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Le wonderbabies stanno ancora rincuorando Monika. Magdolna le accarezza la mano. Katalin le passa i kleenex seduta sul bracciolo della fila opposta, dando le spalle a un Csányi apatico, lobotomizzato, in cui si riversano le nuvole del finestrino. Imréné e Mihályne, dalla fila dietro, continuano a miagolare consolazioni, restando aggrappate agli schienali con non so quali forze. Quando sono andato alla toilette, Katalin si è schiacciata al bracciolo per lasciarmi tutto il corridoio. È stato un movimento talmente brusco che l’avrei toccata apposta. Nessuna di loro ha alzato la testa per guardarmi. Il bastardo straniero ha guadagnato la coda, ha pisciato, è tornato al suo posto, senza che nemmeno una delle ragazze gli riconoscesse di esistere. In effetti, in aereo io non esisto, ma non è per questo che loro si comportano così. Penso alla scena che ho alle spalle come a una rappresentazione sacra, tipo morte della vergine, uscita dalle bombolette di un pittore pop, con le wonderbabies chine attorno alla neocampionessa già finita, già fallita. Riprendo in mano il laconico comunicato della Iaaf, riconsidero i valori di ferritina, ematocrito, stimolazione midollare, l’emocromo, quello sì stellare, della vincitrice immediatamente squalificata della Bavisela. 4a Maratona d’Europa Mónika Tóthné. I caratteri puntinati, arcaici, di una stampante ad aghi. Il Sant’Uffizio Iaaf. Due anni di squalifica possono non essere letali per una diciottenne, ma l’ammonizione ufficiale alla nazionale ungherese che rappresentava indurrà Csányi a indirizzare il destino di Mónika in un campo professionale credo sempre fondato sull’attività fisica ma ben lontano dall’atletica leggera.

Eccola lì, la spia in blazer, che inghiotte nuvole con la testa. E io che credevo di averlo messo con le spalle al muro.

- Allora era questa l’altra faccenda? - gli ho detto a muso duro, appena mi sono trovato solo con lui nell’ascensore del Jolly. E ho aggiunto: - So tutto.

- Tu non sai niente, Dario, - mi ha risposto lui, nel modo più apatico di cui sia capace una persona ancora viva. - A Szeged capirai, forse. Quello qui non è momento. A Szeged ti spiegheranno. Io dico solo che se un giorno ci incontreremo di nuovo, tu non mi guarderai così, quello dico. Comunque non ci incontreremo di nuovo.

Carlo al telefono mi ha confidato che anche Csányi rischia grosso. Lo ha fatto per consolarmi, subito dopo avermi detto che la nostra Federazione invece non rischia niente: io non ero altro che un semplice prestatore d’opera e lei, «Mamma Fidal», rescindendo il mio contratto in modo più che tempestivo, dimostrava la propria estraneità alla vicenda. Parlava gentilmente, Carlo. Mónika non era ancora rientrata dalle analisi e lui già mi stava licenziando: - Non te la prendere, caro Fil, sai come funzionano le cose. Con noi hai chiuso per sempre, ma anche all’estero dubito che qualcuno potrà offrirti uno straccio di lavoro. Tu bello, ormai sei veleno, sei l’untore -. Io sono il veleno e sono l’untore. Mi vedo entrare nelle vene di Mónika e contemporaneamente spingere il pistoncino. Mi vedo entrare nel collo teso del contorsionista, nel fiume che stiamo sorvolando, e contemporaneamente ficcargli dentro l’enorme siringa di cianuro apparsami sei mesi fa, nel primo volo sopra la Puszta. Quindi ero davvero io l’autore dell’iniezione. Era davvero colpa mia. Sembrava un’overdose proveniente dallo spazio, un cartoon di Hanna e Barbera, invece ero io. Ecco il veleno e l’untore. Il fatto che le altre quattro wonderbabies si siano segnalate concludendo compatte in 2:39'40" non cambia nulla. Il fatto che verranno cullate ancora dalla loro Federazione, e poi un giorno, chissà, conquisteranno il ranking, non cambia nulla. Il fatto che per sei mesi si siano scambiate Sms su László, Agota e il mio rincoglionimento, questo fatto, per me piuttosto significativo, non significa che io non siacontemporaneamente il veleno e l’untore, non significa che non sia diventato il bastardo straniero che sono. Mentre le sento ancora piagnucolare attorno alla madonna, ripenso a come la guardavano durante le Ripetute, a come si parlavano quando faceva sballare il ritmo dei Lunghi, a quanto devono essere felici per la sua squalifica. Chiunque lo sarebbe al posto loro: morta la madonna c’è speranza per tutte.

E per me, c’è speranza?

László ha fatto i miei figli. I miei spermatozoi sono storpi. L’andrologia è una scienza affidabile. Anche l’ostetricia lo è. Trentaquattro settimane, ha detto il dottore, con la sua fonetica da brividi. Calcolando nove settimane ogni due mesi, il concepimento è avvenuto sette mesi e mezzo fa. I calcoli sono sempre stati il mio forte. Sancho László Panza, Gambadilegno, il portaacque è entrato con il suo cazzo dentro Agota neanche due mesi prima che la conoscessi e ha fatto i miei figli. Ma perché pensare che sia stata l’ultima volta? Magari Agota ha nuotato sulla pancia di quello stronzo fino all’attimo prima che lui e Csányi salissero sulla Mercedes per venire a prendermi all’aeroporto di Budapest. Vedo Agota, il movimento delfinato del suo bacino, il letto rumoroso della sua stanza - ecco perché era l’unica ad avere una stanza tutta per sé -, László che si svuota dentro di lei e poi si veste in fretta per non far aspettare Csányi, László che scende con l’odore di Agota ancora nelle mutande. Ma perché pensare che dopo il mio arrivo abbiano smesso? Rivedo Agota che s’improvvisa crocerossina il giorno dello sbranamento di László. Cerco di non badare al fatto che sono stato proprio io a scacciare il maremmano. Rivedo Agota che scappa dalla pista il suo ultimo giorno di allenamento, László che arriva in bicicletta, la incrocia rallenta scende le appoggia una mano sulla spalla le parla e insieme scompaiono dietro le siepi di recinzione. Rivedo l’incontro al multisala Plaza il giorno di Matrix: io, Magdolna e Katalin impalati con le mani in tasca ad aspettare che i due terminino un dialogo non strettamente riconducibile - lo sospettavo, ora lo so - alla critica cinematografica. Chissà cosa rinfacciava Agota al portaacque con quella voce così contraffatta, quasi sintetica? Chissà cosa pensavano di me le ragazze mentre aspettavamo che la loro peggior nemica finisse? Be’, ora non è tanto difficile da capire.

Provo a restare disincarnato dal tizio seduto in 6A - corridoio - di questo semideserto Super80, anche se gli spasmi al colon stanno rendendo l’operazione sempre più complessa. Esco dall’aereo, lo affianco e guardo le ragazze da fuori i finestrini. Una bella morte della vergine, non c’è che dire. Un’opera di Kenny Scharf, o qualcosa del genere. Le vedo in mensa quando io non c’ero. Le sbaccanate, le imitazioni. Le vedo nella stanza di Imréné e Mihályne, un mese due prima che arrivassi, tutte zitte ad ascoltare il cigolio del letto al di là del muro. Le vedo nei tempi più distesi del ritiro estivo, i bagni nel fiume, le serate techno sulle chiatte, la contesa dell’allenatore obeso (ma sempre allenatore), i partiti, gli schieramenti, l’attesa dell’allenatore straniero. L’unica cosa che non riesco a vedere, neanche avvicinandomi fino a un metro da terra, è la faccia di Agota. Aveva già gli occhi troppo neri e troppo distanti? Gli zigomi erano già rosso Ferrari? E adesso Agota è ancora così? Perché, dalla mia aerea non esistenza, sono capace di immaginare tutto il mondo, di immaginarlo e metterlo a fuoco in ogni suo piccolo pezzo di vita, e non riesco a figurarmi la faccia che ha Agota quando non sono con lei? Com’era, com’è, cos’è quando non sta con me? La vedo chiamare un taxi in Kárász Utca, piegarsi nello spolverino per le contrazioni, tornare di corsa al Kollégiuma insieme a László.

Vedo la sua nuca oltre il lunotto della macchina filare per Belvárosi Híd, Attila Utca, Párizsi Körut, Kossuth Lajos Sugárút. Posso seguire i suoi capelli sformati dai riflessi del vetro strada per strada, senza farmi seminare. Eppure non sono in grado di vederle la faccia, di fatto non sono in grado di dire con certezza che è lei, che è l’Agota che conosco. Devo rinunciare, la responsabile di volo sta annunciando che il comandante ha iniziato la manovra di atterraggio. Prima di rientrare in aereo però, non resisto alla tentazione di andare in Fürj Utca 21. Mancano sedici giorni e l’allevatore di maiali non ha ancora ultimato i lavori. Eccolo lì, aggrappato sul bordo del camino. Le cicogne sono sparite, ma Szőgy sta osservando l’interno del nido come se dentro fosse rimasto qualcosa. Mi abbasso per guardare anch’io e, quando vedo… Fiona! oh Cristo, Fiona! - Fiona che mi fissa rannicchiata tra le paglie senza battere le palpebre! Fiona con il vestitino giallo della festa e gli occhi umidi! Fiona che non è stata covata e non è uscita da nessun uovo e che è qui apposta per fissare me in questo modo! - vengo risucchiato sul sedile da spasmi così violenti da temere che in qualche punto le pareti intestinali si siano lacerate. Un’emorragia, penso, e porto istintivamente la mano alla bocca in cerca di sangue.

- Can I help you, sir? Are you okay? - Non è una wonderbaby, è un’hostess. Mi guardo la mano. Niente sangue, ovviamente. Mi giro. Csányi continua a farsi riempire dal cielo. Nel quadro pop sono ancora tutte intente a passarsi kleenex. Tre file dietro di me sento i singhiozzi di Mónika, la madonna dopata. Magdolna le starà senz’altro accarezzando la mano. Il caso vuole che Magdolna significhi Maddalena. Nessuna di loro si è accorta di niente. - Are you okay, sir? Are you fine?

- No problem. I’m fine, thank you, - dico all’hostess.

Non era mai successo che riprendessi ad esistere prima dell’apertura del carrello.