36.

Non sarei dovuto uscire dall’albergo. Non sarei dovuto venire a Budapest. Non avrei dovuto portarci mia moglie. Lo sapevo, era l’errore più grosso che potessi commettere e sono stato punito. E sì che fino a mezzanotte era andato tutto liscio.

Come promesso, Csányi ha regalato a Maura la sontuosa festa magyarul che meritava - ballerini di ciarda, violini zigani, fois gras in piatti zsolnay, ammiratori con stivali da cavallerizzi - e Maura è guarita. Già, Maura è guarita. Ormai ha abbandonato la posizione a uovo anche per guardare la foto di Fiona. Ieri ha indossato l’abito lungo, una specie di guanto nero da killer, e ha rovinato le ultime ore dell’anno a non meno di una dozzina di signore.

- Dario, adesso capisco. Tu volevi tenere nascosto quello tesoro, - mi ha detto Csányi con il suo savoir-faire da spia internazionale, quando gliel’ho presentata. E poi ha cominciato subito a giustificarsi per l’impegno dell’ultimo momento dell’ambasciatore e per l’assenza di questo e di quello. Per rimediare ci ha fatto conoscere tre imprenditori veneti, «quelli principi della scarpa italiana che danno lavoro a molti giovani in Hungaria», al che mi è stato definitivamente chiaro che Csányi non si occupa solo di atletica. Ovviamente, alla prima occasione, ci siamo sottratti all’industria calzaturiera e alle manze ingioiellate che l’accompagnavano, per sederci nella zona della tavolata a più fitta concentrazione ungherese. Csányi ci ha raggiunti alla fine del drink d’incontro, quando tutti ormai prendevano posto per la cena. I suoi ospiti, come li chiamava lui, erano a occhio una sessantina. Cosa faceva quest’uomo quando non veniva a controllarmi in pista? Era difficile non pensarci.

- Ho capito, voi preferite essere come i piccioni tète-à-tète. Va bene, restate pure qui, sarete in ottima compagnia. Quelli qui sono il signore e la signora Virágbolt, Tibor e Szilvia Dirimpetto a noi, i coniugi Virágbolt prima hanno fatto aùgh, poi si sono pentiti e ci hanno stretto la mano. - Tibor è il più massimo costruttore di Budapest. Ecco, e qui avete quello principe della maratona, Dario Rensich -. Principi della scarpa, principi della maratona, mi figuravo Csányi intento a sfogliare rotocalchi sulle famiglie reali. Il suo mondo preferito, come per tutti i mafiosi, è l’operetta. - E la sua splendida signora, - Maura ha detto Maura, e il costruttore, con il suo sguardo, ha messo il primo mattoncino per l’incazzatura della moglie. - Io devo tornare da miei amici veneti. Dovrò resistere a cenare lontano da voi, ma dopo mezzanotte io mi prenoto, Maura, per primo ballo della serata, sì?

Le tette di Maura strizzate in quel guanto da killer erano semplicemente magnetiche: un ballo con Csányi era il minimo che potesse scontare. Intanto, mentre i camerieri ci portavano crostini e fois gras, i ballerini di ciarda si erano già sistemati su quello che, piuttosto che un palco, sarebbe potuto essere un ottimo campo di squash, e saltavano, cantavano, si battevano le cosce, facevano schioccare le fruste. La sala del ristorante sembrava avere la cubatura dell’intero Béke Radisson. Quasi non si vedeva il soffitto. Immaginavo il rumore dei lampadari, lo schianto, l’ecatombe, se le fruste fossero riuscite a staccarli da lassù. Non potevo neanche lontanamente intuire ciò che mi sarebbe successo dopo mezzanotte. Rispetto alla vastità di quei trenta secondi, l’interminabile cena che li ha preceduti mi si comprime in un niente di schegge e dettagli, frammenti minimi, insignificanti.

Ricordo le manze dei veneti ridere a crepapelle, dall’altra parte della tavolata, perché una di loro ha messo in bocca la noce di grasso d’oca servita apposta per i crostini, credendo che si trattasse di uno gnocco di patate. Ricordo il mutismo della signora Szilvia mentre osserva i tentativi del marito costruttore, le declamazioni dantesche di Tibor, il suo dialogo suicida con le tette di Maura. Ricordo il menu scritto in tutte le lingue, pezzi come «lombata di cervo in pistacchio tostato con salsa acerba di ribes e bignè ripieno di castagne» oppure «petto di fagiano con pera secca e salsa di cotogno su un lettino di granturco grigliato» tradotti senza una svista, scanditi con la precisione ortografica di Agota. Ricordo il count down - tíz, kilenc, nyolc, hét, hat… - con la magnum di Moët & Chandon già scoppiata e le flûte già colme e già servite. Ricordo il cantante che grida Happy New Year e l’orchestra che attacca con l’inno nazionale. Ricordo gli ungheresi immobili con la mano sul petto, mentre noi stranieri ci scambiamo baci e strette di mano. Ricordo gli ungheresi che si scambiano baci e strette di mano, quando noi stranieri siamo già passati al trenino, tutti dietro alle manze dei veneti, e l’orchestra, perfettamente in tabella, viaggia ormai da cinque minuti nel ciclo continuo di «a e i o u ipsilon», «eee, e l’amico Charlie, eee, e l’amico Charlie, Charlie Brown», «a e i o u ipsilon» eccetera eccetera.

Ho esaurito i miei obblighi - un trenino con il cappello da mago, un giro di lambada di Maura e Csányi, due giri extra ma doverosi, sempre di lambada, sempre di Maura, praticamente con due fantini - prima che la festa cominciasse davvero. Non c’era ragione per restare ancora, Maura era d’accordo. Potevamo salire in camera e guardare dalla nostra finestra meravigliosamente sgombra di case i fuochi d’artificio di Buda. Potevamo provare a farli noi, i fuochi d’artificio. Quanti avrebbero voluto appoggiare quella donna sul davanzale della mia camera e mettercisi dietro, al posto mio? Entrambi abbiamo preferito la strada, di nuovo le facce della gente, giovani senza soldi o bestie insofferenti come noi, a cui regalare tutta la nostra attenzione. Dopo il mio accesso di pianto per i R.E.M., anche Maura ha paura a stare da sola con me. Ieri pomeriggio ha preteso che l’accompagnassi all’aeroporto con un’ora di anticipo. Nonostante il traffico fantasma, da Capodanno. Nonostante l’orgasmo hollywoodiano del mattino.

Eccoci in strada, dunque, mano nella mano, lei con il vestito di seta che le esce dal cappotto, io con il giubbotto sullo smoking preso a noleggio. I marciapiedi di Andrássy Utca erano già screziati da numerose spruzzate di vomito, alcune addirittura asciutte. I pochi non ancora scomparsi nelle case seguivano la nostra stessa direzione, sperando che almeno laggiù, dalle parti di Vörösmarty Tér la cagnara non fosse conclusa. Erano in prevalenza ragazzi, ognuno con la propria bottiglia di spumante e la solita espressione da Pierrot non proprio del tutto rassegnato. Anche il loro modo di lanciare petardi sembrava gentile, discreto. Magari qualcuno conosceva Agota. Magari se l’era pure fatta. Era su ragazzi così che Agota aveva imparato a nuotare a delfino? Potevano aver contribuito, quei Pierrot, alla sua perizia da androide?

Maura si era posta un obiettivo: vedere il Danubio. Poi, via via che scendevamo e il freddo ci pareva più indulgente, gli obiettivi sono diventati due: vedere il Danubio e curiosare lungo l’argine, tra le puttanelle di Belgrád Rakpart. Perché no? Che male c’è a farsi stuzzicare dai traffici altrui? Anche Gianna l’avrebbe approvato a Capodanno. Che male c’è a buttare un occhio sugli uomini in fregola per la prima scopata dell’anno? Che male c’è a guardare come contratta questo tedesco con la biondina in stivali? E il suo amico? Che male c’è a passargli accanto e sentire le sue parole, le sue esatte parole - «aber ohne Kondom» -, mentre la ragazza fa sì con la testa? E che male c’è ad avvicinarsi a quei quattro davanti alla Citibank? A questi quattro. Due italiani, il portavoce con il riporto e il Barbour, disinvolto, niente dei tedeschi cinquanta metri più su, e due ragazze, vestite da brave signorine, cappotto grigio, borsetta, una biondiccia, silenziosa, l’altra, la portavoce, con i capelli corti, gli zigomi rosso Ferrari, gli occhi distanti tre dita.

Prendo un grosso respiro. Riconsidero meglio.

Capelli sfumati sulla nuca, zigomi rosso Ferrari, occhi distanti tre dita.

Qualcuno ha versato napalm in ogni cellula del mio corpo. Forse sono stato io. Bastava restare in albergo, no? Da fuori, Maura non si è accorta di niente. Riconsidero ancora.

Capelli neri, zigomi sporgenti, occhi distanti tre dita.

Che male c’è a osservarla nel riflesso della vetrata mentre dice qualcosa che ancora non riesco a sentire ma che ha inconfondibili picchi ultrasonici? Il tizio con il riporto le risponde guardando l’amico: - Ah sì eh, fai le maratone. Senti questa, fa le maratone, ha detto che non può bere, hu hu hu. Be’, anch’io, sai, me la cavo con la resistenza. Niente drink, okay. Resistenza, capire? - Che male c’è a porsi dei piccoli obiettivi durante la passeggiata? Che male c’è a darsi fuoco su Belgrád Rakpart? Agota è di schiena e Maura la sfiora. Il braccio a cui è aggrappata mia moglie, come il resto del mio corpo, appare illeso. Dentro di me ci sono solo villaggi in fiamme, dappertutto, nel colon, nello stomaco, nel midollo spinale, ogni cellula un villaggio raso al suolo, eppure non c’è traccia di napalm, là fuori. Così Maura può guardarmi con complicità, appena li abbiamo passati. È questo il solletico che cercava. Agota è a cinque metri da noi, con un’amica, due clienti e un bambino in pancia. Sta elaborando una replica per il tizio. Forse sta pensando che l’offerta è buona e che può accettare la provocazione. Comunque ormai siamo troppo avanti per sentire. Lei non si è neppure accorta di noi. Siamo solo due curiosi, uno sfondo a cui dev’essere abituata.

- Hai sentito? Parlavano di maratona, - mi dice Maura, con gli occhi e tutta la faccia pieni di promesse.

- Sì, ho sentito.

- Magari li conoscevi, - mi guarda proprio come ci guardavamo una volta. Non vede il napalm, i villaggi bruciati, non vede niente.

- No, non credo.

- Era carina lei, no? - Era carina lei, no? Il classico gioco, cibo per la mente, stuzzichini. Maura inizia i preliminari già a Belgrád Rakpart. Servendosi della puttana che amo.

Siamo tornati in albergo quasi correndo. Erano anni che non lo facevamo così. Non mi ha neanche chiesto di essere qualcuno. Godeva come se sapesse di essere, lei, un’altra, come se vedesse su di sé i fianchi stretti, le braccia secche, le tettine che io in effetti vedevo, come se avvertisse che la cattiveria che ci mettevo per spaccarla, per sfondarla con lo stivale che sognavo di avere al posto del cazzo, non era per lei. Maura ha cominciato a gemere forte, sempre più forte, venendo in quel modo netto che solo le attrici sul set sanno ottenere - un’ultima serie di urli brevi e poi lo sfinimento improvviso, il crollo di tensione - le attrici e mia moglie, in certe rarissime occasioni, ma sinceramente, dice lei.

Neanche Csányi, spiandoci dal buco della serratura, avrebbe potuto capire che io stavo eseguendo un raschiamento alla peggiore delle sue atlete.

Maura mi ha pulito dolcemente con l’angolo del lenzuolo e io ho chiuso gli occhi prima di vedere la sua piccola bocca non adolescente avvicinarsi alla mia. Di nuovo.