XII.

Il maggiore Manfred Kaspar von Brauchitsch alzò gli occhi verso il cielo e inalò una profonda boccata d’aria.

Gli occhi e il naso, coinvolti nell’operazione, gli diedero risposte inattese. Gli uni non videro stelle, nonostante fosse sera, per l’illuminazione ravvicinata dei lampioni ai lati della stretta via; l’altro restituí, invece della dolce aria profumata caratteristica del momento di passaggio tra l’estate e l’autunno, un aroma misto di aglio, cipolla e verdure cotte che proveniva da una piccola trattoria all’angolo della strada. Del resto le orecchie, se fossero state interrogate, gli avrebbero confermato che si trovava vicino a un posto dove si poteva mangiare qualcosa rimandandogli il frastuono di musica e canto stonato degli ubriachi che stazionavano fuori dal localino, fumando e ridendo.

Il maggiore, divertito, scosse il capo, pensando per la centesima volta in due giorni a quanto quella strana, disordinata, allegra città fosse diversa dalla sua Prien. Eppure si trattava di due sud, rifletté. La Baviera e l’Italia meridionale, che però differivano tra loro proprio come la Germania e quella nazione forte e piena di speranza in cui si ritrovava adesso.

Quante cose erano successe da luglio, quando era venuto per le cure termali che faceva ogni estate. E quante ne sarebbero successe ancora, prevedibilmente, di lí a poco. La vita può riservare enormi sorprese, e raggruppare in pochi giorni avvenimenti sufficienti a cambiare un paio di vite.

Manfred si avviò fischiettando per risalire via dei Mille fino alla chiesa dell’Ascensione, verso la pensione dove alloggiava. Se anche solo in primavera qualcuno gli avesse detto che la sua vita sarebbe cambiata cosí tanto, lui gli avrebbe risposto con un’amara risata.

Ripensò a sé stesso, a com’era qualche mese prima. Un soldato ferito e angosciato, senza prospettive, col cuore raffreddato dalla solitudine e dal tempo, alle soglie della mezza età. Per di piú soldato in un Paese praticamente senza esercito, che pagava una sconfitta vecchia ormai tre lustri, ripiegato su sé stesso a causa della paura e dell’incertezza. Un trentottenne stanco, che aveva perso la speranza di riempire il vuoto creato dalla morte della moglie, avvenuta da piú di dieci anni; lui che invece avrebbe voluto una famiglia, dei figli ai quali lasciare il futuro che aveva sognato e che, per il momento, non era riuscito a creare.

Poi, all’improvviso, due incontri avevano cambiato tutto.

Uno era stato a prima vista innocuo, il comizio tenuto da un piccolo austriaco al quale si era recato su sollecitazione di un ex commilitone che lo aveva già ascoltato. Ci era andato perché si fidava dell’amico, un uomo sinceramente innamorato della patria e come lui affranto per lo stato in cui la crisi economica perdurante l’aveva ridotta.

Il piccolo austriaco aveva un modo di parlare che ti svuotava il cuore da ogni insicurezza e te lo riempiva di furiosa speranza. Aveva una voce forte e decisa, ma anche sentimentale e delicata. Dispensava sogni e concrete indicazioni su come uscire da quel momento terribile e riaffermare il ruolo che la Germania aveva sempre avuto di guida del continente, prima tra le nazioni. Era Dio che lo voleva, aveva detto il minuscolo condottiero, e il volere di Dio vince.

Non era stato sorpreso di sapere che anche l’austriaco era un veterano della guerra, come lui. Solo un soldato poteva sapere di quali parole i soldati avessero bisogno. Al termine della riunione si erano conosciuti ed erano andati a bere un paio di birre insieme. Molte volte aveva constatato come chi parlava in pubblico in un certo modo si rivelava ben diverso nel privato, ma non era stato il caso di Adolf. Con piú pacatezza, ma uguale decisione, aveva ripetuto al tavolo della fumosa osteria i concetti che aveva espresso sul palco davanti ai seguaci adoranti. Aveva il dono, Adolf, di entrare in immediata sintonia con chi lo ascoltava, come uno strumento perfettamente accordato che si insinua all’improvviso in una banda di paese e per magia la trasforma in una grande orchestra.

Manfred aveva aderito prima al movimento poi al partito con gioia e convinzione. Non era capace di fare le cose a metà, lui. O era un attivista o si limitava a ignorare l’argomento. Il ruolo del simpatizzante non faceva per lui.

Incrociò due ragazze che si scambiarono qualche sussurro e gli sorrisero. Rispose con un galante inchino, sollevandosi il cappello in segno di saluto, ma continuò per la sua strada senza rallentare, con palese disappunto delle fanciulle. Sapeva di piacere alle donne. Il suo fisico alto e atletico, i folti capelli biondi, gli occhi azzurri e com’è ovvio l’uniforme attraevano immancabilmente gli sguardi, e in passato se n’era servito per intrecciare piacevoli e divertenti relazioni limitate nel tempo.

Adesso, però, non poteva piú dare seguito agli sguardi, perché era fidanzato.

Per la verità la cosa non era ufficiale, almeno non lo era ancora.

Ma lo sarebbe stata prestissimo, ne era certo.

Era quella una delle due ragioni per cui si trovava in città. L’altra era molto piú riservata, e per due giorni lo aveva tenuto impegnato al consolato tedesco senza poter dire a Enrica che era già arrivato: sarebbe rimasta delusa dal fatto che non fosse corso subito da lei.

Il maggiore von Brauchitsch era stato infatti nominato funzionario culturale presso la struttura diplomatica. Tutto era nato nei primi giorni di agosto, quando era andato a Berlino per congratularsi di persona con Hitler per la bella vittoria alle elezioni federali. Questi lo aveva abbracciato brevemente, poi lo aveva preso sottobraccio allontanandosi dal festante gruppo di veterani che lo circondavano.

La conversazione era stata rapida e intensa. Adolf gli aveva chiesto se era disponibile a rientrare in servizio, e lui, naturalmente, aveva risposto con entusiasmo di sí; il dolore alla spalla stava diminuendo, anche grazie alle cure assidue e all’allenamento cui si sottoponeva, e si sentiva pronto. L’altro, però, gli aveva spiegato che non era il servizio sul campo quello che gli stava proponendo, ma un differente tipo di attività militare, di ben maggiore importanza per lo Stato.

Manfred si era fatto serio, aveva fissato negli occhi il piccolo austriaco e vi aveva riconosciuto una determinazione purissima.

Quell’uomo avrebbe fatto di nuovo grande la Germania. E lui, Manfred, voleva contribuire a quel progetto. Con tutte le forze, lo voleva.

Adolf lo aveva messo in contatto con un comandante della Marina militare che aveva avuto con lui un lungo colloquio. Era stato scelto per il suo perfetto stato di servizio, gli aveva detto, per la sua adesione al movimento fin dalla prima ora e perché parlava perfettamente l’italiano. Poi gli aveva spiegato che era in corso un programma di acquisizione di informazioni, e che l’Italia era un Paese amico che, nelle intenzioni del partito, avrebbe potuto e dovuto diventare un modello e un alleato. Dai modelli si impara, e a volte certi dati non si possono ottenere in modo facile e rapido per via ufficiale, come serviva invece alla Germania per crescere presto e tornare ad assumere il ruolo di comando che le competeva. Insomma, bisognava andare nei luoghi dove esistevano le installazioni militari a dare un’occhiata competente e discreta. E riferire puntualmente.

Manfred non era uno stupido, capí all’istante: il comandante, un giovane e ambizioso militare che subito aveva compreso da che parte tirava il vento, gli stava chiedendo di fare la spia. Ma non era nemmeno un’avventata, romantica recluta, era un maggiore della cavalleria del Reichswehr, era stato in battaglia e aveva ucciso uomini nel nome del suo Paese. Capiva che la nazione poteva essere servita in tanti modi, e che ognuno doveva dare il proprio contributo secondo quanto gli veniva chiesto. Pensò in fretta, e aderí senza esitazioni.

Le settimane successive erano state dedicate all’addestramento. Da un lato gli avevano spiegato che cosa avrebbe dovuto vedere e cosa avrebbe dovuto cercare, dall’altro lo avevano istruito ai compiti propri di un funzionario culturale. Manfred aveva constatato con gioia che tra le città chiave per la raccolta delle informazioni utili al suo Paese c’era quella per cui lui aveva un interesse particolare, perché in quella città, il porto piú importante d’Italia, in prossimità della sua cara Ischia, abitava Enrica, la sua ancora inconsapevole fidanzata.

Non c’era niente di male se il Reich si serviva di lui e lui si serviva del Reich.

Il caso fortunato era che nelle prossimità della stessa città si stava svolgendo una campagna di scavi archeologici cui partecipava una spedizione di studiosi tedeschi, ed era quindi plausibile che fosse rinforzata l’assistenza a questi da parte del consolato. Un altro addetto culturale serviva, e la sua destinazione non avrebbe destato sospetti.

Proprio il mese precedente la Marina del Reich aveva intensificato i contatti con la Regia marina italiana, e due alti ufficiali, Boehm e Ritter, erano stati ospitati sull’incrociatore Giovanni dalle Bande Nere in occasione delle grandi manovre della Flotta. Era stato il primo contatto diretto, e i due militari erano tornati assai colpiti dall’efficienza dell’equipaggio italiano e soprattutto dalla modernità delle strutture portuali. La missione di Manfred era comprendere quale destinazione di risorse era stata necessaria per approntare l’impressionante forza espressa in quell’occasione.

La città, inoltre, ospitava un’aerostazione: e l’interesse massimo del nuovo governo tedesco era ricostituire un’adeguata forza aerea, ingiustamente proibita dalle altre nazioni europee a seguito della sconfitta. Anche su questo era necessario raccogliere informazioni, perciò al seguito di Manfred e sotto il suo comando, nel finto ruolo di assistente logistico culturale, era stato collocato un giovane pilota arrivato al consolato proprio quel pomeriggio. Si andava insomma formando un nucleo informativo, il che testimoniava l’importanza che l’alto comando tedesco conferiva alla missione. Il maggiore ne era lieto e gratificato.

Ora però che il lavoro era stato ben predisposto, poteva finalmente occuparsi della seconda importante ragione per la quale aveva deciso di accettare quella destinazione. La ragione piú personale.

L’indomani, pensò mentre attraversava la piazzetta sulla quale dava l’ingresso della pensione, avrebbe mandato un biglietto a Enrica. Le avrebbe scritto che era in città e che sarebbe stato felice di andare a trovarla. Voleva conoscere quella famiglia di cui la ragazza gli aveva tanto parlato nelle meravigliose giornate sotto il sole ischitano durante le quali Manfred aveva dipinto il ritratto di lei mentre, sulla spiaggia, accudiva una scolaresca chiassosa e colorata. Le avrebbe portato il suo sorriso, e alla mamma un mazzo di fiori, e al papà del tabacco e una pipa bavarese che aveva scelto a Prien.

Si sarebbe fatto conoscere, apprezzare, e col tempo amare. Senza fretta, con pertinacia e perseveranza. Aveva scelto Enrica perché fosse sua moglie e perché gli desse i figli che voleva. La Germania e l’Italia, da unire nella sua vita per lavoro e per amore.

Senza una ragione salutò quattro uomini che giocavano a carte su un tavolino malfermo sotto la luce di un lampione; uno di loro rispose con un goffo saluto militare mentre gli altri ridevano. E salutò anche la proprietaria della pensione, una grassa signora che si asciugava le mani in uno straccio godendosi l’aria della sera.

Salí le scale fischiettando e pregustando i dolci sogni che la frizzante aria di settembre gli avrebbe portato.

Dall’ombra di un androne, due occhi lo scrutavano freddi.