubriachezza, pur discinta e sporca, pur triste e avvilita a Falco parve affascinante e bellissima. Percepí il suo bisogno di aiuto. Il malessere le conferiva una debolezza che lo inteneriva ancora di piú.
– Signora, voi siete tutt’altro che un rottame. Venite, mettete giú questo bicchiere. Da quanto tempo siete qui? Avete mangiato qualcosa?
La sollevò a sedere, sostenendola. Lei lo lasciò fare, poi cominciò a piangere, piano. A poco a poco i singhiozzi aumentarono, incontrollati, quindi decrebbero, sfociando in un flusso ininterrotto di lacrime che rigavano il volto impiastricciato di trucco sfatto. Sembrava una bambina inconsolabile.
– Vi prego, signora, ditemi che cosa è successo. Qualcuno vi ha…
Livia spalancò gli occhi su di lui come se lo vedesse per la prima volta. Poi disse, la voce sibilante e aspra:
– Sí. Sí. Qualcuno mi ha fatto del male. Qualcuno mi fa del male, mi ferisce, mi strazia, mi uccide. Se volete difendermi, se volete salvarmi, se è vero che mi proteggete dovete toglierlo per sempre dalla mia vista.
– Signora, ma che…
– È un invertito. Un maledetto pederasta, un omosessuale. Non gli interessano le donne perché preferisce gli uomini. È evidente, è questo il motivo. E io stupida, stupida, stupida che non l’avevo capito.
Le parole caddero tra loro come gocce di una pioggia rovente. Falco taceva, la mano sotto il braccio di lei. Sentiva il suo respiro di tabacco e alcol. Sí, era ubriaca, decisamente, ma che importava, in fondo?
– Ne siete certa, signora?
Lei annuí, piú volte. Poi scoppiò di nuovo in lacrime, sussultando nel fazzoletto che lui le aveva sporto.
Falco, quasi tra sé, mormorò:
– Questo spiega tutto. Non preoccupatevi, signora, ci sono qua io a proteggervi.