63.
Sono circa le tre di notte e sentiamo bussare. Io e Maura siamo supini, lei con la mano sulla mia, tutti e due con gli occhi sulle pale del ventilatore, attenti a non fare altro che respirare. I colpi sulla porta sembrano di una fronte, di un ginocchio, di qualcosa che nessuno userebbe mai in condizioni normali. Gianna è strisciata fuori dalla sua stanza e adesso è in ginocchio davanti a me.
- Non sto molto bene.
- Cristo! Cos’hai?! Cosa ti succede?! - Ma Gianna frana tra le mie braccia e non riesce più ad aprir bocca se non per sbavare e vomitare.
Sto attraversando il palmizio che separa le camere dalla hall così, in mutande, con il corpo di Gianna che si contorce in conati da ernia. Non voglio credere che stia succedendo sul serio.
Il guardiano col fucile a pompa che veglia sulla reception mi spiega a gesti che se intendo chiamare una ambulanza faccio prima a seppellire la mia amica in giardino.
- Est-ce qu’il y a un hôpital ici? - chiedo.
Niente.
- Hôpital, ici, Jacmel, - riprovo.
- Hôpital? Uè, Hôpital Port-au-Prince.
Okay, mi dico, come se fosse il pegno di un simpatico gioco di società, devo andare a Port-au-Prince.
Se penso alla rapidità con cui si è ammalata, se penso al tempismo della sua febbre e delle sue convulsioni, stento a credere che siano, come non possono che essere, involontarie. D’accordo, è rimasta senza i suoi disinfettanti, ma siamo ad Haiti da neanche un giorno. A cena ha bevuto solo acqua sigillata. L’aragosta alla creola? Ma l’abbiamo mangiata anche noi, qualunque cosa contenesse quel sugo. E anche noi abbiamo fatto il bagno in piscina. L’Hôtel Jacmel, per letali che siano le sue zanzare, non può aver ridotto in poche ore un’assistente sociale troppo piena di risorse in un’appestata sul punto di morte. Mi sorprendo a pensare che domani forse avrò bisogno di lei.
L’avvolgiamo in un lenzuolo e la carichiamo sulla Mitsubishi. Non provo neanche a dire a Maura di restare: stesso ritmo, stessa direzione, stessi scatti da marionetta, non puoi interrompere a metà una prova di nuoto sincronizzato. Così torniamo nella capitale. Buche, zaffate, polvere, montagne, polvere, zaffate, buche. I fari svegliano la gente addormentata sul ciglio della strada. Le scariche diarroiche di Gianna dentro il lenzuolo: i suoi rumori ormai privi di imbarazzo, i nostri colli irrigiditi da quel brutto, bruttissimo segnale.
Invece la nostra assistente, all’hôpital, arriva viva.
- Brava Gianna, ce l’hai fatta, - le dico, davvero stupefatto che abbia gli occhi ancora aperti.
Escono due militari. Prima di metterla sulla lettiga, mi chiedono se la femme è assicurata. Non mi pare che questo sia un ospedale militare. Che ci fanno qua due infermieri in mimetica? Ovviamente non lo sto chiedendo. Il più magro dei due mi sfila dalle dita il contratto dell’assicurazione e l’altro si porta dentro Gianna tirando la lettiga per dietro, come una carriola vuota.
Lei trova anche la forza di prendere il passaporto sotto il mento e dirci:
- Andate, voi È chiaramente il marine ferito in ritirata. E noi, senza sapere se dietro quelle veneziane rotte c’è qualcuno capace di guarirla, senza sapere se e quando torneremo a trovarla, senza sapere se rivedremo mai Gianna ancora viva, noi, i suoi piccioncini, la stiamo abbandonando.
Il ritorno a Jacmel è più veloce. Con l’alba vedo meglio e ormai per queste strade sono di casa. Sento gelide fitte di stanchezza irradiarsi dalla colonna vertebrale come dagli ugelli di un criobisturi. Le gambe sono sfinite da più di tre giorni di non corsa. Ma la fatica vera è l’inerzia condivisa con Maura, l’acido lattico per questo sforzo troppo prolungato, per tutte le scatole aperte prima dell’ultima.
Lei continua a dire:
- Domani le portiamo nostra figlia.
Fissa il parabrezza col suo sguardo da testa decapitata e ripete:
- Domani le portiamo nostra figlia.
Succhia il sangue del labbro martoriato e dice ancora e ancora:
- Domani le portiamo nostra figlia.
Io ovviamente annuisco, anche se la frase «Domani le portiamo nostra figlia» mi appare comprensibile una volta e priva di senso la volta dopo.
Alla reception dell’albergo il tizio col fucile a pompa ha ceduto il posto al direttore, il quale ci ha tenuto in caldo due crèpe all’ananas cucinate poco fa da lui in persona e ora per cinque dollari si offre anche di accompagnarci a Baissin Blue.
Mangiamo la pappetta stucchevole del direttore Jean per mostrargli che non ci fa schifo la roba cucinata da un nero con le unghie incrostate di uovo e per mostrare a noi stessi che non moriremo avvelenati, che nessuna febbre ci fermerà, per negare insomma che stiamo crollando. Dopo la doccia Maura si trucca, anche. Giusto un filo di rossetto dello stesso colore dei capelli, un altro piccolo pezzo di training autogeno. Non ci resta che scalare la scarpata verso il lettino di Fiona.
Jean guida la jeep come se non ci fosse il precipizio, si gira verso di noi, si sbraccia per indicarci la cascata, saluta chiunque scenda da qui con più di un mulo e, per lasciare il passo alle bestie, mette ogni volta due pneumatici quasi nel vuoto. Questo vuole farmi un favore, mi dico. Ma si sbaglia. Io non voglio morire, devo tornare a Szeged, non posso morire, c’è Agota che mi aspetta laggiù e ormai neanche Maura muore più. Grazie per il pensiero, ma ormai ci siamo. Nessuno può più morire, adesso dobbiamo proprio cominciare.
Baissin Blue è una pozza di fango dove alcune donne, probabilmente inservienti dell’Holy Cross, stanno facendo il bucato. L’Istituto si trova poco sopra, con le sue costruzioni in calce ben distribuite dietro una pesante inferriata rossa. Non ci sono scritte a renderlo riconoscibile, ma una strana giostra accanto al portone centrale: una ruota orizzontale, composta da ampi cestelli, per metà esterna e per metà interna all’istituto, una specie di porta girevole per neonati chiamata, se non sbaglio, ruota degli esposti. Per un attimo, prima di entrare, mi sfreccia nel cervello l’immagine di Agota che depone il suo piccolo in uno di quei cestelli e poi svolazza via. La mia cicogna ungherese. No, Agota non l’avrebbe mai fatto. Non con me.
Ci apre una ragazza in grembiule rosa. Io le mostro le carte, Jean mi traduce e lei va a chiamare la direttrice. Del loro discorso l’unica cosa che ho intuito è che il soprannome della madre superiora è Diabol. Aspettiamo suor Diabol. Maura sta mezzo passo davanti a noi, protesa verso gli infiniti punti dello spazio da cui potrebbe sbucare sua figlia. Non dice dov’è la mia Fiona, datemi la mia Fiona, o cose del genere. Inghiotte in continuazione per resistere all’adrenalina in eccesso, solo questo. Inghiotte e con un kleenex si tampona il sangue che i suoi denti hanno ritrovato sotto il rossetto.
Ecco comparire una nera chiara con un’impeccabile divisa grigia. Avrà più o meno settant’anni e si presenta come la mère supérieure. Avanzando nel giardino ci troviamo in mezzo a un complesso coloniale piuttosto articolato. Diabol nomina le costruzioni continuando a camminare. Nurse School, Work House, Sister House, non aggiunge altro, come se i nomi bastassero per qualsiasi spiegazione. Non sa l’inglese: quelli sono suoni con cui qualcuno le ha insegnato a identificare i rispettivi contenitori. E io mi sto chiedendo chi cazzo ha letto le nostre traduzioni, chi cazzo ha scritto il Child Study. Ma Diabol è già arrivata alla Children House, la casa dei bambini, il contenitore dei bambini in attesa di avere una casa. E proprio quando sta diventando insopportabilmente chiaro che questo posto per essere il giardino di un orfanotrofio è troppo silenzioso e privo di orfani, Diabol si rivolge a Jean e gli spiega che siamo arrivati molto tardi, che a quest’ora i bambini riposano e che solo in via eccezionale, considerando le difficoltà del viaggio eccetera eccetera, lei ci concede di vedere nostra figlia. E noi, senza chiedere secondo quale concezione diurna mezzogiorno sia tardi e sperando che «vedere nostra figlia» sia una cattiva traduzione di «prendere nostra figlia», seguiamo Diabol e Jean su per gli scaloni del dormitorio.
Stiamo entrando. Maura si mette a tremare. Le doglie dello spirito, avrebbe detto Gianna. Adesso avremmo proprio bisogno delle stronzate di Gianna. La verità è che anch’io, che non sto partorendo, comincio a sudare freddo. Lo stanzone è meno buio della foto - la prima, l’unica vera foto - e soprattutto ha i lettini pieni. Fiona non ci aspetta in piedi al centro di un deserto di culle bianche. Fiona non è più il suo ritratto solitario. Si è moltiplicata in tutti questi bambini addormentati. Un mare di grembiulini celesti da cui cominciano a sollevarsi le prime teste. Eccoci piccola, siamo papà e mamma, tu dove sei? Vedo un enorme armadio a vetri stipato di giocattoli e mi accorgo di avere in mano un bruco gigante. Come ci è arrivato nelle mie mani, questo coso di peluche verde? Ricordo Maura che lo tira fuori dalla borsa, ancora in albergo. Tieni, portiamoglielo, è il tuo preferito no? Sì, Maura, è il mio preferito. E mentre mi guardo il bruco e sto attento a non premergli la trombetta nella pancia, sento ridere Jean e Diabol. Lui traduce:
- Dice che dovete indovinare qual è la vostra -. E noi, invece di protestare, invece di massacrare a calci e pugni questa suora negra, avanziamo verso la lunga fila di lettini. Ogni volta che ci avviciniamo a un bambino, Diabol dice no e il nome. Noi guardiamo, esitiamo, facciamo un passo verso la culla e Diabol dice:
- No, Megha.
Ne facciamo un altro e lei dice:
- No, Marlene -. E poi, via via: «No, Touna», «No, Sophie», «No, Louisette». E noi capiamo che da soli Fiona non la troveremo mai. Sia io che Maura ci ricordiamo nel dettaglio il viso di Fiona, ma quanto può cambiare il viso di una bambina di diciotto mesi, anche in poco tempo? Quale di queste bambine addormentate sa fissare l’obiettivo senza battere le palpebre? Qual è la tua scatola, Fiona? Diabol si stufa del gioco un attimo prima che Maura si lasci assalire dai conati. Va in fondo allo stanzone e pesca dal letto una bambina, giannescamente fa nascere nostra figlia, che, svegliatasi di soprassalto come nel peggior parto possibile, esplode in un pianto rabbioso. La mère supérieure la solleva sopra la testa, le borbotta qualcosa sorridendo per la prima volta, la gira verso di noi sempre con le braccia tese in alto come a dire «Eccola!», ma anche «Questa vi va bene?» Mette Fiona in braccio a Maura e le dice una frase che si capisce anche in creolo ma che Jean traduce lo stesso:
- Se sei brava la calmi -. E Maura non mi dice ammazza questa suora bastarda, probabilmente non riesce neanche a pensarlo perché ha in braccio una bambina urlante che è sua figlia. Così comincia a camminare su e giù lungo la fila dei lettini e sussurra parole tenerissime alle urla di Fiona, parole che finiscono per far singhiozzare anche lei. Al che Diabol, prima che il pianto contagi tutti i bambini, spinge madre e figlia fuori dallo stanzone e io le seguo giù per le scale col bruco che, per le contrazioni irriflesse della mia mano, si è messo anche lui a fare i suoi rumori. Vedo la coda di cavallo rossa, esageratamente rossa, di mia moglie e una bambina esageratamente nera che si puntella a braccia tese sul suo seno, urlando tutta la paura che ha in corpo. Fiona mi fissa mentre scendo dietro di lei. I suoi occhi non sono più quelli delle foto: adesso cercano, interrogano, chiedono perché. Tutto il baraccone si sta spostando in giardino. Jean, Diabol, qualche inserviente. C’è anche la ragazza in grembiule che ci ha aperto. Si tengono a distanza, ma non troppo. Sono incuriositi dal pianto italiano di mia moglie. Ecco che torna fuori l’intuizione della sala d’imbarco, un’intuizione che, a dirla o a provarla, non fa lo stesso effetto: siamo bianchi. Insomma, mi sto accorgendo che Maura è davvero troppo bianca. Fiona la guarda come se fosse stretta tra le braccia di un mostro. Vede una montagna di capelli ruggine, due occhi verde acqua, un seno enorme e lentigginoso, sente i suoni scomposti, cigolanti di una lingua straniera, non potrà mai calmarsi in braccio a quella cosa. Maura però non ha tempo per simili intuizioni.
- Piccola mia, amore della tua mamma, non fare così, Fiona, amore, piccola mia, - non smette di supplicarla e piange e inevitabilmente cigola. Allora la prendo io e provo con il bruco, ma Fiona aumenta, se possibile, l’intensità del pianto. Mia figlia è un corpicino gommoso che vibra dal terrore. Dal pannolino scende sul mio braccio un abbondante versamento di diarrea. Diabol decide di togliercela e la passa alla ragazza col grembiule rosa. La mère supérieure ha l’aria abbastanza soddisfatta. Parla con Jean, il quale ci dice:
- Ha detto di andare a mangiare e di tornare tra due ore. La bambina sarà pronta.
Mentre ci allontaniamo, Fiona esegue le istruzioni della ragazza che l’ha ripresa in braccio. Ci fa ciao con la manina, convinta che il pericolo sia passato.
Sull’altro lato della cascata c’è una capanna col tetto in lamiera, il Restaurant Baissin Blue. Jean ordina un risotto al cocco per tre ma, dopo averci guardato meglio, capisce che se lo mangerà tutto lui. Io e Maura beviamo due birre a testa. Come fantasmi siamo degli ottimi bevitori di birra. Due lenzuoli bianchi che mettono chissà dove tutto questo liquido tiepido di nome Prestige.
- Bisogna avere coraggio per chiamare qualcosa così ad Haiti, eh Jean? Tu che ne dici? - Anche Jean sa che Maura non gli sta facendo una domanda. - Rispondi stronzo, come fate a produrre una birraprestigiosa in questo posto di merda?
- Lascialo in pace, lui non c’entra.
- Oh certo, lui non c’entra. Tu non c’entri, vero Jean? Però te la ridi eccome con quel diavolo del cazzo. Ti faccio ridere, eh? - Maura aspetta che Jean tiri su gli occhi dal risotto, ma Jean non ha bisogno di conoscere l’italiano per intuire che gli conviene continuare a mangiare. Per un attimo ho anche temuto che Maura gli sollevi la faccia con le mani. Ma no, impossibile. Dove la trova tutta ’sta forza un fantasma?
- Lascia stare Jean. Risparmiati per dopo. Dobbiamo tornarci lì dentro, lo sai, no?
- Lo so, lo so.
Anche lei come me deve avere tutto chiaro in mente: le scatole, lo sforzo, l’inerzia, l’affranta sincronia dei nostri movimenti. Più di tutto sta diventando insostenibile, in questa specie di pranzo a base di birre, la nostra comune omissione della parola Fiona.
Io e Jean ci siamo distesi sulle panche. Maura rimane a fissare l’inferriata rossa, oltre l’acqua nebulizzata della cascata. Ha assunto la sua posizione a uovo.
Sono passate due ore. Rientriamo all’Holy Cross. Il giardino adesso è pieno di animali e bambini. Galline, capre, maiali girano dappertutto. Forse c’erano anche prima, ma io non li avevo notati, esattamente come non avevo notato l’orto su un lato della Sister House, né il playground in fondo al parco. I bambini sono accosciati in cerchio con le mani sulle ginocchia e la bocca aperta. In mezzo a loro una suora prende da un pentolone piccoli pugni di cibo e li imbocca. Loro aspettano il proprio turno totalmente concentrati sulle manovre della suora. Non mi pare che ci sia nostra figlia, ma non so se la riconoscerei: di fatto non ho ancora visto la faccia non urlante di Fiona se si esclude il momento del ciao ciao, quando ormai era troppo lontana. E comunque Fiona non c’è. Ce la portano tra un minuto, dice a Jean la suora nutrice, prima di mollare un ordine secco ai bambini tipo rompete le righe. I più grandicelli però non corrono subito al playground. Assaporano, guardandosi bene dall’avvicinarsi, la fortuna di non essere la ragione della nostra presenza a casa loro. Studiano questi due fantasmi intenti a trasudare birra sotto il sole con l’attenzione che si dedica a un problema grave. Altrui.
Il minuto sta diventando un quarto d’ora, ma ecco che una suora ci fa segno di venire. Fiona è in piedi sull’unico tavolo del dormitorio, circondata dalle mani che finiscono di prepararla. Ha un vestito giallo, i dreadlocks risistemati con gli elastichini nuovi, la pelle ancora lucida di chissà quale lozione, splende come la migliore figlia che si possa desiderare. Solo che, già sentendo i nostri passi di bianchi su per le scale, si è messa a urlare. Non così forte come prima: dice anche qualcosa adesso, cercando nelle inservienti, con le parole mozze dei suoi diciotto mesi, ciò che le sue carezze e il suo pianto non hanno trovato. Per queste ragazze, in buona parte o forse tutte ex bambine adottabili, si tratta di un rito di iniziazione privilegiato. Che cosa inizi questo rito di iniziazione, crediamo di saperlo solo noi. Diabol tira Maura per il braccio verso uno scaffale con la roba di Fiona. I pannolini, il cartellino delle vaccinazioni, il biberon, il latte in polvere. E una boccetta col contagocce. Jean traduce:
- Dice che queste dovete dargliele stanotte, perché dorma, non più di venti -. Perfetto, abbiamo anche il narcotico per sedare il cucciolo finché non arriva al parco nazionale. C’è tutto, bisogna proprio cominciare.
L’unica a piangere insieme a Fiona è la ragazza in grembiule rosa che ci ha aperto al mattino. È anche l’ultima rimasta ad aggiustare la bambina, che ormai non ha più nulla che possa essere aggiustato. Risponde alle suppliche di nostra figlia lisciandole un po’ l’orlo del vestitino, ritoccandole i dreadlocks della fronte, lacrimando con la faccia immobile, come se avesse una semplice irritazione agli occhi. Di colpo, anticipando istintivamente un comando di Diabol, strappa Fiona dal tavolo, la consegna alla madre ufficiale e scappa giù per le scale. «Bisogna recidere il cordone ombelicale, subito, senza tentennamenti. Lo faranno lì davanti a voi. Sarà duro, ragazzi». Gianna, com’è che sapevi tutto e poi ti sei frollata nel primo brodo tropicale? Perché hai scelto la febbre, invece di aiutarci? Come si ferma il dolore? Come fermiamo le urla di questa bambina?
Suor Diabol ci sta mettendo letteralmente alla porta. Credo voglia evitare agli altri orfanelli la vista di come potrebbero scomparire un giorno, rubati da una coppia di fantasmi. Sul portone ripete piccole parole mentre noi ci sistemiamo in macchina: cose tipo sciò sciò o via via, che Jean comunque non traduce più. Questa vecchia ci sta regalando una figlia: è pazzesco salutarsi così, eppure stiamo già montando in macchina, le diamo le spalle tutti concentrati sul motorino di avviamento, sulla manovra di inversione, sulle braccia nere di Jean che girano il volante verso il nostro inizio.
Io e Maura abbiamo fatto mille gare, ma non ci siamo mai sentiti così completamente abbandonati dalle forze prima della partenza. È come se Fiona ci stesse risucchiando, come se il suo pianto si stesse mangiando le nostre ultime riserve di glicogeno. Le urla sembrano entrare in lei, non uscire. La sua bocca è una finestrella aperta sull’antimateria, dentro potrebbe anche finirci il mondo intero. Gli incommensurabili volumi di suono che produce sono il dolore di questo inghiottimento, di questa sparizione. Piange senza voltarsi a cercare l’Holy Cross - le mani sulle ginocchia, il bruco dietro la schiena, seduta in mezzo a un uomo e una donna dalla pelle cadaverica - probabilmente spera che il pianto prima o poi la svegli. Non osa guardarci, intanto però, contro la sua stessa volontà, ci sta inghiottendo.
Per tutto il tragitto, fino all’hôtel, Maura non smette di accarezzarla. Con le sue dita bianchissime fa ampi cerchi sul pancino e sulla schiena di Fiona. Tra un massaggio e l’altro le porge il biberon d’acqua, come se nostra figlia potesse davvero chiudere la bocca su quel ciuccio e dissetarsi. Capisco il tentativo di Maura: fendere la continuità delle urla è ciò che voglio anch’io. Ma non ho il coraggio di imitarla, provo a compattare le energie residue restando immobile, cercando nell’inazione i sacchi di sabbia per resistere. Tolgo il bruco da dietro la schiena di Fiona, tutto qui. Glielo appoggio sulle gambe senza neppure strizzarlo. Lei lo guarda, guarda il bruco del fantasma, immaginando, credo, che anche questo al risveglio sparirà. Io lo rimetto al suo posto, dietro la schiena di Fiona, come il casco di banane dietro la schiena della bambina venditrice. Tu pensi che sarà fortunata con noi? Maura, pensi davvero che potrò vivere di nuovo a Trieste? Pensi davvero che lì, con me e te, senza vendere banane, Fiona sarà felice? Perché non sei morta? Perché non muori? Ti vorrei bene per sempre se tu morissi.
Solo Jean riesce a far bere il tranquillante a nostra figlia. Le prime venti gocce non sono servite a niente. Fiona le ha trangugiate con un biberon intero d’acqua e poi ha ripreso subito a inghiottire il mondo. Non lo calmi un dolore simile con venti gocce di tranquillante. Così adesso, dopo neanche dieci minuti di strada, ci fermiamo di nuovo. Riempiamo per metà il biberon con altra acqua e ci scarichiamo dentro tre, quattro, e dopo un’occhiata da criminali braccati, cinque misurini, per un totale di circa cento gocce. Fiona ha ancora sete e beve tutto questo sonno facendolo sciabordare nella plastica con gli scatti delle sue manine e svenendo praticamente all’ultimo sorso tra le braccia nere di Jean.
Che morbida bambina. La soda gommosità dei piedi, le braccia a riposo, le pieghe sudate dei gomiti e delle ginocchia, il viso, il viso!, finalmente il viso riconoscibile di Fiona. Maura sorride alla testolina addormentata sulla sua tetta sinistra. C’è ancora speranza, vedi Dario? Ce la possiamo fare. Capisco che si è riaccesa in lei la battaglia possibile/impossibile. È andata a prendere chissà dove altro ATP. La sua non è più solo inerzia. E forse neanche la mia, visto che sto contemplando la speranza di questo abbraccio di madre e figlia come la cosa che doveva cominciare, che sta cominciando e contro cui non ho la forza di combattere. Lina speranza che mi lacera piano con questa foto di Oliviero Toscani sviluppatasi da sola sul sedile accanto al mio.
Adesso però, in albergo, mi pare che Maura non ci creda già più di nuovo. Sono sotto la doccia e la sento parlare a nostra figlia.
- Sono io la tua mamma, ti troverai bene, vedrai, -dice questa e altre frasi del genere. Solo che una bambina addormentata non è propriamente convincibile e insomma capisco che Maura sta affrontando l’ennesima seduta di training autogeno, abbastanza sicura, almeno dal tono di voce, che qualcuno o qualcosa alla fine la batterà. Uscendo dal bagno vedo Fiona distesa in diagonale sul letto e Maura appoggiata sul gomito che le parla a un palmo dal viso, con la voce un po’ su e un po’ giù, e penso ad Agota, a Szeged, alla mia cicogna di Szeged. Il pensiero ha lo stesso effetto di una crosta di pane nell’esofago. Tanto che il bruciore mi fa lacrimare e Maura si confonde, si alza per stringermi e tutto è di nuovo sbagliato in questa stanza.
A rimettere le cose a posto arriva il risveglio di Fiona. Gli occhi si aprono sulle pale del ventilatore - un ventilatore identico a quello dell’Holy Cross -, esplorano piano il soffitto del non dormitorio calando quindi, già informati, sui due fantasmi abbracciati. L’urlo esplode dal niente. Fiona non può permettersi di piagnucolare. Non puoi perderti a piagnucolare se ti risvegli in un incubo, solo un pianto urlato a tutta forza può toglierti da qui, solo piangendo così puoi sperare di inghiottire tutto il mondo e che il dolore smetta. Al primo urlo Maura ha avuto un crollo di tensione e adesso si sta afflosciando su di me come se le avessero sfilato la spina dorsale. La metto distesa accanto alla bambina, ma nessuna delle due accetta un contatto. Piangono ognuna per conto proprio.
- Tieni il bruco, piccola, guarda che bel bruco, è il mio preferito sai? - Fiona si lascia appoggiare sopra le gambe il bruco. È di nuovo seduta. E ovviamente lo ignora.
- Maura, cazzo, non fare così, non puoi farlo, non in questo momento.
- Che significa non in questo momento? Non ci vuole, non vedi che non ci vuole?, - indica Fiona che, sempre continuando a urlare, ci guarda, fuori da tutte le scatole, teoricamente nostra. Chissà che impressione vederci litigare.
- Sapevamo che sarebbe stato così, all’inizio».
- Sì, lo sapevamo. Ma non così. Cazzo, non così.
- Non sarebbe stato male imparare quattro parole di creolo.
- Ma Gianna ha sempre detto che capivano il francese. E poi, che cazzo cambiava? Eh, me lo vuoi dire? Cosa le dicevi in creolo? Che le vogliamo bene? Che è per questo che la portiamo via da casa sua?
- Dai Maura, tirati su e aiutami. Non abbiamo molto tempo ancora, dobbiamo cambiarla e poi le diamo qualche altra goccia. Eh, Fiona? La vuoi l’acqua per dormire? - Non so come faccio a stare qui in piedi a parlare invece di sedermi anch’io per conto mio. Sento le gambe e le mascelle indurite nello sforzo di resistere. Prego che Agota plani su di noi con le sue ali magre e mi strappi via da tutto questo. Eppure non mi riesce più di desiderare la morte di Maura.
Conto fino a trecento. Guardo l’orologio. Ricomincio. Riesco a contare più o meno cinque numeri al secondo. Non trovo nessuna buona ragione per smettere, anche se mi accorgo che non sono più fermo in mezzo alla stanza e che, mentre sto contando, ho cominciato a cambiare il pannolino alla bambina. Maura si è alzata. Sta riempiendo il biberon di altra acqua. Carica il primo misurino con le gocce e lascia la boccetta aperta sull’angolo del comodino. Fiona, forse vedendo l’acqua, forse per la prima volta incuriosita dal mio giocattolo preferito, ha afferrato per la coda il bruco e in questo esatto istante lo sta mandando con la testa contro la boccetta. Prima che accada riesco solo a dirmi: ecco fatto.
- Oddio, nooo! - supplica Maura con il misurino ancora in mano, mentre la moquette finisce di bere il tranquillante.
- Non gridare così, che la spaventi!
- Oddio, nooo! - Non è un’imprecazione. Maura sta chiaramente supplicando la moquette.
- Calmati! - Pazzesco, ho tutte le ragioni per desiderarla morta, ma non ci riesco più.
- Oddio, nooo! - Fissa la macchia scura sul pavimento e supplica. Nient’altro.
- Smettila Maura, la devi smettere, calmati.
- Oddioooooo!
- Pazienza, dai. Vuol, dire che faremo bastare queste -. E, perfettamente conscio di aver pronunciato una colossale stronzata, prendo il misurino e lo spremo nel biberon. Trenta gocce al massimo, a quattro ore dall’aereo, mentre Fiona, terrorizzata dagli oddio della mamma, è di nuovo fuori di sé.
Il tramonto arriva con la sua solita fretta tropicale e in tre minuti se n’è già andato lasciandoci nel buio pesto delle sei e mezza. Contando di raggiungere Port-au-Prince intorno alle nove, abbiamo giusto il tempo per far visita a Gianna. Qualcuno bussa. È il direttore Jean, con un piatto di riso e una banana. Diabol gli ha ordinato di nutrire la bambina a quella che per loro è l’ora di cena e lui, puntualissimo, esegue. La nostra autorità di genitori è del tutto formale nel territorio di Diabol. Jean, non solo non ci ha consultato per il cibo, ma adesso, conoscendo le nostre difficoltà di fantasmi, si è pure seduto sul letto di fronte a Fiona e ha cominciato a imboccarla. Noi, con il biberon narcotico ancora inutilizzato, osserviamo nostra figlia - mani sulle ginocchia, testa piegata indietro - spalancare la bocca incontro ai pugnetti di riso di Jean. Stiamo a guardare in silenzio, un po’ umiliati, un po’ tanto umiliati, ma anche abbastanza sollevati all’idea che il pianto di Fiona non fosse solo dolore. La bambina aveva fame, ecco cosa aveva. Inghiottiva o no il mondo? Certo che lo faceva. Perché aveva fame. Bisognava saziarla. È con questa illusione che partiamo.
Riso, banana, biberon narcotico. Fiona dorme distesa sul sedile posteriore, con la testa sulle gambe di Maura, esattamente nella medesima posizione in cui l’ha messa Jean un’ora fa, al momento di salutarci e di rifiutare la mancia. Stiamo salendo gli ultimi tornanti a pochi chilometri dal passo. Nell’angolo inferiore a destra dello specchietto vedo una porzione di tempia e l’occhio sinistro di mia moglie. L’occhio è nient’altro che un’ombra più scura nell’incavo tra lo zigomo e il sopracciglio ma capisco che è aperto, so che è aperto: è l’occhio di mia moglie. Quali pensieri ci girino dietro non è un mistero per me: Maura ci crede di nuovo. Non cigola, non fiata, neppure accarezza più Fiona, terrorizzata lei per prima di crederci di nuovo. Si trova nella posizione non troppo a lungo sostenibile in cui le energie sono quasi del tutto esaurite e quel quasi può, nella sua aleatorietà, nella sua volubilità destinale, farti vincere o farti piegare le ginocchia a dieci metri dallo striscione dell’arrivo. È proprio quando senti di potercela fare che vieni assalito dal terrore di credere in questa possibilità. Può sembrare un gioco di parole ma io e Maura sappiamo che non è così. Se non sei esausto non hai paura, se sei esausto non hai paura, ma se sei quasi esausto, ecco il terrore piombarti addosso: Oddio, ce la posso ancora fare, posso farcela, forse ce la farò. E Maura è quasi esausta. E Fiona sbava in silenzio la coscia della mamma. Quanto a me, analizzo, spacco il capello in quattro, non oso chiedermi niente.
Basta che Fiona si svegli - pazzesco, lo sta facendo, ecco che muove la testolina -, basta che venga svegliata dal suo urlo - eccolo! - perché a 2100 metri di altitudine il felice terrore di Maura svanisca e tutto ridiventi impossibile. Definitivamente impossibile.
La bambina scatta via dalle gambe della mamma come se fossero le rotaie di un treno assassino. Si afferra al mio appoggiatesta e riprende a inghiottire il mondo. È buio. Le palme nere che vede fuori non sono di Baissin Blue e questa jeep non c’entra niente con l’Holy Cross e qui dentro i fantasmi non sono ancora spariti. Maura mi sta dicendo di accostare, che la bambina è cianotica. Riesce a dirmi solo questo. Ha la stessa voce neutra di quando mi ha indicato i pesci di Szeged sullo schermo della Tv: «Devi andare lì». Fiona non si fa toccare. Gli occhi fuori dalle orbite, le labbra blu, le mani bloccate a mezz’aria da lunghe, lunghissime apnee: è sfigurata dall’incredulità di non essersi ancora liberata dall’incubo. Siamo tutti e tre in piedi, stretti nello spazio della portiera aperta, in realtà già molto lontani. Il pianto di Maura non fa rumore, sembra un’irritazione agli occhi, un po’ come quello della ragazza col grembiule. Maura non si morde il labbro, Maura non si ficca le ciocche più corte dentro la coda. Questo è il corpo di mia moglie ma lì dentro non c’è più nessuno. È come se fosse morta davvero. Sta aspettando che cessi l’apnea. Prende la figlia sotto le ascelle e la risistema sul sedile. Mi guarda come può guardarmi il corpo di mia moglie ormai disabitato e insieme capiamo che quel sedile è già di nuovo una scatola, insieme decidiamo di rimettere Fiona dove l’abbiamo trovata.
Già all’inizio della salita per Baissin Blue Fiona ha smesso di piangere. Adesso sta con la testa fuori dal finestrino come i cagnetti in gita. Annusa il buio di casa e Maura deve tenerla per il vestito perché non si ribalti. Ma la bambina non si divincola più. Se esiste una saggezza a diciotto mesi, questa bambina è saggia, e percepisce nettamente, oltre che la sua vittoria, il nostro fallimento, l’imminente dissolvenza del fantasma con i capelli arrugginiti. Tanto vale lasciarlo fare. Voltandomi, vedo la mano di Maura aggrappata al giallo del vestito. Ha ragione Fiona, non c’è niente di possessivo in quella presa. Maura sta trascorrendo gli ultimi istanti del suo giorno di madre in uno stato non più che vegetale. Si sentono i colpi dei sassi sotto la scocca della jeep, qua e là il verso di qualche uccello notturno, ma su tutto romba la calma - una calma doppia, asintotica - di mia moglie e mia figlia.
Appena apro la portiera, Fiona si butta, cade, si rialza senza una lacrima, comincia a correre, incespica, si rialza, sempre senza una lacrima, raggiunge il portone rosso e si mette a battere con tutte e due le mani. L’Holy Cross dorme profondamente.
- Vieni, piccola -. Maura la stringe a sé. Me la passa e io la depongo nel cestello degli esposti. Lei si accuccia buona buona. I piedini, il vestito, gli occhi, i dreadlocks, tutto le ride nella sua bella scatola. Stiamo per spingere la ruota. Per la prima e ultima volta troviamo il coraggio di baciarla.
La jeep caracolla via da Baissin Blue, attraversa Jacmel, riaffronta la montagna, fa tutto da sola. Ho l’impressione di tenere le mani sul volante per esigenze esclusivamente scenografiche. Veniamo risucchiati verso l’aeroporto internazionale di Port-au-Prince da una forza superiore alle nostre, che ci terrà uniti non oltre la durata del viaggio. F una certezza soda, palpabile, come l’umidità di questa notte caraibica. Maura mi guarda solo quando è sicura che non posso distogliere gli occhi dalla strada. Quando la guardo io, resta a fissare il parabrezza, mi offre il profilo trasparente della cornea, la garanzia del silenzio. Ogni tanto si tampona il sangue del labbro con un kleenex. Mi sta perdendo. La sto perdendo. Mi pare proprio di vedere - là, nei fari, dove guarda anche lei - la parola INSIEME che svanisce.
A Malpensa, dopo ventiquattro ore esatte di non esistenza, accompagno Maura alla sua coincidenza per Trieste.
- Tieni tu il bruco -, Non mi ero accorto che avesse ancora il bruco.
- Il bruco? - Ma intanto lo sto prendendo e Maura lo ha già mollato e sta già a due metri da me e questo è il nostro saluto.
- Sì, tienilo tu.
- Perché? - Perché. E Maura sta già consegnando la carta d’imbarco e stanno già imbarcando quella donna piena di capelli che non so se è morta ma non voglio più che muoia.
- Era il tuo preferito, no? Starà meglio con te.
Solo adesso che la navetta l’ha ormai inghiottita e la riporta verso una casa affollata di giocattoli non nati, sistemo tra i manici della borsa il mio bruco coi rumori e scoppio a piangere.
Forse Gianna ci avrebbe fermati? Forse sarebbe riuscita a salvarci? Tre colloqui di coppia, due colloqui individuali, una visita ispettiva, per poi abortire. Gianna è tornata oggi, viva. Mi ha chiamato al centralino del Kollégiuma, per dirmi che sa tutto. Non è stato certo per mancanza di tempo che non siamo andati a trovarla l’altroieri sera. Avevamo i minuti contati e l’aereo l’abbiamo preso solo grazie a una tizia zelante che ha riaperto il volo apposta per noi, ma non è questo il punto. Il punto è che eravamo due corpi disabitati. Insieme alla bambina era sparita anche la giovane coppia. Oggettivamente dei coniugi Rensich non c’era più traccia. Ci fossimo presentati all’ospedale, Gianna non ci avrebbe riconosciuto.
Ho provato a dirglielo, ma non ce l’ho fatta.