III.

Il brigadiere Raffaele Maione era preoccupato.

Quando la sera prima, a letto, lo aveva detto a sua moglie Lucia, lei con un sorriso gli aveva risposto, tu sei sempre preoccupato. Se non lo sei per i soldi a fine mese, lo sei per il lavoro. O per il tale figlio, o per l’altro, o per me. Tu ti preoccupi sempre, e quando non ti preoccupi sei in pensiero per il fatto di non preoccuparti di niente. È la natura tua, sei fatto cosí.

In effetti, il brigadiere doveva ammettere di avere un carattere apprensivo; e d’altra parte avrebbe voluto vedere chiunque al suo posto, coi pericoli che il mestiere gli metteva sotto gli occhi e cinque figli di varia età piú Benedetta, che ormai era piú figlia dei figli e viveva con loro da quasi un anno. Il mondo non era un posto sicuro, e tantomeno lo era quella città.

Certe volte non capiva come facesse, Lucia, a starsene tranquilla coi tempi che correvano, coi fascisti che non perdevano occasione di far vedere che comandavano loro, a colpi di mazza e calci con quegli orribili stivaloni. E sí che la perdita terribile che avevano subito con la morte di Luca, il primogenito, avrebbe dovuto aumentare la sua paura. E invece gli diceva, prendendolo in giro, che non si poteva nemmeno carcerarli, i ragazzi, e non fargli avere amici. In fondo, gli ricordava, loro due si erano conosciuti per strada, no?

Maione, però, proprio non ci riusciva a stare tranquillo. Se voleva bene a qualcuno, e immaginava che questo qualcuno stesse male o si trovasse in pericolo, si agitava e faceva di tutto per proteggerlo. Era nella sua natura di uomo e di padre.

E adesso era preoccupato, molto preoccupato.

Era preoccupato per Ricciardi.

In questura nessuno condivideva la sua ansia, lo sapeva. Il commissario non era affatto ben visto dai colleghi, e nemmeno dai superiori e dai sottoposti. Non perché fosse arrogante o prevaricatore, né incline all’insubordinazione o esageratamente reattivo. Non era indisciplinato, ed era tutt’altro che un lavativo; eppure qualcosa nel suo carattere lo rendeva inviso a tutti. Troppo schivo e silenzioso, mai allegro, mai in confidenza piena con qualcuno; in quella città retrograda e superstiziosa si era fatta strada l’idea che si portasse addosso una specie di malocchio, e la gente lo fuggiva come la peste.

Le sue qualità, come venire a capo dei casi piú intricati, non mancare mai un giorno di lavoro, addossarsi i compiti piú gravosi e non lamentarsi dei turni maggiormente disagiati, invece di attirargli la benevolenza altrui gli conferivano un che di poco umano che accentuava la distanza coi colleghi. Solo Maione gli tributava una devozione assoluta e un imbarazzato, ruvido affetto. Sotto quella scorza e al di là di quei silenzi il brigadiere aveva sempre percepito una profonda sensibilità e il sordo riflesso di un costante, umanissimo dolore. Era stato Ricciardi che, senza risparmiarsi come se si fosse trattato di una perdita propria, aveva condotto le indagini sull’assassinio di suo figlio Luca, e questo il brigadiere non l’avrebbe mai dimenticato; anche se in seguito si era reso conto che ogni singola morte violenta era percepita dal commissario come una ferita personale, incancellabile.

Questo piú di tutto gli piaceva in quell’uomo magro, senza cappello e dagli occhi verdi: un’umanità silenziosa che non necessitava di pianto e urla e manifestazioni esagerate com’era nello spirito e nei comportamenti della città. Ricciardi sapeva soffrire, e indirizzava la forza della propria sofferenza verso indagini caparbie, profonde e continue che inevitabilmente lo portavano alla soluzione dei delitti; e ciò nella consapevolezza, condivisa appieno da Maione, che scoprire un assassino non significava, purtroppo, riportare in vita la vittima.

Ma ora, era evidente, qualcosa dentro di lui si era spezzato. La morte della signora Rosa, la tata che era stata da sempre tutta la sua famiglia, aveva rappresentato una perdita devastante, e questo, pensava il brigadiere, era comprensibile. Nessuno piú di lui sapeva dare il giusto peso alla famiglia nella vita di un uomo, ancorché chiuso e riservato come il commissario.

Era stato al suo fianco quando si era trattato di sbrigare le formalità per il trasferimento della salma a Fortino, il paese del Cilento del quale la donna e lo stesso Ricciardi erano originari, e lo aveva accompagnato al treno in uno strano, minuscolo corteo con la nipote di Rosa, Nelide, tanto simile alla zia, il dottor Modo con l’inseparabile cane senza guinzaglio che lo seguiva come un’ombra e la sagoma scura della macchina della vedova Vezzi. Ricordava quel giorno caldissimo, con un sole infernale che non risparmiava nulla. L’aria rovente sembrava ferma, era difficile pure respirare.

Il dottor Modo gli aveva detto che la povera Rosa non aveva sofferto, passando dal sonno alla morte con serenità, vegliata da Nelide che per tutto il tempo non si era mossa di un centimetro dal capezzale dell’anziana. Il medico era affascinato dalla forza silenziosa di quella ragazza solida e brutta. La fronte in permanenza aggrondata e il grosso naso a sormontare una bruna peluria sul labbro, si esprimeva solo per secchi proverbi, a denti stretti, eppure mostrava una dedizione assoluta che alla morte della zia si era trasferita interamente su Ricciardi.

Anche il commissario era stato vicino alla vecchia tata, salvo una breve assenza la sera della morte, e tuttavia non era mai venuto meno al proprio dovere. Maione lo aveva affiancato nella soluzione del caso del professore precipitato dalla finestra del suo studio al policlinico, e non aveva rilevato cadute della proverbiale attenzione che Ricciardi dedicava sempre alle indagini, sebbene fosse evidente l’immenso peso che gli opprimeva il cuore.

Quando era rientrato dal Cilento insieme a Nelide, di fronte alle educate domande del brigadiere aveva tagliato corto, dicendo che adesso Rosa riposava vicino a sua madre e che tutto era stato sistemato; ma Maione sentiva che qualcosa in lui era cambiato.

Era sempre stato un uomo cupo e di pochissime parole, che si concedeva al massimo qualche tagliente, improvvisa ironia. Ora, però, in quegli occhi fissi nel vuoto e nell’espressione vacua c’era una solitudine nuova; un silenzio senza speranza. Metteva i brividi, Ricciardi, da quando era rientrato in servizio.

Né il lavoro era di aiuto. Al di là di qualche furto, di alcune rapine con ferimento e di una rissa al porto con un paio di ricoveri in ospedale, non era infatti successo niente di rilevante, e Maione non aveva potuto contare su un’indagine difficile per distrarre il commissario.

Il brigadiere, un po’ confusamente, era in ansia per la salute mentale di Ricciardi, e si chiedeva addirittura se ci fosse da temere un possibile gesto autolesionista del commissario. Cosí trovava ogni scusa per entrare nel suo ufficio: una volta gli portava il terribile surrogato di caffè che preparavano nello stanzone delle guardie, un’altra andava a riferirgli pettegolezzi che il superiore commentava, al piú, con un distratto mezzo sorriso.

Aveva notato che non andava nemmeno piú a mangiare frettolosamente al Gambrinus nell’intervallo del pranzo, com’era sua abitudine, e che la sera si attardava per non tornare a casa. Brutto segno, aveva detto a Lucia, gran brutto segno. Lei però lo aveva rassicurato. È un momento particolare. Passerà. Passa sempre. La moglie non ne aveva parlato, ma il fantasma dei due anni di silenzio che c’erano stati fra loro dopo la morte di Luca le aveva accarezzato il volto con la sua ala fredda.

Proprio per questo appena arrivato in questura Maione si catapultò su per le scale: voleva assicurarsi che il commissario fosse alla sua scrivania e che stesse bene.

E fu sorpreso quando si accorse che, nonostante l’ora, sulla panca nel corridoio c’era già qualcuno che attendeva di entrare.