XVII.
Il caffè era stipato di gente ma il cameriere piú anziano, che conosceva il cavalier Colombo da anni, gli trovò subito un tavolino.
L’aria dolce di settembre stimolava a rimanere all’aperto, per cui i posti all’esterno erano esauriti e c’era chi attendeva all’impiedi, appoggiato alla bassa ringhiera fumando e chiacchierando o leggendo il giornale del mattino. La sala del pianoforte, invece, era un po’ meno affollata, e Giulio preferiva trovarsi lontano da occhi e orecchie indiscreti per parlare con Enrica.
La giovane pareva non chiedersi per quale motivo il padre l’avesse chiamata. In realtà aveva il cuore in tumulto, perché non sapeva cosa avrebbe risposto alle inevitabili domande. Agli interrogatori della madre era preparata fin da quando era una bambina: sapeva come deviare il discorso verso territori meno insidiosi, e l’impetuosità di Maria si scontrava ogni volta impotente contro il muro che Enrica sapeva alzare. Il padre, invece, bastava che la guardasse occhi negli occhi, cosí simili ai suoi che sembravano riflettere i suoi stessi pensieri. A Giulio non era mai riuscita a mentire. Ma del resto non le aveva mai chiesto nulla che lei non volesse dirgli.
Questa era la prima volta.
Il cavaliere ordinò un caffè e del rosolio per la figlia. Poi cominciò a scrutarla, senza parlare.
Enrica si agitò sulla sedia.
– Papà, io vi devo chiedere perdono per le lettere che vi ho inviato quest’estate.
Colombo fu sorpreso.
– Perdono? E per quale motivo? Non erano sincere, forse?
– No, no, lo erano eccome. Solo che… Io non avevo il diritto di gettarvi addosso le mie pene, ecco. Non potevate fare niente, e sono stata cosí egoista da confessarvi tutto da lontano, senza guardarvi negli occhi.
Giulio protestò.
– Non devi dirlo nemmeno per scherzo. Io sono tuo padre. I padri questo devono fare, portare i pesi che possono togliendoli dalle spalle dei figli. Ma non è per questo che ti ho voluta vedere.
Fu il turno di Enrica di essere sorpresa.
– No? Ma allora…
– Ascoltami, tesoro. Tu non devi… Tua madre, vedi, parla per il tuo bene. È una donna che a volte… non vede molto in profondità, ecco, ma vi adora, e si getterebbe nel fuoco per voi figli.
Enrica si illuminò.
– Certo, papà, certo. È solo che ogni tanto è un po’… frettolosa. Sembra che voglia manovrare le vite degli altri, e questo io…
– … Non lo accetti, ti capisco. Ma quanto alle tue lettere, tu hai scritto quello che avevi nel cuore. E quando si ha qualcosa nel cuore, bisogna dargli ascolto. Tu lo sai che io non ho finito il liceo.
Enrica distolse per un momento lo sguardo.
– Sí, papà. Dovevate lavorare, perché era morto il nonno.
– Già, tuo nonno era morto. Ma avrei potuto insistere, magari continuando a lavorare mentre studiavo. La fatica non mi ha mai spaventato. Ed ero anche bravo. Avrei studiato Filosofia, sai che mi interessano gli argomenti della politica. Magari avrei trovato un posto da professore. Mi sarebbe piaciuto.
La ragazza era attonita. Non pensava che il padre avesse mai avuto aspirazioni diverse dalla conduzione dell’azienda di famiglia.
– Ma… e il negozio? Credevo vi piacesse molto il vostro lavoro. Cosí ci avete sempre detto.
Giulio scuoteva il capo, con un po’ di malinconia.
– No. Non molto, per la verità. Nemmeno rendeva tanto, sai? Tuo nonno non aveva saputo rinnovarsi, adeguarsi ai tempi. Eravamo quasi in bancarotta. Avrei potuto lasciar perdere, mia madre e mia sorella avrebbero tirato avanti coi soldi della vendita che gli avrei lasciato, avevano la casa. E io avrei seguito la mia strada.
Enrica non sapeva cosa pensare.
– Allora perché non l’avete fatto? Perché non avete continuato con gli studi?
Il padre guardava assorto due bambini che giocavano con il cerchio in strada, al di là della vetrata. Seguiva i suoi ricordi.
– Perché avevo conosciuto tua madre e me n’ero innamorato. E lei non avrebbe aspettato che io completassi gli studi e trovassi un posto di lavoro. Voleva sposarsi e voleva dei figli. Lo sai com’è fatta.
La giovane sentí il cuore stringersi in petto.
– Che peccato, papà. Che tristezza, dover rinunciare ai sogni per…
Colombo si voltò all’improvviso e la fissò.
– No. No. L’errore, il peccato come dici tu, sarebbe stato rinunciare a quello che avevo nel cuore in nome di una convenienza. Ho portato dentro a lungo il dubbio di aver sbagliato; un dubbio opprimente, pesante come una montagna. Tutto in me, i sentimenti, la natura, l’orgoglio mi facevano odiare questo lavoro, il dover fingere cortesia e riverenza a gente ignorante solo perché porta dei soldi. Sai quando è svanito questo dubbio? Lo sai quando ho saputo di aver avuto ragione?
Enrica sentí gli occhi farsi umidi sotto le lenti.
– No, papà, – mormorò; – quando?
La voce di Colombo s’incrinò in modo impercettibile. Fuori uno dei bambini cercava di convincere l’altro a dargli il cerchio.
– Quando sei nata tu. Quando ti hanno portata da me e ti hanno messa tra le mie braccia. E ogni volta che ti guardo, come adesso, ogni singola volta che guardo te o i tuoi fratelli, ringrazio Dio di aver fatto la scelta giusta. Nessuna filosofia, nessuna classe di studenti, niente avrebbe potuto darmi piú gioia di quella che provo in questo istante.
Mai Enrica aveva immaginato quanto amore ci fosse nel cuore di quell’uomo schivo e silenzioso, che non sapeva andare al di là di una fugace carezza. Trattenne a stento le lacrime, in silenzio.
Quando sentí allentarsi la morsa di commozione che le stringeva la gola, sussurrò:
– Perché mi dite queste cose, papà? Perché?
Giulio diede un piccolo colpo di tosse per scacciare a sua volta l’emozione.
– Te le dico, tesoro mio, perché voglio che tu non zittisca il tuo cuore. Questo tedesco… quest’uomo di cui ci hai scritto. Tua madre mi dice che potrebbe venire a casa per chiedermi di frequentarti. Io voglio, devo sapere qual è la tua volontà. Quella vera, intendo. Se hai bisogno di aiuto da parte mia, non aver timore. Non lo saprebbe nessuno. Io non vedo di buon occhio la politica della Germania, come quella dell’Italia del resto. Potrei giustificare un diniego con tua madre usando questo argomento, e poi non mi rende certo felice l’idea che un giorno qualcuno porti lontano la mia bambina. Se tu vuoi, io…
Enrica, d’impeto, allungò la mano sul braccio di Giulio.
– Papà, vi prego. Non dite piú niente. Io lo so che posso contare su di voi, ci assomigliamo tanto che certe volte sento nelle vostre parole l’eco stessa dei miei pensieri. Ma lui, quell’uomo di cui vi ho scritto, non mi vuole. Sono stata perfino sfacciata, e sapete quanto sia lontano dalla mia natura. Gli ho fatto capire chiaramente cosa sento, cosa sentivo per lui. Non mi vuole, altrimenti si sarebbe avvicinato. Non c’è timidezza, non c’è ritrosia che possa giustificare il suo silenzio. E Manfred… lui è un uomo dolce e buono, che ha vissuto e sa riconoscere l’importanza di un sentimento. Sento che con lui potrei trovare un equilibrio, una serenità. E far contenta la mamma.
Giulio protestò.
– Ecco, vedi? A questo proprio non dovresti pensare. Non conta il volere di nessuno di noi, conta solo il tuo. È la tua vita che stai mettendo in gioco, non lo capisci? Se tu ami un altro, non puoi nemmeno immaginare…
Enrica lo interruppe, la voce di colpo dura.
– Allora non lo amo abbastanza, papà. Io non permetterò mai a nessuno di giocare coi miei sentimenti. Lui sa, ne sono certa. Sa quello che provo per lui. Se non mi ha cercata, vuol dire che non gli interesso. Tutto qui.
Di una cosa sono certa. Nella mia vita voglio un marito, una casa e dei figli. Sono nata per essere madre, lo sento ogni volta che faccio lezione ai bambini, ogni volta che prendo il mio nipotino in braccio. E se l’uomo che avrei scelto, che avevo scelto, non mi vuole, vivrò la mia vita ugualmente.
Aveva cominciato a piangere. Le lacrime scendevano senza piú freni sulle guance e sulla bocca serrata. Giulio sentí il cuore sciogliersi.
Si sporse sul tavolino per asciugarle il viso col fazzoletto.
– Va bene, tesoro di papà. Non piangere. Va bene. Ma ricorda: finché io sono qui, non dovrai mai fare quello che non vuoi. Se fosse cosí, io avrei fallito il mio compito di padre. Tu dovrai fare sempre e solo quello che vuoi. Me lo prometti?
Enrica esitò, poi accennò di sí con la testa senza riuscire a parlare. Rimasero a guardarsi negli occhi, tenerezza nella tenerezza, amore nell’amore.
Fuori, uno dei bambini scappò col cerchio. E l’altro lo inseguí nel sole.