25.
Un cane, anche un grosso cane cattivo, non attacca un homo erectus che corre. Purché l’homo erectus non si fermi. Questo i maratoneti lo sanno. Ne hanno consumati di chilometri sul bordo strada: sono passati davanti a un sacco di cancelli dimenticati aperti, a un sacco di scritte Proprietà Privata, a un sacco di reti troppo basse. Le mie wonderbabies invece non lo sapevano. La pista è un laboratorio dove i cani non entrano. L’unico pericolo del mezzofondista è diventare un criceto. Nessuna di loro aveva mai subito una simile aggressione.
- Io amo i cani, - mi ha detto Agota ricominciando a piangere, non appena abbiamo potuto stare soli. - Ma quello lo ucciderei con le mie mani. Se tu avessi una pistola tornerei adesso da lui e lo ucciderei. Hai una pistola?
Assaggiare la saliva acida di Agota mentre piange è un premio che ho vinto chissà come - l’ho rubato? l’ho meritato? - ma che nessuno riuscirà a portarmi via. Vivo costantemente nella sensazione di dovermi difendere da una forza oscura, pronta a castigarmi, a distruggermi. Controllo in tutte le direzioni per anticiparla. Ogni tanto mi sorprendo a pensare che quella forza sono io. Il cane era grosso e cattivo, ma non ci avrebbe fatto niente se avessimo continuato a correre. Gliel’ho spiegato di nuovo. Agota era morbida oggi, arrendevole. Voleva che la coccolassi anche quando la penetravo, voleva una cosa dolce con le carezze sulla faccia e i bacini, per scacciare e un po’ celebrare l’incontro col cane.
Eravamo sull’argine che porta a sud, verso il sole e la Voivodina. Non avevamo bisogno di un percorso misurato. Stamattina ci toccavano 90 minuti a un potenziale Ritmo Gara di che per me significa 130 battiti spaccati al minuto: insomma era sufficiente il mio cardiofrequenzimetro e avremmo chiuso in tabella anche la nona settimana, con gli ultimi 24 chilometri in uno scenario diverso dal solito. Io ci ero già stato due domeniche prima, ma non mi ero spinto fino all’ovile. E al cane.
Da quella parte il bosco smette subito e il fiume giace più vicino all’argine. È una presenza a cui ci si abitua presto. Il fatto di averlo dentro il campo visivo permette di tenerlo lì ai bordi, senza mai guardarlo sul serio, concedendosi magari qualche distrazione con la fabbrica di salami, il condominio bolscevico, le roulotte dei rom, e le altre animazioni suburbane distribuite lungo il suo corso quasi fossero allestite apposta per intrattenere una squadra di maratoneti in allenamento. Finché anche la quinta umana scompare, da un incrocio all’altro, e la pianura torna a curvare all’orizzonte senza che un solo ostacolo interrompa la sua linea. Otto minuti e mezzo dopo quel punto, un pastore maremmano leggermente meno grosso della pecora più grande ci stava aspettando con la testa incassata nelle spalle. Nessuno si è accorto dell’ovile, neanche Mónika che guidava il gruppo. Giusto l’attimo per capire che quelle macchie biancastre non erano massi, e il cane era lì davanti a noi. Ringhiava, sputava, gonfiava il petto, infuriato dal fatto che non ci eravamo accorti di lui in tempo per ritirarci. Ormai abbaiare non aveva più senso. Era troppo tardi per gli avvertimenti di rito. Evidentemente lui si era distratto proprio come noi e adesso tutto si complicava. Anche questo doveva farlo infuriare. Solo che noi non eravamo il nemico lupo, non eravamo la nemica faina: noi eravamo otto ominidi alti uno e ottanta che procedevano con un sacco di rumori e versacci a un’andatura abbastanza poderosa da promettere un brutto guaio a chi intendesse mettercisi in mezzo e abbastanza veloce da convincere anche il guardiano più rompicazzi che la nostra invasione sarebbe durata pochissimo, troppo poco per doversi sbattere. Gliel’ho rispiegato, ad Agota:
- Tu ti credi piccola ma in realtà sei un animale piuttosto grande.
L’accarezzavo sulle lacrime, gliele stendevo sulle guance fino alle orecchie. Mi sforzavo di non cedere all’immagine evocata dalle mie stesse parole, di non possedere con la giusta foga l’animale piuttosto grande a me sottomesso.
Nella memoria genetica del pastore maremmano di sicuro non c’era traccia di prede bipedi, erette. C’erano caprioli, cervi, forse anche alci, ma non i nostri antenati. Magari poteva contare sulla sua esperienza soggettiva di guardiano, magari aveva già spaventato qualcuno e lo aveva anche morso. Quanto spesso però gli era capitato di affrontare un branco di maratoneti? Ovviamente la prima volta non ragioni mai così e di certo non era questa la domanda a cui l’istinto delle ragazze stava rispondendo. Mónika si è bloccata di schianto e noi le siamo finiti sopra. - Mónika, go ahead, go ahead, - le ho detto. Ero rimasto incastrato nella mischia e ho speso troppo tempo per raggiungerla, lì davanti. Ormai eravamo fermi: la nostra unica arma, la corsa, l’avevamo consegnata alla paura. Otto ominidi cazzuti trasformati con un solo gesto in sette allieve e un allenatore disarmati dal terrore. Il cane stava elaborando i dati: la novità assoluta che eravamo stati lo avrebbe dissuaso dallo scontro, la cosa ridicola che eravamo diventati invece stava chiaramente titillando la sua aggressività. Aveva la coda sparata verso il cielo, il labbro superiore arricciato su tutta la canna del naso, i denti gialli e qualcosa di necessario, di ineludibile negli occhi. Forse non proprio ineludibile, forse si poteva ancora tentare una ritirata lenta senza voltargli le spalle, alzando la voce, ritornando una massa compatta piena di rumori. Ma Imréné, Dora e Mihály-ne avevano già iniziato a piagnucolare, Katalin emetteva stupidi urletti e tutti ci stavamo sgranando nel modo peggiore giù per la discesa dell’argine. Sarebbe finita davvero male. Probabilmente il cane avrebbe scelto me: ero il più vicino, quello che indietreggiava più piano e che più a lungo lo aveva fronteggiato. Mi pareva già di sentire il polpaccio che si lacerava insieme ai fuseaux. Le scariche di adrenalina sotto le unghie e alle radici dei capelli mi stavano preparando al dolore. Tutto era pronto. Chissà come starei adesso se non ci fosse stato László.
Già, László. Lui, sulla scena, è arrivato con un lieve, provvidenziale ritardo. Il maremmano aveva già deciso di ammazzare qualcuno e László stava girando la bicicletta a una ventina di metri da noi con un dietrofront troppo cigolante, troppo affannoso. E soprattutto senza scendere dalla sella. Come il più maldestro degli dei ex machina, László ha risvegliato il ricordo di un quadrupede nel cervellino filogenetico di quello stronzo di cane e ci ha salvati. Un portaacque obeso in bicicletta ha una stazione orizzontale, parallela al suolo, è una sagoma nota per chi non è da sempre un guardiano. Come rinunciare alla comodità di un assalto sicuro? Anche quando è caduto, László assomigliava in tutto a una cerva. Il cane lo ha addentato alla coscia e lo ha tirato a terra con estrema facilità. Le urla di aiuto non facevano che aumentarne l’eccitazione. Cercava l’inguine, le parti molli, poi, trovando László chiuso a riccio, si è buttato sul braccio e ha cominciato a strattonare a colpi secchi, a destra e a sinistra, come se fosse realmente intenzionato a staccarlo e a portarselo a casa. Le ragazze erano risalite da sotto l’argine e adesso urlavano e piangevano tutte insieme. Anch’io urlavo. E László più di tutti, in un modo meno nervoso però, meno indignato, con i gemiti di un soccombente già per metà ingoiato dalla morte. L’unico a non urlare era il maremmano che, impegnato a scardinare la spalla, gorgogliava nel sangue. Non sapevo che fare. Mi avvicinavo un passo alla volta, ma non avevo ancora deciso niente. Urlavo e basta. Non ho mai incontrato tanti animali sbagliati tutti insieme in un posto così privo di animali: era un pensiero inutile ma il solo che fossi in grado di produrre. Per il resto, urlavo, e guadagnavo mezzi metri senza un piano, senza un perché. Quello stronzo non era un pesce, poteva mordere anche me, farmi le stesse cose che faceva a László, staccare anche il mio, di braccio. Eppure adesso si era messa anche Agota a spingermi. La sua voce ha bucato di colpo gli urli ungheresi con picchi altissimi. Parevano dei polpastrelli puntati sulla mia schiena: «Mandalo viaaa! Mandalo viaaa!» E come lo mandavo via? Agota sono sterile, non ti devi preoccupare: un altro pensiero inutile. Perché non sono ancora riuscito a dirglielo? Possibile? Neanche oggi, che ha preso tanta paura e voleva solo essere coccolata? Su da brava, smettila di piangere, Agota, mi stai inzuppando il cuscino. Sto per dirti una cosa che ti porterà via tutta questa tristezza. E invece no, silenzio. Perché non l’ho fatto? E perché adesso mi lasciavo spingere incontro al gorgoglio del maremmano così, a mani nude? «Mandalo viaaa!» Una possibilità era sferrargli un calcio in pancia. Un’altra era aggirarlo, montargli a cavallo e afferrarlo per la collottola. Sono belle le teorie: io e Agota ne abbiamo trovate di ottime e in abbondanza, distesi sul letto. Solo che li sull’argine, le urla di László, le bollicine di sangue nella bocca del cane, gli acuti della mia piccola, non mi permettevano di escogitare granché. Soprattutto gli acuti di Agota: a ripensarci, mi ha colpito molto che fosse lei la più premurosa nei confronti di László. Di solito litigano in continuazione. «Mandalo viaaa!» Il cane mi dava le spalle, ma io ho temuto che la sua reazione sarebbe stata peggiore se lo avessi sorpreso alla vigliacca. Allora ho fatto il giro largo intorno ai due corpi e senza avere in mente ancora nessuna mossa precisa ho sollevato la bicicletta. Tirandola in piedi ho sentito la piacevole robustezza dei tubi nelle mani e ho deciso all’istante che avrei potuto scagliarla sulla schiena dello stronzo. È stato a quel punto che il cane è tornato un cane: proprio mentre portavo la bicicletta su a braccia tese per prendere lo slancio, lui si è spaventato. Deve aver visto la sagoma di un essere nuovo, di un bestione gigantesco con due ruote al posto della testa, e si è spaventato. Pazzesco. Stentavamo a credere che un gesto così semplice fosse capace di fargli abbandonare la presa, eppure stava succedendo sotto i nostri occhi. Il cane si stava già allontanando e per di più senza il braccio di László. Se ne è andato, è tornato alle sue pecore, sicuro, deciso, come se la cosa non lo avesse mai interessato. La cosa tremava ancora chiusa a riccio. Aveva la tuta Adidas lacerata in tre quattro punti e una poltiglia brunastra sul braccio. Lo abbiamo aiutato ad alzarsi, mentre Dora - io lo avevo chiesto ad Agota ma lei ha preferito stare vicina a László - ha inforcato la bicicletta e ha raggiunto la prima casa per chiamare un’ambulanza. Per una decina di giorni dovremo fare a meno del nostro portaacque. Gli hanno salvato il bicipite, lo hanno ricucito, lo hanno riempito di antirabbica e antitetanica, sempre sotto lo sguardo materno di Agota. Ho provato anche a dirglielo, quando ci siamo rifugiati nel mio vendéglakás:
- Sai, sono contento che tu sia stata così buona con László oggi. Sembra che siate diventati amici -. Però ho desistito subito. Negli occhi troppo distanti di Agota è da un bel po’ che la preoccupazione ha stabilizzato la tristezza al punto da renderla invalicabile. Lei non ne parla più - la parola mestruazioni è scomparsa dai nostri discorsi - ma la preoccupazione è lì, sia che guardi l’occhio destro sia che guardi l’occhio sinistro. È venuta in soccorso alla tristezza, come se questa non fosse già abbastanza solida. Così ho virato in un’altra direzione:
- Lo sai che in California mi è capitato un sacco di volte di essere rincorso da cani? A Berkeley girano liberi, senza guinzaglio, ma non sono randagi. Sono tutti di razza, ovviamente. Ben nutriti e di grossa taglia.
Ti vengono vicino, corrono accanto a te per un po’ e poi se ne tornano nei loro giardini. Neppure si sognano di aggredirti. A Berkeley anche i cani sono non violenti -. Per un attimo nel cervello mi è sfrecciato Alberto, chino come san Francesco in una radura del Tilden, che accarezza una specie di cane cavallo. Agota stava sorridendo, finalmente:
- Che bella la California. Mi ci porterai un giorno?