14.
Eccole le mie teppiste, le mie scippatrici. Eccomi al passo, insieme a loro.
L’asfalto scorre più rapidamente ora, sotto le nostre Mizuno Wave Rider. Come se precipitasse nel vuoto subito dietro l’ultimo del gruppo, come se non reggesse una simile velocità pedonale e si sciogliesse in una vasca di niente un istante dopo il nostro passaggio. Stiamo andando. Quando le macchie di chewing-gum del marciapiedi fanno una scia sulla retina vuol dire che stai andando. Quando i moscerini ti si spiaccicano sul viso e cominci a sentirti uno scooter senza parabrezza significa che stai andando. E noi stiamo andando. E il terzo e ultimo segmento di Progressivo: quattro chilometri a 3'3o", quattordici minuti a 17,3 km/h, la conclusione ad elevata concentrazione di lattato di una giornata sostanzialmente aerobica e assolutamente esaltante. Abbandoniamo l’argine e penetriamo nel placido viavai della città. Per raggiungere il Kollégiuma Atlétika dobbiamo attraversare Újszeged, il quartiere nuovo al di qua del fiume. Percorriamo un tratto della Népkert Sor, entriamo nel parco Népliget. Oggi i nomi mi si stampano nella corteccia. È sempre così, sopra i 140 battiti la mente, il corpo che pensa, torna a funzionare. Usciamo sull’incrocio da cui le arcate pesanti di Belvárosi Híd si aggrappano al cielo, ma non prendiamo il ponte, restiamo sulla Alsó Kikötő Sor e aumentiamo ancora, superando biciclette, saltando rotaie, seminando il panico tra la gente che aspetta il tram. Affianco Mónika e Agota, in testa al gruppo, a un’andatura che comincia ad assomigliare alla mia. Anche le scarpette, gli appoggi, trovano l’asfalto in perfetta sincronia. - Slower, - dico, e apro la mano verso il basso a mo’ di flat per stabilizzare il nostro atterraggio. Le ragazze mi guardano, ovviamente senza sorridere e si riportano a un buon 3'3o". Mi volto per controllare il gruppo: Imréné e Mihályne sembrano le più affaticate, hanno una profonda V di sudore in mezzo alle tettine. Ma l’unico che non reggerebbe un altro segmento è László. A ogni lieve salita la sua citybike tappezzata di adesivi Adidas perde contatto. Guarda come imparano presto le tue wonderbabies, László, guarda che belle biciclette stanno diventando. Pedala, László, e impara.
Tra le inferriate di quello che ha tutta l’aria di essere un centro sportivo, in una nebbia che ha tutta l’aria di essere termale, compaiono le calottine gialle di pallanotisti in allenamento. La scritta dice Ligetfürdő. Quei tizi sono immersi in una piscina scoperta a cento metri scarsi dal Tibisco e al suo stesso livello, devo ripetermelo più volte per crederci. - Szeged water-polo, premier league, - mi urla László con tutto il fiato rimastogli. La puzza di uovo sodo delle terme copre per trenta secondi quella di olio di mandorle bruciato. Solo adesso mi accorgo che siamo circondati da passanti con la mascherina. Anche di là, sull’argine opposto, dove ci sono alcune chiatte ristorante e una piccola tribuna in pietra, c’è un sacco di gente allineata in piedi, come se dovesse sfilare qualcosa. Ma il fiume è immobile.
Mónika intanto, con la sua testa piena di elastici arancioni e gli occhi adrenalinici, sta di nuovo attaccando. Basta una lieve distrazione e il ritmo sale, è inevitabile. La fretta nasce da una sensazione nuova e dal desiderio istintivo che smetta il più presto possibile. I muscoli hanno cominciato a cannibalizzarsi. Le ragazze non avevano mai provato a correre così prive di carboidrati, così completamente svuotate. Vedo i loro culi, le loro gambe in preda a una rabbia cieca, entrare furiosi nei magazzini lipidici e mangiarsi tutto, mangiarsi piccoli brani della loro stessa carne, rosicchiarsi anche i mitocondri delle fibre veloci. Vedo l’insulina di Agota gridare: il glucosio, cazzo, chi ha nascosto il glucosio! Con il dorso della mano si è di nuovo spalmata un moccolo sulla guancia. L’herpes sembra quasi guarito. Non avere paura, Agota. È una cosa nuova. Lascia che il tuo corpo si organizzi, lascialo pensare una soluzione, non mettergli fretta, goditi una sofferenza che non conoscevi. Ma non dico niente di tutto ciò, anche perché, quanto a novità, queste sono frasi che dovrei rivolgere a me stesso.
- Perché ci fai mangiare tanto poco? - mi ha chiesto Agota in mensa, dopo i venti chilometri di Medio di stamattina.
- È una curiosità tua o una protesta di tutto il gruppo?
Le altre seguivano il nostro dialogo già sedute davanti alla loro tazza di brodo. La biondissima Katalin era passata direttamente alle fette biscottate (tre) e al prosciutto (un etto). László pregustava la sedizione, girandosi tra le dita una bustina di maltodestrine Gensan.
- Sì, anche loro domandano perché, - ha detto Agota, confortata da un timido abbassamento di palpebre di Katalin.
Avrei dovuto rispondere semplicemente: Perché siete grasse, perché nessuna maratoneta può permettersi di pesare cinquanta chili, perché tutti quei muscoli vanno bene per sfigheggiare in pista ma una volta finito il glicogeno vi lascerebbero per strada, perché voi wonderbabies, così come siete, vi impiombereste al trentesimo chilometro. Invece ho detto:
- Allora, visto che si tratta di un’interpellanza ufficiale della rappresentante del sindacato top-runner del futuro, vi devo informare che il vostro corpo corre grazie all’Atp, ovvero all’acido adenosin-tri-fosfato prodotto e utilizzato dai vostri muscoli attraverso una combinazione di ossigeno e glicogeno.
László aveva smesso di torturare le maltodestrine, adesso mi fissava con la bocca leggermente aperta.
- Quando anche il vostro fegato ha esaurito le scorte di glicogeno voi, per produrre Atp, cominciate a utilizzare i grassi. Ecco, questo non deve avvenire dopo, deve avvenire subito, perché il passaggio tra consumo di zuccheri e consumo di grassi è mortale per chi non ci è abituato. E voi non volete morire, vero? Voi volete vincere maratone, o sbaglio? Quindi bisogna che educhiate il vostro metabolismo a fornirvi fin dai primi chilometri una miscela di zuccheri e grassi, cioè l’ideale per fabbricare le quantità sconsiderate di Atp che una maratona pretende. Ora, l’educazione del metabolismo prevede una dieta con meno amidi e zuccheri, abbinata a Lunghi e Lunghissimi, ma se tu, Agota, hai un’idea migliore sono tutt’orecchi.
Agota, che si era attardata in una traduzione apparentemente analitica, si è bloccata sull’ultima frase e mi ha guardato. Le altre hanno guardato tutte come Agota mi guardava. Io ho chiuso il cerchio distogliendo lo sguardo da lei e guardando loro, con un sorriso che nessuna, giustamente, si è sognata di ricambiare.
László ci passa davanti con le bottiglie semivuote di AdHoc Gensan che sbattono nel cestello. Vuole farci strada, qui, nell’ultimo chilometro, dove la pista ciclabile è stranamente^ affollata da cani e persone con le borse della spesa. È un bel gesto, che però le ragazze non apprezzano. Mónika aumenta, imprecando, e prende subito la scia della bicicletta, il gruppo si allunga in fila indiana e Agota si gira verso di me, che sono l’unico fuori fila, per capirmi, interpretarmi, leggermi da qualche parte un permesso di volata.
Anche se tu, Agota, più che leggermi hai cominciato a scrivermi e quello che sto diventando adesso lo sai solo tu.
- Perché mi tratti così male? - mi ha chiesto a bruciapelo, appena ho aperto la porta. Cristo, aveva osato bussare alla porta del mio vendéglakás, in pieno riposo postprandiale, in pieno corridoio, con la sua T-shirt cortissima e i jeans strappati e gli zoccoli. Aveva osato, e io avevo già aperto e stavo già per rispondere, cercando di sottrarre parole al dilemma che in quel momento mi assillava: la faccio entrare, non posso farla entrare, la faccio entrare, non posso farla entrare.
- Entra.
Eravamo in mezzo alla stanza, uno di fronte all’altra. Con gli zoccoli era alta quasi come me. Non si vergognava di mostrarmi le unghie nere, i piedi distrutti.
- Perché ti tratto così male, dici -. Ho preso una pausa. Nel cervello sentivo una cosa che non sapevo neanche identificare che mi toglieva ossigeno. - Non so come hai fatto ad avere il mio cellulare, ma non voglio che mi mandi messaggi, chiaro? - Lei mi guardava. Non riuscivo a decidermi su quale dei due occhi fissarmi, passavo continuamente dall’uno all’altro. Aveva i capelli ancora bagnati. Sentivo il profumo del dopo-shampo. - Io sono il tuo trainer. Siamo qui per lavorare, giusto?
- Sì, giusto. Ma tu… sei sposato?
Mi ero fissato sull’occhio sinistro. Talmente nero che non si vedeva neanche dove finiva l’iride e cominciava il buco della pupilla. Sono sposato? Certo che sono sposato. E mentre ho pensato a quanto fosse ovvio e giusto per me essere sposato, mi sono sentito dire:
- No, non sono sposato.
E subito dopo mi sono trovato di nuovo la sua lingua in bocca.
Avevo bisogno di ossigeno. Quella cosa che non sapevo identificare me lo stava rubando tutto. Sentivo il gusto acidulo dell’herpes, stavo baciando Agota. Ho provato a toccarla, a risalire lungo il fianco, dentro la maglietta, fino alla piega delle tette. Era tutto pieno, sodo, teso. Mi pareva difficile anche solo palpare quel corpo. Quando si è slacciata i jeans, ho provato ad afferrare, a strizzare due belle manate di culo, ma niente, Agota è di mescola dura, è isoprene vulcanizzato a forma di donna. Solo li, in mezzo al pelo, la carne si fa più morbida e accogliente. E Agota mi ha accolto. Prima in bocca, nella sua grande bocca di adolescente, poi, quando la cosa che non sapevo identificare ha lasciato che un po’ di sangue raggiungesse il cazzo, lei mi ha disteso sul divano, svelta, pratica, come un’infermiera, e ci si è seduta sopra. Muoveva il bacino con quel movimento ondeggiante, delfinato, che non credevo le donne conoscessero già a diciott’anni. E mentre ero in ostaggio della perizia tecnica di Agota e accompagnavo il suo culo pneumatico colpo dopo colpo solo per mostrare il contrario, ho realizzato di essere senza preservativo e mi sono subito vergognato per quanto offensivo fosse un simile pensiero nei confronti di quella bellissima bambola senza sorriso che sicuramente doveva aver pensato la stessa cosa, ma poi, per non offendermi, mi aveva accolto così, senza. Vergognati, il preservativo. E sentivo le pareti della vagina stringersi come ganasce e tornare docili, lattiginose, dopo ogni spasmo. Vergognati, idiota, chi è più sano di noi? E intanto avrei voluto vedere se dietro l’orecchio di Agota ci fosse una porta seriale in cui inserire il Kamasutra, il nuoto a delfino e ogni altro software per le necessità della vita. Ma no, Agota non è un androide.
- Non sei ancora venuto? - mi ha chiesto a quel punto, con gli occhi che visti da sotto erano quasi nascosti dagli zigomi e mi scrutavano, perché evidentemente Agota ha in mente i tempi dei ragazzini e quindi non sa tutto e quindi non è un androide. Non immaginavo che una semplice domanda potesse eccitarmi tanto. Mi sono aggrappato ai suoi fianchi stretti e l’ho tirata a me con più forza e più velocemente. Mi è venuto su un lamento roco che non mi ero mai sentito. Anche il divano si lamentava. Avrei voluto fare meno rumore. Solo lei riusciva a trattenersi. Aveva la faccia tutta rossa, gli occhi rovesciati, ma non emetteva che lievissimi, ultrasonici igen. Igen, igen. L’unico sì bisillabico che conosca. Mi sarei accontentato di vedere l’herpes che si spacca di nuovo, sotto sforzo, ma ormai era troppo tardi.
- Resta, - mi ha detto. Come resta? Erano gli ultimi colpi. Come resta? Non posso restare. Cioè sì, io so che posso restare, io so che ho uno sperma handicappato, ma tu no.
- Vienimi dentro, - mi ha ripetuto, perché in quei momenti essere stranieri può creare comunque malintesi. Vienimi dentro? Io sapevo che le avrei iniettato una popolazione innocua, già morta. Ma lei no. Erano proprio gli ultimi colpi. Agota non si è sottratta e io ho spinto fin dove arrivavo, restando, come lei voleva. Con uno strano dubbio, però.
Poi si è distesa su di me, dandomi la nuca. Aveva la maglietta umida. Era calda, leggera. No, non leggera, completamente senza peso. Un angelo col profumo di doposhampo. Da dove toglierò per portarla a quarantacinque chili? Cosa sparirà di Agota? Se la guardo adesso, mentre risponde all’attacco di Mónika, allungando la falcata, alzando le ginocchia, commettendo i soliti errori, vedo bene come si asciugheranno le sue fibre, l’intaglio che disegneranno sui quadricipiti a suon di mangiarsi l’un l’altra. Ma a un angelo, come fai perdere cinque chili a un angelo?
- Vai a riposarti, che al pomeriggio c’è il Progressivo, - le ho detto, con la testa però ancora tutta in quello strano dubbio.
- Correrai anche tu?
- Sì, correrò anch’io.
- Che bello, correremo insieme, - e mi è parso che gli angoli della bocca le salissero un poco. Un poco di più di quanto richieda la parola insieme. Era una specie di cheese o un sorriso vero? Un altro dubbio. E lei, già con la mano sulla maniglia, notando quanto la mia testa fosse scollegata da ciò che ci stavamo dicendo, ha aggiunto: - Non ti preoccupare, prendo la pillola.