XIV.
Settembre, settembre. Notte di settembre.
Notte traditrice, che si presenta calda del sole del giorno che ha memoria dell’estate e porta tanti profumi di erba tagliata e di fiori gravidi, che basta lasciare uno spiraglio aperto e lei si introduce con dita lunghe e fredde e leggere ad accarezzarvi contropelo, per un minuscolo brivido di disagio.
Ma ormai gli occhi vi si chiudono per la stanchezza, e non potete alzarvi a chiudere quella finestra dalla quale entra la solita, malinconica canzone. E con le note entra il presagio del freddo, delle notti nelle quali quella brezza leggera diventerà adulta e soffierà e urlerà battendo la strada deserta, perlustrando balconi e rovesciando ceste e turbinando foglie, e la paura del fuori diventerà il calore del dentro e darà conforto, sotto le coperte e con l’odore della legna bruciata dalle stufe nel naso.
Ma quello è un altro tempo. Quello è il novembre delle piogge o il gennaio delle feste dimenticate, o la coda disperata della belva gelida che non vuole morire a metà marzo. Ora no.
Ora è settembre, e il profumo vince sul domani e su ogni terrore. È settembre, e sembra che la tenerezza della città di mare e cielo e fronde che stormiscono nell’aria fragile non debba finire mai. Sembra che le anime possano restare di vetro, e mostrare quello che hanno dentro senza paura.
Sembra. Perché settembre, di notte, ama mischiare il mazzo e dare una carta da scegliere. Una carta che conosce già.
Addormentatevi tranquilli, allora. E sognate pure.
Perché non sognerete nulla di quello che vi aspettate, mentre le vostre mani si allungheranno nel sonno a cercare una coperta che vi ripari dal freddo improvviso che entrerà, a tradimento, dallo spiraglio che avete lasciato, esponendo cosí la vostra anima.
La vostra anima di vetro.
Ricciardi avrebbe voluto sognare Rosa, invece sognò sua madre.
Almeno nel sonno avrebbe voluto sentire ancora la vecchia brontolona lamentarsi della sua solitudine e dei propri acciacchi, ciabattando per casa e preparando i terribili, enormi piatti di pasta e fagioli che gli infliggeva a intervalli regolari.
E invece si ritrovò al capezzale di quella donna minuta e fragile, i folti capelli neri striati di bianco, il volto smunto che era stato pieno di delicata bellezza e ora, ora che stava per morire, era pelle tirata su un teschio con due enormi, spiritati occhi verdi che guardavano nel buio.
Gli faceva paura, sua madre. La sognava sempre cosí, morente e attonita, quasi stesse per gettarsi in un abisso di cui non conosceva la profondità.
Come ogni volta si avvicinò al letto e rimase fermo, in attesa. Lei girò la testa verso di lui, ruotandola senza che il corpo seguisse il movimento.
In molti sogni, che ricordava al mattino e che lo seguivano per ore nella giornata, affliggendolo con un senso di disperata impotenza, la madre cominciava a piangere di un pianto lento, silenzioso, gonfio di ignoti rimpianti. In altri gli elargiva un orribile, sdentato, folle e nero sorriso che gli gettava addosso un’angoscia dalla quale non riusciva a liberarsi neanche da sveglio.
Ora invece la madre parlò.
Con voce secca e rasposa, come il crepitio della legna che brucia, gli disse: Solo. Adesso sei solo. Credevi che non sarebbe arrivato, questo momento? Credevi di poter resistere in eterno chiuso in un bozzolo?
Lui rispose, e la voce gli uscí in un soffio, controtempo al suo stesso respiro: E che potevo fare? Tu lo sai, mamma. Lo sai il perché. Me lo hai dato tu, il perché.
La madre, gli occhi fermi con le palpebre che non battevano, enormi e verdi e fissi nei suoi, rise. E la risata aveva il suono della porta del conte di Roccaspina che si chiude sull’inferno con un tonfo. Sí, gli disse, io lo so. E se avessi scelto anch’io di restare sola? E se non ti avessi voluto né pensato né immaginato? Avresti preferito non esserci? Non vedere dalla finestra questa ragazza, non sentire la ruvida mano di Rosa?
Prima che lui potesse rispondere, la madre si trasformò in una donna dai capelli ramati e dal collo lungo e sottile. Nel sogno, Bianca gli disse: Aiutami. Aiutami.
Ricciardi rabbrividí nella brezza notturna che forzava le tende, e pietosamente il sogno se ne andò.
A pochi metri di distanza e distante un milione di chilometri, Enrica avrebbe voluto sognare Manfred, invece sognò Rosa.
Su una rivista femminile della madre aveva letto che si sognava quello che piú si pensava durante il giorno. Una parte del cervello continuava a rifletterci durante il sonno e trasformava il pensiero in immagini. Semplice.
Allora, si sarebbe chiesta l’indomani all’alba, quando avrebbe cercato di sgombrare l’anima e il cuore, com’era possibile che un pensiero che mai aveva avuto nella coscienza si fosse materializzato tanto bene, a tre dimensioni e a colori, mentre si tirava il lenzuolo fino al mento per sfuggire all’improvviso freddo della notte?
Signori’, le aveva detto la tata sfiorandole la spalla; signori’, non vi mettete paura. Sono io. Rosa, aveva risposto lei, Rosa, come state? L’anziana le aveva sorriso: e come sto, bene, sto. Le gambe non mi fanno male piú, vedete? E aveva accennato a un goffo passo di danza. Poi l’aveva fissata in volto, un po’ severa: e voi, signori’? Come state? Non avete una bella cera. Non sorridete. Vi ricordate quello che vi ho detto su come dovete cucinare? Ve lo ricordate?
Rosa, aveva balbettato Enrica nel sonno, io non posso cucinare come mi avete insegnato. Sapete, sono successe delle cose. C’è Manfred, adesso. Lui mi scrive delle lettere, sapete. Delle belle, lunghe lettere. E sogna una famiglia, dei figli. Io, insomma, non posso cucinare come mi avete detto voi.
La vecchia le aveva accarezzato la faccia: figlia mia, povera figlia mia. Solo col cuore si può cucinare. Non lo sapete? Solo col cuore. Lo vedete? E si apre il grembiule, e attraverso la camicia, la sottoveste e la pelle Enrica vede il suo cuore rosso e grande che pulsa regolare. Se non tenete questo, non potete mica cucinare. Avete voglia a riempire le bottiglie di salsa di pomodoro, non ci riuscirete mai a preparare i piatti. E lo farete morire di fame, a questo povero… come si chiama? Alfred? No, rise Enrica, Manfred. E io il cuore ce l’ho, vedete? E anche lei mostrò il seno, ma sotto non c’era niente. Niente di niente.
Nel sogno Enrica si spaventò a morte. Come poteva vivere, senza il cuore? Rosa, Rosa, dov’è il mio cuore?, urlò, e mentre dormiva le uscí dalle labbra un flebile lamento. Signori’, non vi spaventate, disse la vecchia, voi il cuore ce l’avete. Lo dovete solo trovare. E quando lo trovate, mi raccomando, statelo a sentire. Come ho fatto io, per tutta la vita mia.
Non ne parlò nemmeno nel sogno, Rosa, e non lo nominò lei. Ma qualcuno le osservava discutere dall’ombra. Enrica sentiva su di sé lo sguardo verde di Luigi Alfredo Ricciardi, l’uomo che amava nei sogni e che di giorno scacciava dalla sua anima.
O provava a farlo.
Livia avrebbe voluto sognare Ricciardi, invece la brezza di settembre estrasse per lei il volto di Falco.
Sognò di seguire per strada un uomo che era uguale al commissario. Era difficile, camminava svelto e lei doveva combattere con i tacchi alti. Sentiva il suo respiro affannoso, faceva caldo e c’era folla. Poi lo raggiungeva, gli metteva una mano sulla spalla, lui si voltava e lei si ritrovava l’espressione indecifrabile, la mascella squadrata e il lieve sorriso di Falco davanti agli occhi.
Nel sogno provò una bruciante delusione, e non la nascose. L’uomo però parve non accorgersene e la prese sottobraccio. Le disse: Livia, devi capire che io faccio quello che è meglio per te. Si sentí offesa dal suo atteggiamento confidenziale, e rispose: Decido io quello che è meglio per me.
Allora lui, all’improvviso, la baciò. Cosí, per strada, davanti a tutti. I passanti però fissavano gli sguardi altrove, mostrandosi impauriti. Livia si divincolò, ma la stretta dell’uomo era forte e non riusciva a liberarsene. L’angoscia le premette forte in petto, e si svegliò di soprassalto con un grande senso di disagio.
Ma non ricordò che cosa aveva sognato.
Romualdo Palmieri di Roccaspina avrebbe voluto sognare il suo amore, invece sognò sua moglie.
Non gli era mai successo, da quando era in carcere. Il suo sonno era pesante, agitato, oppressivo e angosciato, e raramente assistito da un bel pensiero; ma qualche volta aveva sentito quella pelle sotto le mani, e aveva baciato un sorriso che gli apriva il cuore. Tanto bastava per rafforzarlo nella sua convinzione che aveva fatto bene a fare quello che aveva fatto.
Quella notte, però, c’era l’aria di settembre che aveva voglia di rimischiare il mazzo, e si ritrovò di fronte l’espressione severa di Bianca.
Se ne stava seduta rigida, gli occhi di quell’assurdo color pervinca fissi davanti a sé, le mani intrecciate in grembo. Era sulla sua poltrona preferita, tra i pochi mobili che il suo demone non aveva perduto al gioco, vestigia di un tempo passato e dell’uomo che avrebbe dovuto essere e che non era.
Bianca, perdonami, avrebbe voluto dirle. Ma come al solito non riusciva a parlarle, né a guardarla in faccia. Non riusciva mai a dirle quello che aveva nel cuore. Troppo male le aveva fatto, e la ragione e il torto erano troppo ben definiti per aprire una qualsiasi discussione.
Stavolta però il conte trovò nel sogno la forza di esplodere. Il perdono che non aveva la forza di chiedere diventò vomito, una serie di rabbiose parole di astio infinito. Disse a quella faccia pallida e impassibile tutto quello che da sveglio non avrebbe avuto il coraggio nemmeno di pensare. Espresse la solitudine di un uomo con dei difetti, ma che non aveva mai nascosto la sua vera natura; che non poteva e non voleva sentirsi in colpa per i figli che non avevano avuto; che era lei che non lo aveva mai capito, con quell’aria da madonnina infilzata che lo aveva fatto sentire sempre inadeguato.
Che con la sua sola presenza, quella muta, infastidita presenza gli aveva reso irrespirabile l’aria e impossibile vivere in quella casa. Che anche coi suoi difetti, le sue zoppie morali, poteva ancora provocare un sentimento dolce e un’attrazione in qualcuno di meraviglioso, dolcissimo e splendido. Un essere superiore, incantevole e affascinante.
Che se una colpa aveva, era quella di non aver compreso subito che non poteva stare vicino a lei, la moglie, un attimo in piú. E che mille volte meglio era trovarsi là, in una lercia galera, con la prospettiva di non muoversi mai piú da quel luogo, che nella prigione delle convenzioni e delle consuetudini nella quale era stato rinchiuso alla nascita e della quale lei, Bianca, custodiva la chiave che mai avrebbe usato per liberarlo.
Nel sonno godette dello sfogo maligno, di quelle parole sputate in faccia alla moglie, senza piú il paravento ipocrita del silenzioso accusarlo di lei e del senso di colpa di lui.
Ma quando si svegliò, in una livida alba, aveva la faccia inondata di lacrime.
Bianca non avrebbe voluto sognare niente, invece l’aria perfida della notte di settembre le diede in sogno Ricciardi.
Se lo trovò seduto proprio là, nella sua stanza da letto; la stessa in cui era entrato per ascoltare il rumore della porta di Romualdo che si chiudeva. Per gran parte della serata che era seguita, tenendo in mano un libro senza leggerlo, aveva cercato di capire qualcosa dell’effetto che le aveva fatto vedere quell’uomo tra le sue cose, cosí dentro la sua vita.
Avrebbe dovuto sentirsi violata, aveva pensato. Come si permetteva quell’estraneo, quello sconosciuto? Che ci faceva là? Come osava mancarle cosí tanto di rispetto? Era forse la sua miseria, la povertà delle sue cose a consentire quell’abuso di confidenza?
Poi aveva dovuto ammettere che Ricciardi si trovava là su sua richiesta. Lo aveva chiamato lei, chiedendogli e addirittura supplicandolo di occuparsi del caso di Romualdo. Quella che poteva sembrare un’irruzione era funzionale solo a capire se lei, Bianca, era una testimone attendibile o una donnetta che viveva di illusioni.
Era questo, aveva capito, a offenderla realmente. Il pensiero che Ricciardi potesse ritenerla una visionaria, cosí invasa dal desiderio che il marito fosse innocente da essere indotta a inventarsi una bugia.
Gli occhi del commissario non erano per niente curiosi della sua intimità, questo le era stato subito chiaro. Voleva solo capire se quel rumore fosse distintamente percepibile dalla sua camera. Eppure non era quello che le dava agitazione. Non era per questo pensiero che adesso, mentre inquieta si rigirava nella notte di settembre, sognava di vedere quello stesso uomo seduto sulla sedia di fronte alla toletta, le gambe accavallate, le mani giunte davanti alla faccia e gli occhi scintillanti nel buio puntati su di lei.
Il sogno, si sarebbe detta se avesse avuto la forza di essere sincera con sé stessa, è sfrontato, cara Bianca. Il sogno non ha decoro, non ha necessità di mantenersi all’interno delle consuetudini. Il sogno è vivo e vero e affonda le radici nel buio dei desideri.
Si sarebbe chiesta, Bianca, se avesse avuto il coraggio di guardarsi in faccia da sveglia, da quanto tempo non faceva l’amore. E da quanto non sentiva addosso la mano di un uomo. E quanto ne sentisse l’urgente bisogno.
Si sarebbe chiesta quanto fosse vera quell’immagine di algida sicurezza, di buona educazione e di riservatezza che dava di sé. E se ricordasse ancora quanto fosse bello ridere e respirare profondamente il profumo dei fiori, e baciare.
Perché significava proprio questo il suo sogno, che l’indomani non avrebbe ricordato se non per una vaga, inspiegabile inquietudine che le sarebbe rimasta addosso per ore. Il sogno di due occhi verdi che la scrutavano dentro, portato dall’aria profumata di settembre che entrava dallo spiraglio della finestra.
Nulla di meglio dell’aria di settembre, per spettinare i sogni e scompigliare i sentimenti. Nulla di meglio dell’aria di settembre, per mettere in discussione ogni sicurezza.
Nulla di meglio.
E nulla di peggio.