57.

Quando Szőgy István è arrivato, io e Agota eravamo davanti al numero 21 di Fürj Utca già da un quarto d’ora. È sceso dalla sua Mercedes 600 verde bottiglia con i modi gioviali di chi è abituato a trattare con la gente. Aveva avuto un piccolo contrattempo alla dogana. Nessun problema, lui i rumeni li amava. Si era trasferito di là con la famiglia e il suo allevamento di maiali, perché in Romania con i tizi delle tasse ci si poteva ancora ragionare, mentre di qua ormai, e indicava con disgusto il nuovissimo porfido del marciapiedi, erano diventati davvero troppo ingordi. Per chi era la casa? Come per chi era la casa? Agota non si prendeva la responsabilità neanche delle risposte più semplici. Aveva trovato lei l’inserzione sul «Délmagyarország», lei aveva telefonato, lei aveva preso appuntamento. Eppure adesso traduceva soltanto. Traduceva e poi restava a guardarmi finché non parlavo. Szőgy ci osservava confabulare in italiano con la bocca semiaperta e il labbro superiore proteso verso la conoscenza. Ogni traduzione di Agota si concludeva con una risata del nostro potenziale locatore. Era già la terza volta in meno di cinque minuti che ci offriva una sigaretta e che noi rifiutavamo. Io avrei voluto togliermi in fretta dalla strada. Non mi piaceva quella situazione davanti al cancello in ferro battuto di casa Szőgy, con la Mercedes ancora in moto e noi tre esposti alla curiosità del mio futuro vicinato. Là fuori eravamo troppo chiaramente uno straniero e la puttanella che lo aveva inguaiato intenti a chiedere asilo a un allevatore di maiali. Accorciavo le mie risposte perché Szőgy si decidesse a farci entrare, ma lui continuava a ridere e a offrirci da fumare, convinto forse che quei preamboli fossero indispensabili a una prima reciproca esplorazione.

Dentro, il giardino girava su tre lati della casa ed era stato invaso da una colonia di piccoli fiori gialli. Facevano male agli occhi tanto erano fitti. Sul retro c’erano tre conigliere e un odore di piume vecchie di gallina rimasto intriso nella terra chissà da quanto. Lì l’erba cresceva a chiazze di differenti colori, come di un terreno beccato, grattato, brucato e che solo di recente si era ripreso da una grave alopecia. Avanzavamo in fila indiana sulle piastrelle sconnesse del camminamento in mezzo al prato, mentre Szőgy non smetteva di indicarci la fantastica insolazione, la fantastica vicinanza al fiume, la fantastica tranquillità dei bracchi della villa accanto, la fantastica posizione rispetto al centro, il fantastico set da piscina - due chaise-longue in plastica bianca, tavolino basso per long drink, ombrellone Marlboro - che aspettava, incellofanato per bene sotto la legnaia, nient’altro che la nostra brama di abbronzatura. Ogni tanto lo sorprendevo a sbirciare la pancia di Agota. Non ci aveva ancora fatto i complimenti. Escludevo la possibilità che lei non me li avesse riferiti, visto che traduceva l’offerta dell’allevatore fino all’ultimo fantastico. Dietro quella meticolosità Agota si stava nascondendo. Credo fosse un modo per difendersi dalla nettezza della scelta che stavamo compiendo. Mi sembrava comprensibile. Ero abbastanza elettrizzato io per tutti e due, potevo anche permetterle di restare al coperto. Vicino a un albero scheletrico, soffocato da un’improvvisa fioritura, c’era una panchina di pietra. Li ci avrebbe dato le sue lezioni di ungherese. A me e a mio figlio. Cos’era quell’albero? Uno che fa ciliegie non buone. Un ciliegio selvatico? Sì, un fantastico ciliegio selvatico. Avrei voluto dirle che andava tutto benissimo, che le ciliegie le avremmo usate per giocare col piccolo e quelle buone le avremmo semplicemente comprate al Cora. Avrei voluto dirle che anch’io mi ci dovevo abituare a quella nettezza, ma lei camminava curva in avanti, cercando di non far tirare troppo sui bottoni il suo spolverino da cow-boy, e intanto stavamo già salendo i gradini dell’ingresso. Davanti c’era una specie di veranda, con quattro sedie di paglia e un tavolo in formica. Lì avrei imburrato le sue fette biscottate e lei avrebbe allattato il bambino.

Il bambino o la bambina? Lei preferisce non sapere.

Szőgy si è tolto la sua giacca scamosciata. Agota invece ha insistito per tenersi lo spolverino e io l’ho imitata. Dentro, comunque, faceva più freddo che fuori. La casa era rimasta chiusa da settembre, sembrava una cellula di resistenza dell’inverno. Dalla cucina si sentiva sgocciolare un rubinetto. Probabilmente il ghiaccio aveva rotto qualche tubo. Nessun problema, la manutenzione spettava a lui, al… come si diceva chi dava in affitto? Si diceva locatore. Ecco, al locatore. E intanto venivamo pilotati in soggiorno. L’odore, esalato da una quantità senz’altro significativa di caricatori, era quello anfetaminico del Gled al limone. Szőgy ci ha chiesto di aiutarlo alle finestre. Via via che alzavamo le tapparelle, lì e poi nelle altre stanze, prendeva corpo - con tutti i faretti, i finti marmi, i divani anatomici in pelle e inox, gli interruttori a manopola - la nostra vita futura. Era impossibile non vederla. La gioia mi stava procurando una leggera vertigine, si mescolava all’imbarazzo esattamente dietro il palato: mi pareva di poterli separare con la lingua, ma non ci riuscivo. Nella confusione ricambiavo le risate per me incomprensibili di Szőgy, il quale ovviamente rilanciava con entusiasmo ancora maggiore, proponendomi di fumarci una sacrosanta sigaretta e sapendo che non avrei potuto rifiutare ancora per molto. Agota rispondeva all’agguato della contentezza rendendosi praticamente invisibile. Tutto ciò che saremmo diventati era lì pronto a saltar fuori dal buio, a ogni giro di tapparella il sole lo scolpiva meglio, e lei si incurvava sempre di più sopra nostro figlio, guardando ora me ora l’allevatore di maiali, di fatto cercando di disciogliersi nelle parole che portava da una lingua all’altra. Una fantastica moquette di tre centimetri, un fantastico armadio rosa e nero madreperlati, unafantastica specchiera che si stacca dal comò con la sagoma di un felino all’attacco, un fantastico bagno coi miscelatori in ottone… vabbe’, avremmo fatto qualche cambiamento, ma la casa in Fürj Utca c’era. E noi anche.

Prima di parlare di soldi Szőgy ha voluto mostrarci la consolle con il gruppo integrato del videocitofono e i comandi del cancello automatico, poi siamo tornati in soggiorno. Incorniciata alla parete c’era una T-shirt con le facce dell’allevatore di maiali e una probabile moglie sottotitolate dalla scritta I LOVE SEICELLE. Quei due sulla maglietta erano proprio al settimo cielo. Pazzesco, non capivo come si potesse essere felici lontano da Szeged. Guardavo alle spalle di Szőgy la macchia gialla dei fiori entrare compatta dalla finestra insieme all’aria non più fetida della primavera e già soffrivo per le volte in cui avrei dovuto allontanarmi dalla mia casa in Fürj Utca. Quanto avrei resistito in un posto che non fosse lì? Come avrei fatto senza le mie colazioni in veranda, senza la mia chaise-longue, senza le mie lezioni di ungherese sotto il ciliegio selvatico? Stavo già provando nostalgia per la mia vita futura, mentre Szőgy doveva aver chiesto qualcosa che aveva incendiato gli zigomi di Agota e non mi era stato tradotto. Cos’era successo? Niente. L’aveva offesa? No, non l’aveva offesa, non era successo niente. Ma Agota aveva gli zigomi rosso Ferrari come non glieli vedevo da mesi e Szőgy aveva il labbro superiore troppo proteso verso la conoscenza perché non fosse successo niente. Le aveva chiesto se era quello il suo lavoro, se lavorava per un’agenzia abusiva per stranieri, tutto lì. Come tutto lì? Gli aveva risposto che era la mia donna? E che quello era mio figlio, gliel’aveva detto? Sì, gliel’aveva detto. Nessun problema, lui amava le coppie miste. Anche lui, pur essendo un grosso fornitore della fabbrica di salami Pick, si era sposato con una rumena - lei, sì, sulla maglietta, esatto - ma poi erano andati a vivere laggiù, dove, anche se si stava così così, almeno non ti stressavano le palle con le tasse. Agota traduceva meticolosamente, ma ormai era tornata visibile: il dizionario elettronico che avrebbe voluto simulare era ora un’incandescente ragazza incinta. Non poteva più sottrarsi. Tutto ciò stava accadendo sul serio. Seduta in mezzo a me e a Szőgy, c’era lei sul serio. Doveva accettare il disagio di essere contenta. Due mesi anticipati di cauzione. Ovviamente l’allevatore di maiali voleva che ci mettessimo d’accordo tra noi, con una scrittura privata, senza contratti o altro. Come si diceva nero in ungherese? Si diceva fekete. Trecento euro non erano tanti per proteggere la Felicità Pura. No, d’accordo, andavano bene. Qua la mano. Ecco dove proseguiva la nostra vita dai primi di maggio.

Szőgy ci ha accompagnato fino al portone. Noi lo abbiamo convinto che no, grazie, non fumavamo proprio e abbiamo indugiato con molto più coraggio di prima sul porfido immacolato del marciapiedi. La Felicità Pura avrebbe abitato lì, si sarebbe amata, moltiplicata: i miei vicini facevano bene ad abituarsi sin d’ora allo straniero e alla sua giovane concubina. Quando ci siamo avviati verso il Kollégiuma mi ha colpito come i capelli di Agota restassero opachi al sole di mezzogiorno. Con la gravidanza sono diventati grassi, ma non pensavo così tanto, e questo mi ha messo una tale tenerezza addosso che non ho saputo resistere alla tentazione di tirarla a me con un braccio attorno al collo. Cazzo, stiamo facendo sul serio, mi ripetevo in continuazione. L’euforia mi solleticava in gola insieme a un lieve senso di nausea. Oh, Agota. Sentivo il calore del suo zigomo sull’orecchia, il rancido del cuoio capelluto prevalere di poco sul doposhampo. Ho aspettato il contatto della sua mano che si aggancia dietro, sul passante della mia cintura, per chiederle:

- Sei contenta? Eh, sei contenta?

Lei mi ha risposto con un sorriso.