69.
Alle cinque e venti le wonderbabies sono già accese come riflettori da stadio. Lavate, vestite, i capelli bagnati, le pupille a spillo, ingoiano l’ultimo pieno di carboidrati - centoventi grammi di spaghetti all’olio - prima che l’agitazione ingoi loro. Accanto al nostro tavolo ci sono tre keniani della Fila e uno della Nike, troppo giovani perché li conosca. Bevono maltodestrine e basta, ma il resto della sala mangia pastasciutta come noi. La prima impressione è quella di un ristorante venuto in soccorso a un’emergenza umanitaria. Deportati, profughi, uomini e donne con le facce da vecchi, in tute sportive mai abbastanza piccole: credo sia questo ciò che vedono le ragazze, a giudicare dal loro sgomento. Solo osservandoli attentamente si capisce che sono atleti non meno sani di noi, in prevalenza professionisti, qualcuno anche della categoria amatori, ma tipo Alberto: tirato come e più dei quattro top-runner al tavolo vicino al nostro. Africani, penso. Ancora africani. Nessun europeo del ranking si è degnato di sporcarsi le mani per una borsa di seimila dollari. E poi, con quali possibilità? Bastano quattro ragazzini come questi per farti arrivare quinto. Sto pensando un po’ a vanvera quando, religiosamente china sul suo piatto di spaghetti, sfila l’etiope.
- She’s one of the favourite. Probably she’ll win, -dico piano alle ragazze. Imréné e Mihályne, chissà perché, arrossiscono. Mónika invece la guarda accogliere i saluti e le strette di mano di alcuni ammiratori con l’aria di una che sta chiaramente studiando come e cosa deve fare per diventare così. Fuori, sugli scalini male illuminati dell’ingresso, la coreana, l’altra favorita, ha già iniziato un’interlocutoria seduta di stretching. Torniamo tutti in camera a scaricare.
Noi e gli altri ottanta concorrenti muniti di wild card veniamo portati in Passeggio Sant’Andrea molto più tardi dei duemilaseicento maratoneti comuni, ma anche molto più presto dei venti top-runner - quindici uomini, cinque donne - i quali raggiungeranno le gabbie di partenza già riscaldati, già oliati, con il loro pulmino riservato, dieci minuti prima dello sparo. Quello che Csányi ha chiamato il giorno della verità sarà piuttosto caldo. Attualmente la temperatura dell’aria è di 14o C e sono appena le otto e mezza. L’umidità è intorno al 70% ma, da come cresce il sole dietro i piloni della superstrada, di sicuro scenderà. Mentre la massa dei duemilaseicento viene stipata nelle gabbie e comincia un’attesa di almeno un’ora saltellando sul posto, battendosi le cosce, orinando in bottigliette di plastica, noi abbiamo ancora un po’ di tempo prima di dover andare a consegnare la tuta nei camion-guardaroba e quindi possiamo fare il nostro bravo riscaldamento vestiti. Le ragazze non hanno mai gareggiato con così tanta gente. Il rumorio di fondo ci impedisce quasi di sentirci. All’estremità dell’area di partenza arrivano in continuazione moto con la sirena. Quando un elicottero ci sorvola, i transennati si mettono a salutare e fischiano e urlano, mentre Magdolna non alza neanche la testa. Spero solo che il terrore non se le mangi completamente. Dopo lo sparo l’effetto kolossal svanirà: devono resistere ancora un’ora. Corricchiamo sotto i piloni della superstrada come se l’eco familiare delle macchine potesse garantirci una specie di isolamento dal frastuono pregara. Dai tendoni ormai abbandonati dai maratoneti non smette di pulsare il ritmo tachicardico della house music. Parecchi dei wild card che incrociamo mi riconoscono e mi salutano con lo stesso identico movimento della testa. Ogni volta Mónika si gira a guardare che effetto mi fa il loro rispetto. Anche lei ha un’aria troppo frastornata: è come se uscendo dall’albergo si fosse dimenticata di indossare la spavalderia di ieri. Mi indica la fila azzurra dei gabinetti: c’è coda, conviene affrettarsi. Chiudersi nei WC chimici dopo che sono stati usati da centinaia di atleti in crisi intestinale non è facile, ma le wonderbabies hanno classe e mettono la loro diarrea sopra quella degli altri senza una smorfia. Fuori, gente che ha già consegnato la tuta si sta spalmando olio di canfora su quadricipiti e polpacci. Ovviamente a questo punto la puzza di canfora risulta gradita. Andiamo sotto un tendone per iniziare lo stretching. Anche qui ci sono alcuni slavi, cechi credo, che si spalmano come indemoniati. Le wonderbabies si stringono nell’angolo opposto e prendono a piegarsi sui tappetini fin quasi a scomparire. Cinque bambine in tuta Hungaria. Vorrei sentirle parlare, bisticciare. Che ci fanno qui cinque bambine? Perché gli sto facendo questo? L’altoparlante invita gli ultimi a consegnare la roba. Ci dirigiamo verso i camion camminando in piena psicosi di risparmio energetico.
Prima di separarmi dal cellulare provo a chiamare Agota. Sono le nove e un quarto. Le probabilità che sia sveglia sono piuttosto elevate. Mentre le altre sono indaffarate a mettere le proprie cose nei sacchi, Mónika è già svestita davanti a me con l’aria di una che sa benissimo cosa sta succedendo dentro il telefono. Eppure, forse per la confusione che mi circonda, con i volontari e le wonderbabies che etichettano, sbagliano, correggono a pennarello, sbagliano ancora, mi pare che il messaggio registrato sia diverso. Chissà, magari non è nem elérhető, magari mi sta dicendo qualcos’altro. E rendendomi perfettamente conto dell’umiliazione che sto per infliggermi, appoggio il telefono sull’orecchio di Mónika, la quale ripete sillabando ad alta voce le parole che ho sentito all’infinito ieri sera. Mi guarda e scandisce:
- A hivott szám pillanatnyilag nem elérhető. Kérjük, ìsmételje meg a hívást később!
Mónika non mi aveva mai parlato in ungherese. Alla scena stanno assistendo anche le altre. Anche i volontari, che mi hanno riconosciuto e ormai aspettano solo la mia roba, lassù nel camion. Dalla mia faccia credo sia evidente che so cosa vogliono dire quei suoni. Mónika però ci tiene a chiarirmi:
- She’s not reachable.
Starà ancora dormendo, risponde qualcuno dentro di me. Metto nel sacco la tuta e il cellulare, etichetto, sigillo, consegno al volontario, come se fosse tutto a posto, come se avesse di fronte il campione che si aspetta di vedere, la persona più serena della Terra. Magdolna mi spreme una noce di glicerina sulla mano e poi butta via il tubetto. Tra le gambe, sotto le ascelle. Stiamo qui a ungerci in silenzio, finché l’altoparlante non ci invita a entrare nelle gabbie. Imréné e Mihályne si sistemano l’un l’altra l’elastico del top dietro la schiena. Katalin si riallaccia per la terza volta la scarpa sinistra. Mano a mano che ci avviciniamo al fosco rumorio dei transennati, Magdolna affretta il passo. Scaliamo i settori verso quello riservato a noi wild card ed è una passerella di cui ora le ragazze farebbero volentieri a meno. Mónika si sente addosso la curiosità di tutti questi tizi ammassati dietro le sbarre, o forse è solo per scrollarsi un po’ di terrore, fatto sta che non riesce a trattenersi dal saltellare. Quando passiamo la punzonatura del microchip e ci mescoliamo agli altri ottanta della nostra gabbia, le ragazze hanno tutte negli occhi la stessa ineluttabilità da mattatoio. Le tiro per le braccia vicino a me. Siamo già un po’ sudaticci. Al contatto con la mia mano si scuotono come se avessero la pelle interamente ricoperta di fili elettrici male isolati. Pronuncio i loro nomi e i loro pettorali in italiano.
- Mihályne Kiss, ottantasei. Katalin Kovács, ottantasette. Mónika Tóthné, ottantanove. Magdolna Kiskocsma, ottantacinque. Imréné Seregélyes, ottantotto. Sentite la mia fiducia ragazze? La state sentendo? Forza. Attenzione ai cronometri, - indico il mio orologio, i loro, - mai sopra i 3'45" al chilometro, never over three fortyfive, okay?
Le moto battistrada, la macchina della giuria, il camioncino con il cronometro, quello con i fotografi, tutto è pronto. Arriva il pulmino dei top-runner. Scendono e vengono subito allineati davanti agli omoni della sicurezza, dietro solo al tappeto magnetico del via. Ci sono i quattro keniani di stamattina. C’è la coreana, in completo blu Diadora. Un portoghese che conosco si è fatto il segno della croce. C’è l’etiope, che adesso mi pare talmente magra da non avere un’ombra. Una francese in completo oro della Puma, una slovena quasi in bikini e una polacca sono le altre ragazze del ranking, con personali decisamente modesti. Manca un minuto alla partenza. Mónika mi guarda con l’indice destro già sul pulsantino dello start. E la sua pelle di colpo diventa grigia. Alzo gli occhi e vedo che il sole si è perso in una minuscola nuvola nera, l’unica macchia in un cielo che sembra di cartone. Un’eclissi, dice qualcuno dentro di me. Sei tutta grigia, Mónika. Non guardarmi così. Qual è il segreto di László? E - Boom! -vengo sorpreso dallo sparo.
Vai vai vai vai vai! Eccoci partiti. Spintoni, insulti, urla. Magdolna che rischia di cadere, uno che bestemmia in friulano, il sole che si accende di nuovo e riversa tutta la sua energia nei mitocondri delle wonderbabies. L’accelerazione è violenta come al solito. Milioni di watt sparati nell’asfalto tutti in una volta, come per liberarsi dalla paura, come per scappar via dalla colata di carne umana che ci insegue. Dietro, il rumorio si è trasformato in un boato sismico, duemilaseicento maratoneti che cercano giusto lo spazio per mettersi in moto. Nella bolgia sento voci concitate di italiani che si passano cose, credo bustine di fruttosio. Ma noi stiamo andando. Quando le macchie di chewing-gum fanno una scia sulla retina vuol dire che stai andando.
Quando il tratteggio della mezzeria ti si scaglia sotto le scarpe, quando cominci a sentirti uno scooter senza parabrezza significa che stai andando. E noi stiamo andando. Tra un minuto quella gente sarà niente più che un ricordo. C’è solo un problema: Mónika. Le altre quattro sono qui dietro, mi seguono ubbidienti come una muta di husky, ma Mónika non si vede.
- Mónika? - chiedo voltandomi. E Imréné con il mento indica avanti. Cerco di scrutare tra i puntini colorati che ci stanno via via distanziando e, proprio mentre un gruppetto scompare dietro a una curva, più o meno duecento metri davanti a noi, ho l’impressione che a chiuderlo sia una bionda con la canottiera verde magiaro. Intanto passiamo al primo chilometro in 3'24". Cristo santo, 3'24"! Che l’andatura sia un po’ più veloce in partenza è normale, ma questa non è un po’ più veloce, cazzo, questa è un’andatura suicida. Alle ragazze, spaventate a morte dalla mia improvvisa inaffidabilità, dico di concentrarsi e rallentare. Io vado a salvare quella pazza lì davanti, prima che sia troppo tardi.
Raggiungo Mónika all’altezza del Teatro Romano. Dal modo in cui la gente applaude è come se fossimo nel gruppo della prima donna. Cerco di riprendermi dall’allungo. Sì, mi sembrano proprio applausi eccessivi, poi mi insospettisco. Disseminate strategicamente nel plotone scorgo cinque paia di gambe femminili. La scarica di adrenalina mi fa esplodere i polpastrelli. Cristo, le top sono ancora tutte insieme e noi siamo con loro. Se non ci sganciamo subito, Csányi strapperà mio figlio dalla vagina di Agota e lo annegherà nel Tibisco come un gattino, e non oso pensare a come utilizzerà il corpo spompato di Mónika. Di sicuro la campioncina di Debrecen non tornerà a Debrecen. Prima che Csányi ci veda passare ai tremila in 10'15", le afferro l’avambraccio sinistro e lo strizzo al punto da farla sussultare.
- Follow me, - le sibilo. - Slower.
Mónika mi indica col mento il mucchietto di ossa di colore marrone che vola all’estrema destra del plotone. Che cazzo ti sei messa in testa, stupida bambina presuntuosa? E sì che ieri le avevo spiegato tutto: dimentica le prime, non rincorrere nessuno, bada solo al tuo orologio. Adesso Mónika ha addentato l’etiope e non intende mollarla.
- Forget her, - le sibilo, ma lei manco mi risponde.
Devo escogitare in fretta un rimedio che non sia lo sgambetto. Intanto passiamo anche il cartello dei quattro chilometri in perfetta tabella per il suicidio – 13'40" - e entriamo in galleria. Siamo circa una ventina. Le scarpette hanno cambiato effetto sonoro: all’aperto il ticchettio era secco, quasi una campionatura di musica elettronica, qui dentro invece l’eco l’ha trasformato in un rovescio torrenziale. I keniani della Fila saranno già al primo ristoro. Le altre wonderbabies dovrebbero essere dietro di noi di almeno un minuto, sperando che siano più giudiziose di questa pazza con gli elastici arancioni. All’uscita della galleria ci accoglie una rock band. Piazza Sansovino è piena di gente. Alcuni sono voltati di spalle per seguire il concerto. Non vedo Csányi. Ma non vedo neanche Maura. Ci sei Maura? Ti sei messa più avanti? Ti vedrò? Verrai? Sto cercando i capelli rossi di mia moglie non morta. Non morta? È da quasi un mese che non ho sue notizie. I ragazzi della band pensano di incitarci con le loro schitarrate ma io sento le trombe dell’apocalisse. La coreana corre senza muovere un capello: da dietro sembra che sia l’asfalto a sfilarlesi da sotto i piedi. Ci infiliamo nella seconda galleria.
Sulla salita che ci riporta al punto di partenza, l’etiope attacca, la coreana risponde e il plotone si spezza in due tronconi. Io mi metto davanti a Mónika nel caso le venisse in mente di provare a seguirle, ma lei chissà per quale indicatore interno - il pancreas, il surrene, l’ipofisi, le prime avvisaglie di lattato - accetta l’andatura comunque vertiginosa della slovena in bikini e lascia che le più forti ci stacchino. Ecco di nuovo i tendoni, la lunga fila azzurra dei wc chimici, la superstrada. Il sole ha accorciato notevolmente l’ombra dei piloni. Saranno almeno 22° C. Calore metabolico + calore di irraggiamento, penso. 41,8 di temperatura inguinale: è così che sono scoppiato ad Atlanta. Si parla di malore ma è sbagliato, perché con 41,8° C non si sta male, non si sta più male. Al ristoro dei cinquemila Mónika si versa addosso tutto il Gatorade e io, per offrirle il mio bicchiere, mi dimentico di prendere il passaggio.
In piazza dell’Unità c’è la maggior concentrazione di pubblico. Qui finiremo, qui torneremo tra un paio d’ore se andrà tutto bene o molto prima se Mónika avrà bisogno dell’ambulanza, qui c’è lo striscione aerostatico con la scritta FINISH. La banda dei bersaglieri intona la fanfara. Riusciamo a sentire lo speaker che annuncia trecento metri avanti a noi la testa della gara femminile. Non siamo ancora abbastanza lenti. I bambini ci applaudono nel solito modo: da lontano si entusiasmano, poi, quando arrivi all’altezza della loro transenna, si imbarazzano e smettono. Un tizio dal mucchio ha gridato «Figaa!» credo alla slovena in bikini. Un altro grida «Vai biondaa!» alla pazza che sto marcando. Nessuno può rendersi conto che per noi si tratta del giorno della verità. Continuo a non vedere Csányi. Immagino che disponga di rilevatori satellitari. Magari ci starà osservando dall’elicottero. E continuo a non vedere Maura. Mi rattrista associarli. Mi ricordo come se la mangiava con gli occhi, il bastardo, lì a Budapest: «Tu volevi tenere nascosto quello tesoro». Dove ti sei nascosta, Maura? Davvero non sei venuta? Certo che non è venuta, ha fatto la cosa giusta. E mentre qualcuno dentro di me cerca di convincermi che è ancora viva, io sento tutto un mese di silenzio avvolgersi ai miei stinchi come cavigliere di piombo. Ecco il secondo ristoro. Al passaggio sul tappeto magnetico del decimo chilometro conto una quindicina di bip. Bip-bip-bip, bip, bip, bip-bip, bip-bip, b-bip-bi-bip, e poi i due nostri in coda, bip-bip. Mónika mi guarda, sorpresa che questi cosi elettronici suonino. Io approfitto per sibilarle ancora:
- Slower.
I passaggi continuano a essere supersonici. È un’andatura proibitiva per tutte le donne del gruppo e forse anche per gli uomini. Sarà un’esplosione a catena. L’inizio è solo questione di tempo. Uno a uno esploderanno. Si tratta di una catastrofe annunciata. Non mi so spiegare come delle professioniste possano commettere simili ingenuità. Sia la francese che la polacca hanno corso decine di maratone, conoscono le proprie possibilità. La slovena è una delle più vecchie del ranking. Perché ci trascinano in questa stronzata? Mónika, non è importante restare con loro. Sono solo tre maratonete senza cervello, tre non-maratonete. Ascolta il tuo corpo, fallo pensare. Ti stanno bruciando il grande sogno sotto il naso e tu non te ne vuoi accorgere. Dovrei parlarle così. Ma Mónika si è portata a fianco della slovena, che indossa davvero un costume Speedo e che adesso sprizza feronomi vedendoci praticamente guidare il gruppo al posto suo. È così che ci fotografano gli occhi di Csányi, dalla terrazza panoramica del California Inn, al quattordicesimo chilometro:
- Dariooo, quello è 3'30"! Guarda quello cazzo di cronometrooo! Quello è morte di cavallooo! - mi urla, e poi lancia alcune frasi in ungherese che rimbalzano lontano dalle orecchie di Mónika.
In effetti, la cavalla qui presente non sente ragione. L’adrenalina sta aumentando a dismisura le sue capacità di assorbimento glicemico. I suoi neurotrasmettitori stanno attuando una campagna di disinformazione all’insegna dell’ebbrezza ma l’insulinoresistenza verrà, non può non venire, nessun essere umano sa ammazzarsi correndo. Era il rammarico di Alberto, in una delle ultime lettere: «Mi dispiace che il mio cuore non possa scoppiare correndo su Shattuck». Era la lettera sulle foche: «Che cos’è per te quella ragazza. E importante che lo sappia anch’io». Agota è una cicogna, non una foca, Alberto. Ma dimmi, perché è importante che lo sappia anche tu? I grembiuloni impermeabili dei volontari sono un’unica macchia rossa da cui spuntano braccia e bicchieri. Ristoro del quindicesimo chilometro, 52'29". Con la classica scusa di bere più lentamente, cinque sei del nostro gruppo hanno trovato quel pizzico di saggezza sufficiente per privarci della loro compagnia. La francese e la polacca si sono portate alle nostre spalle. Hanno entrambe un respiro ancora abbastanza aerobico, 2 massimo 3% sotto la soglia.
I bronchi della slovena invece hanno cominciato a fischiare.
La gente a Barcola ci guarda passeggiando. Si gode il sole ai chioschi bar. Qualcuno ha girato le sedie verso la strada, anziché verso gli scogli. Qua e là c’è chi scende dal marciapiedi per batterci le mani da più vicino. Ai Bagni del Bivio una cinquantina di persone nude è già piazzata in doppia fila con brandina, olio abbronzante e nebulizzatore da stiro. Il profumo del mare, ignaro di tutto, prova a rendermi felice. Hai visto il mare, Mónika? Guardalo. Rallenta. Ma Mónika tira dritto. Ci sono solo i sassolini incatramati dell’asfalto, solo la fuga alberata della strada, solo il cartello viola con il logo delle Assicurazioni Generali e la scritta KM 16 alta un metro: non passa altro in mezzo ai paraocchi di Mónika. Difficile immaginare una solitudine più profonda di quella in cui si è tuffata.
La costiera prende a salire gradualmente uscendo dalla città come una cengia a doppia corsia, sospesa a metà parete tra le rocce del Carso e quelle della scogliera. Adesso l’ombra dei pini ci darà un mano. Abbiamo otto chilometri di leggera salita, che dopo il giro di boa diventeranno otto chilometri di leggera discesa.
- It’s a long slope. Go slower, - sibilo ancora. Ma ormai è chiaro che se le tre superesperte vanno al massacro, non sarà certo Mónika a tirarsi indietro. I primi elastici le sgusciano via dalle treccine, il che mi sembra un terribile presagio. Gli occhi però reagiscono ancora ai flash del sole. Dentro la solitudine Mónika è più che presente.
Provo a rallentare, vengo ingoiato e subito espulso dal gruppo. Un paio di ragazzi delle Fiamme Oro si aggregano, felici che qualcuno e non loro abbia moderato l’andatura, ma Mónika prosegue imperturbabile, incollata alla troica di professioniste. Sicché devo abbandonare i due finanzieri, riguadagnare la testa di ciò che è rimasto - conto uno due cinque otto, con me nove elementi - e rassegnarmi ad assistere alla roulette russa organizzata dalle ragazze.
Facciamo in questa formazione il diciottesimo, il diciannovesimo, il ventesimo, il ventunesimo chilometro. Incrociamo, sull’altro lato delle transenne, le moto, la giuria, i fotografi, il cronometro gigante, i quattro masai che tornano verso Trieste come se rincorressero la leonessa che ha razziato il loro bestiame. Passiamo il tappeto magnetico della mezza maratona in 1:14'30" e dopo qualche metro mi accorgo di aver contato solo sei bip. Mi volto e vedo a una sessantina di metri il costume Speedo della slovena insieme agli unici due che fino a un minuto fa mi erano parsi in grado di concludere con questo passo. Quand’è che si sono staccati? La slovena rantolava proprio accanto a Mónika. Come ho potuto non accorgermi? E quei due, come ho potuto sbagliarmi su quei due? Sono ancora io questo? Dario Rensich. Già, Dario Rensich, che fine ha fatto il maratoneta che si chiamava così?
Dopo la galleria nella roccia, spunta l’insegna arrugginita dei Bagni alla Canovella. C’è sempre stata, sapevo che l’avrei trovata. Eppure sento un improvviso svuotamento, come se l’aorta penzolasse da una parte all’altra del torace senza niente sotto. Mi vedo scendere i duecento scalini che portano alla spiaggia dietro i polpacci abbronzati di Maura, un pomeriggio della scorsa estate. Vedo Maura che legge sotto la pergola della trattoria. Vedo mia moglie mangiare calamari e ridere di Gianna insieme a uno che mi somiglia in tutto. Tra un istante mi cederanno le ginocchia, ne sono sicuro. E proprio mentre me lo sto dicendo, noto l’etiope, sì l’etiope!, a quattro zampe sul bordo strada, che vomita a getto continuo secchiate di pasta e Gatorade. Nelle ragazze scorre un fremito di gioia. Ovviamente le passano accanto tenendo lo sguardo dritto avanti, ma la scossa ha attraversato i loro corpi ed è arrivata fino a me. Mónika ha la pelle d’oca sugli avambracci.
- Do you see? Slower, - le sibilo, sperando che il crollo di una campionessa l’aiuti a darsi una calmata. Lei mi sorride e senza sprecare un solo millilitro di ossigeno mi fa okay con il pollice, come a dire non ti preoccupare, i parametri sono okay, io sono okay, abbiamo ammazzato l’etiope, adesso scordati che rallento. Dovrei chiederle quanto lontano crede di andare a 3'30", dovrei chiederle se intende rientrare distesa in un’ambulanza. Ma ecco che a complicare le cose ci si mette anche la francese, la quale, girandosi bruscamente verso la corsia opposta, fa girare tutti noi proprio nel momento in cui stiamo incrociando la coreana. Essendo dall’altra parte del gruppo, io e Mónika non ce ne saremmo accorti da soli e forse, chissà, ci saremmo ancora salvati. Invece adesso stiamo tutti osservando la crisi nera della coreana che avanza a non più di 3'5o" piegata sul fianco sinistro come se una fucilata le avesse appena spappolato la milza. Un altro fremito di gioia percorre il gruppo. Questa volta la polacca e la francese si studiano, anche. Un’occhiata una, un’occhiata l’altra. Mónika dà mezza testa a tutte e due. Non controlla e non è controllata. Le treccine le si stanno sfilacciando, ha perso parecchi elastici. Gli alberi sono finiti da almeno un chilometro e il sole ci sta letteralmente squagliando. Nessuno direbbe che è primavera. La canottiera di Mónika è così bagnata che si notano, in rilievo dentro il reggiseno, i cerotti protettivi sui capezzoli. No, non mi sto sbagliando, la pazza sta allungando. Che cazzo ti sei messa in testa, brutta scema! E io che credevo in te. Dovrei farle sgambetto, prenderla a schiaffi, ma, Cristo, la mia pupilla sta attaccando e io mi sento solo di rincorrerla, di entrare nella sua falcata, nel suo fiato, di esserle, ormai incondizionatamente, complice. La polacca e suoi due accompagnatori si lasciano sfilare, mentre la macchia oro della Puma rientra nel nostro campo visivo con dentro una francese ansimante e più furiosa che mai. Io so perfettamente cosa sta pensando di Mónika, e non sono complimenti. Intanto però la campioncina di Debrecen va, e passiamo il giro di boa quasi derapando, e quando comincia la discesa picchiamo verso Trieste con una spinta di avampiede e un’incoscienza che neppure la francese può permettersi.
Incrociamo le wonderbabies. Mihályne mi fa segno che sono in tabella. Le altre mi guardano e basta. Tre husky abbandonati dal capomuta.
- It’s fine! Go go! - urlo, tra i vaffanculo dei ragazzi che le stanno scortando. Machissenefrega, là dove riprende l’ombra, si intuisce la sagoma arrancante della coreana fucilata a morte dalla sua stessa andatura. Non ho neanche il tempo di pensarlo che già la stiamo superando e Mónika mi sorride perché vede che abbiamo entrambi la pelle d’oca sugli avambracci e a me dispiace solo che quassù in costiera non ci sia pubblico perché questo sorpasso fa quasi sventolare i capelli della coreana e un applauso se lo sarebbe meritato.
- I think you are the first. Go slower now.
Mónika mi sorride, badando bene a non rallentare,
ovviamente.
- How do you feel?
Senza sprecare millilitri di ossigeno porta il pollice dell’okay alla bocca: la mia pupilla ha sete. L’affanno mi pare di un 2% sopra la soglia. Coperti dagli alberi si respira meglio, però ha sudato tantissimo: ci mancherebbero solo i crampi. Riprendo a darmi del coglione, a dirmi che non si può essere complici di una pazza, che se prima si trattava di una roulette russa ora si tratta di eutanasia attiva. Ma è questione di un attimo, perché all’orizzonte compaiono i grembiuloni pieni di braccia e bicchieri dei volontari. Ristoro del venticinquesimo chilometro, 1:27'33",
A Barcola la gente è aumentata. Sia sulla passeggiata che ai chioschi. Molti di quelli che si stanno allontanando dal bordo strada appena ci vedono tornano sui loro passi per applaudirci. I keniani sono passati da almeno dieci minuti. Due tizie con un dalmata ci corrono accanto per qualche metro. Una grida: «Vai Ungheriaa! Sei fortee! Viva le donnee!» finché il cane non si mette ad abbaiare. Mónika ha bevuto poco questa volta. Discesa e ombra sono finite, ma è ben altro a spaventarla ora - attraversiamo il tappeto magnetico, bip bip -, basta vedere come spara gli occhi sul cartello KM 30. Esatto, si Mónika, il muro del maratoneta. È qua che comincia la corsa. Il muro del maratoneta non si affronta a uovo come un discesista, non lo si infrange come un jet, non ci si passa né sopra né attraverso. Ce lo si porta addosso. Quante volte te l’ho detto, Mónika? Ecco cos’è il peso che ti senti sulle spalle. Ma ormai non possiamo più tirarci indietro, ormai neanche rallentare servirebbe. A questa velocità hai bruciato molti più zuccheri del previsto, spera solo che il fegato scovi ancora un po’ di glucosio. Ovviamente, alla mia pupilla non dico simili stronzate e scelgo piuttosto un bel:
«Relax». La paura l’ha irrigidita sul collo e sulle braccia, e il passaggio al trentunesimo è stato più lento di cinque secondi.
Con un’andatura non ancora critica ma decisamente meno sciolta di prima, facciamo il trentaduesimo, il trentatreesimo e il trentaquattresimo chilometro. Adesso incrociamo parecchi grupponi di amatori. Molti incitano la prima donna. Alcuni trovano la forza di batterle le mani. A uno che ha gridato: «Chi sei?» io ho risposto: «È Mónika Tóthné!» Tutti comunque, anche osservandoci in silenzio, ci offrono la loro invidia e la loro ammirazione. Solo che Mónika non se ne fa nulla. E come se corresse con cuffie e paraocchi. Lì dov’è finita, ha un chiaro problema di interazione. Non reagisce neanche quando ripassiamo davanti alla terrazza del California Inn e un Csányi in maniche di camicia le urla tutto il suo sconvolto entusiasmo.
A me la spia Csányi dice:
- Dariooo, siete primooo! Calma cavallooo! Non può chiudere in quello modooo! Dietro c’è franceseee!
Alzo la mano per segnalare che almeno io ho ricevuto. Mónika resta dritta, a puntare l’infinito. Mi giro e scorgo nei bagliori sahariani della Marinella la macchiolina oro della francese. Mi rigiro e scorgo all’altezza del Porticciolo la macchia rossa dei grembiuloni dei volontari. Ristoro KM 35, 2:02'58". Mónika fatica a bere. Prende qualche sorso di Gatorade e butta via il resto. Devi bere, Mónika. Le do la mia acqua. L’assaggia e se la rovescia sulla fronte. Mancano ancora sette lunghissimi chilometri e centonovantacinque metri.
Il trentaseiesimo lo chiudiamo in з'зб". Vedo che controlla l’orologio per troppo tempo: о non riesce più a distinguere i numeretti о è terrorizzata dal peggioramento. Le afferro il polso e le ordino di darmi l’orologio. Stranamente ubbidisce. Glielo prendo e lo indosso io.
- It’s a good lap time, don’t worry. Relax, - le dico, facendole segno di sciogliere le braccia. Siamo in vista della Pineta. Cercando di passare inosservato do un’occhiata dietro. La macchiolina oro della francese si è leggermente ingrandita.
Il trentasettesimo lo chiudiamo in 3'40" e siamo alla fine della Pineta. In attesa che venga sbloccato il traffico, al capolinea del 6 c’è una vera e propria folla. Adesso sì che ci vorrebbe qualche incitamento, ma nessuno guarda più dalla nostra parte. La gente si è stufata di veder correre. Mangia il gelato sui moli aspettando che gli autobus ripartano.
Il trentottesimo lo chiudiamo in з'45". Era il nostro obiettivo, no? Correre in 3'45". Segnalarsi, non vincere. Già, tutto vero, ma adesso a perdere non ci sto neanch’io, neanch’io sopporto che il sogno finisca, neanch’io accetto l’ingrandirsi costante della macchiolina oro alle nostre spalle. Adesso si comincia a notare anche il marchio Puma sui pantaloncini e una bocca slargata, rabbiosa. Sicché, pur sapendo che potrei compiere danni irreparabili, pur figurandomi il crollo che potrei provocare e il fallimento e le fauci già aperte di Csányi, improvvisamente mi metto a incitarla:
- Vai Mónika! Vai Mónika! Vai tesoro! - così, di colpo, in italiano. - Vai Mónika! Vai bella! Non mollare adesso! Manca pochissimo! Non lasciare che ci prenda! Forza bella! Forza! Devi resistere! Resistere! Dai Mónika! Forza!
E Mónika va! Resiste! Non capisce niente di ciò che le dico, ma finalmente mi sente! Ci sente! Reagisce! Piega la bocca in giù, spalanca gli occhi, rimedia chissà dove nuova adrenalina da sparare nel cuore e va! Le ginocchia girano basse, i piedi sbattono sull’asfalto quasi fossero scalzi, le guance smottano a ogni impatto, ma Mónika va! Non riesce a guardarmi, non riesce a fare nient’altro che resistere e andare. 38, questo è il limite dei nostri Lunghissimi, Mónika. Da qui in poi si tratta di improvvisare. Lascia lavorare il tuo corpo, tu pensa solo a non mollare.
- Don’t give up, Mónika. Don’t give up. Vai bella! Non mollare! Non adesso!
Allo spugnaggio gliene prendo due, di spugne, e la costringo a spremersele in bocca. Mónika ubbidisce. Con quella che ha succhiato meno si pulisce le incrostazioni di saliva mista Gatorade agli angoli della bocca e sotto il naso. Dietro i loro secchi, i volontari la osservano come se fosse una paraplegica emancipatasi dalla sedia a rotelle: è un silenzio pieno di soggezione, ma anche un po’ morboso. Non sanno loro che dentro quelle gambe i muscoli si stanno cannibalizzando. Non sanno loro che il corpo di Mónika si sta letteralmente mangiando vivo. Vedono solo una ragazza ungherese con le treccine tutte sfilacciate che si è messa in testa di vincere la quarta edizione della Bavisela nonostante stia in piedi per miracolo.
Il trentanovesimo lo chiudiamo in 3'40" e ci infiliamo nel set postatomico del Porto Vecchio. Non c’è più nessuno qui. Solo transenne e magazzini coi vetri rotti. La francese entra adesso. Non ha recuperato quasi niente nell’ultimo chilometro. Ci vede a cento metri come noi vediamo lei, ma non basta una bocca rabbiosa per venirci a prendere, giusto Mónika?
- Su bella! Dai Mónika! Stringi i denti che siamo quasi arrivati! You’re wonderful! - e lei con uno sforzo che non avrei mai voluto farle fare, non adesso cazzo!, spinge in su gli angoli della bocca per sorridermi.
Ristoro KM 40, 2:21'03" - Mónika non riesce a mandar giù neanche una goccia d’acqua.
- You must drink, Mónika. Please, drink, - le dico, ma lei scuote la testa e si rovescia anche il mio bicchiere sulla nuca. Chissenefrega, ormai siamo fuori dal Porto! Ecco la gente. C’è ancora parecchia gente sulle Rive, con tutto uno sfarfallio di fronti, braccia e pelate luccicanti sotto il sole di mezzogiorno. I keniani non possono essere arrivati da tanto perché questo è un tempo da vertici mondiali, quindi un sacco di persone non si sono ancora staccate dalle transenne e se ne stanno lì a farci gli scherzi ognuno con la propria scaglia di luce. Sono lì per noi. Per la prima donna. Lo speaker l’avrà già annunciata. Grande sorpresa, gentili spettatori, al quarantesimo chilometro è stata segnalata ancora in testa la giovanissima ungherese Mónika Tóthné. Sì, laggiù, stanno aspettando noi, Mónika. Chissà, magari c’è anche Maura. Magari un pezzettino di quella luce è il suo viso. Ho una moglie, sai Mónika? Sì, sarà senz’altro lì in mezzo a tifare per noi.
Chiudiamo il quarantunesimo chilometro in… no, non guardo più il cronometro, basta. Il marchio Puma della francese è diventato solo un po’ più grande. Non mollare adesso.
- Non mollare adesso! Don’t give up now! You’re wonderful! Guardali, sono tutti per te! - In effetti il pubblico è rimasto. Non saranno ali di folla, ma, insomma, siamo alla maratona di Trieste, e ci sono centinaia di persone incollate alle transenne che ci applaudono e magari io non la vedo però Maura vede noi. Ci sei Maura? Ecco la nostra galoppata trionfale. Mancano al massimo settecento metri. Altro che segnalarsi, il ranking ha trovato una stella! Mi piacerebbe che lo speaker dicesse questo, ma qui i suoni degli altoparlanti arrivano ancora distorti.
- Sei una stella Mónika! Sei meravigliosa! Vai bella! Non mollare! - sentendomi gridare, tre ragazzi seduti su una campana per la raccolta del vetro si aggiungono:
- Non mollare! Brava ottantanoveee! Dai che è finita!
E Mónika… cazzo, mancano cinquecento metri e Mónika molla. Cristo, no! Non è possibile. Non mollare adesso! Mi afferra un braccio, fa ancora qualche passo di corsa, riesce a dirmi solo «Wait» e poi si china a vomitare.
- Don’t give up now, - le urlo, tenendole la fronte. La gente più vicina si sposta per evitare gli schizzi.
- Occazzo, che schifo, - dice uno dei ragazzi sulla campana.
La bocca rabbiosa della francese è a ottanta, settanta, sessanta metri. Tiro su Mónika per l’ascella mentre sta ancora vomitando.
- Don’t give up! - le urlo e riprendiamo a correre quando la bastarda in completino oro è a cinquanta, quaranta metri da noi. Sto piangendo, singhiozzando, ansimando, urlando, tutto insieme. Non oso immaginare cosa stia vedendo passare la gente. Mónika corre praticamente ormai solo con le ossa e i neuroni. Corre e ogni venti trenta metri esplode Gatorade da sopra la spalla sinistra. Ma corre! Cazzo se corre! Starà pure morendo, ma questo è il Molo Audace e quella lì dietro è piazza Unità e lì sopra c’è scritto FINISH e siamo già sul tappeto rosso degli ultimi trecento metri e anche se lo speaker non sta dicendo altro che «Un bell’applauso alle ragazze, signori» qui abbiamo una stella bionda che alza le ginocchia come la mezzofondista che è stata e sprinta con le treccine spiaccicate sulla fronte lasciando alla francese, ancora, nonostante tutto, solo chiazze di vomito da calpestare. Bip bip. 2:29'42" Evvaaaii!
Mónika si inginocchia a vomitare finché si svuota completamente. Poi si alza e si mette a piangere anche lei. Mi abbraccia.
- You won! You won! - le dico sul collo.
- Yes, thank you, - e mi stringe più forte.
Arriva la francese e le dà giusto una pacchetta sul sedere. I volontari ci coprono le spalle con gli asciugamani, ci danno una bottiglietta di Gatorade che Mónika restituisce all’istante. Non riesco ancora a crederci. Sta succedendo tutto senza che abbia il tempo di afferrarlo, di capirlo. Guarda com’è contenta Mónika che piangiamo insieme, mi dico. Chissà cosa penserebbe Maura. Mi guardo attorno. Niente. Non ho sue notizie da quasi un mese.
Mentre la francese si smaterializza dietro i tendoni dei massaggiatori, arriva Csányi, faticosamente ricompostosi nel suo, blazer da spia internazionale. Sorride, ma non è raggiante. E come se stesse tentando di darci una valanga di notizie, lui a noi, tutte in una volta, solo inclinando di poco il capoccione ora verso una spalla, ora verso l’altra. Che gli dia fastidio la cravatta? Mah, strano. Le notizie però sembrano proprio tante. Alcune non buonissime. Ci stringe la mano, dice un paio di cose a Mónika che le fanno abbassare gli occhi. Poi a me, in un orecchio:
- Complimento, Dario. Quello è ottimo lavoro. Adesso io aspetto altre principesse, voi andate a prendere sacco e dopo tu fai sparire Tóthné in albergo prima che piombino vampiri Iaaf3 -. Sangue, urine, controlli incrociati, ispettori Iaaf mi sfreccia nel cervello una concatenazione che non vedevo da così tanto tempo da smettere di considerarla attiva. - C’è anche altra faccenda, ma non adesso. Bisogna calma. Andate, andate.
Cristo, la Iaaf. Come ho potuto dimenticarmene? Segnalarsi è un conto, vincere è un altro. Cingo Monika al fianco e provo a smaterializzarci com’è riuscito alla francese. Ai microfoni puntati spiego a gesti che torniamo tra un attimo. Intercetto uno sguardo di Monika verso i giornalisti. Le dispiace togliersi da qui. Ci sono anche due telecamere, i riflettori. Teme che dopo non la intervistino più, ma sente la mia stretta da fidanzato dietro la schiena e mi segue docilmente. Non sono il tuo fidanzato, Mónika. Non so chi sono. So solo che voglio raggiungere il più presto possibile il mio sacco, aprirlo, accendere il cellulare e verificare se ci sono messaggi. Quale altra faccenda abbia in mente Csányi, cosa fosse di così importante da dovermene parlare sul traguardo, ora non mi interessa.
Intanto che Mónika si spoglia sotto l’asciugamano della Bavisela e indossa a pelle la divisa Hungaria, io ho il tempo di telefonare ad Agota e trovarla nem elérhető. Sono le dodici e un quarto. Sto inondando il telefonino di sudore. Mi bruciano gli occhi. Dovrei cambiarmi anch’io e soprattutto spostarmi da qui, smettere di offrire ai volontari sul camion la gag dell’ex campione dimenticato. Invece io riprovo ancora, proprio davanti a loro e allo sguardo pietoso di Mónika. Nem elérhető, ovviamente. Sto per perdere il controllo. Ho troppi pochi zuccheri in corpo per poter essere padrone di me stesso.
- Dario, change the clothes, - mi dice Mónika, mettendo dio solo sa quanta cura per pronunciare il mio nome.
Mi tiro il sacco in spalla e inizio a camminare. Lei mi segue. Non si accorge che ci stiamo dirigendo al Jolly Hotel invece che al parterre delle interviste, o forse preferisce non protestare. Avanziamo tra le vetrine di piazza della Borsa - lei, bella asciutta, nella sua tuta Adidas, io, ancora in canottiera, bagnato come dopo una battaglia di gavettoni.
Trilla, sì, finalmente trilla il mio cellulare.
- Pronto.
- Pronto?, sto cercando il signor Dario Rensich, -dice una voce maschile in italiano, con una fonetica così perfetta, così perfettamente agotiana, da farmi rabbrividire.
- Sono io, chi parla?
- Ecco, bene, parla il dottor Márton Antal. Mi ha chiesto di chiamarla la signorina Bánóczki Agota. La sua amica sta bene, non si preoccupi. Solo che non può venire al telefono. Ha appena partorito due maschietti, due gemelli La mia amica, due maschietti, due gemelli, la pancia sgonfiata di Agota, Agota mamma, non uno, due bambini. Le cose arrivano senza che riesca ad afferrarle, a colpirle. Sono completamente fuori tempo. Sto cercando le parole ma ho una specie di collasso glicemico. Mónika mi guarda annaspare. - Signor Rensich?
- Sì…
- Non si preoccupi, anche i bambini stanno bene. Sono un poco prematuri. Hanno trentaquattro settimane, ma stanno bene e sono sani -. Mónika vorrebbe aiutarmi a parlare. Mi sono appoggiato a un muro. Se non mi raddrizzo, tra poco qualche passante deciderà di chiamare il 118. - Signor Rensich, mi sente?
- Sì, la sento.
- Ecco, i bambini pesano entrambi due chili e ottocento circa. Non posso essere preciso al grammo perché ho usato la bilancia che avete qui al Kollégiuma Al Kollégiuma? Agota mamma, al Kollégiuma. Non uno, due bambini. Mónika mi copre agli sguardi della gente. - Mi sente, signor Rensich?»
- Sì.
- Ecco, come le dicevo, la sua amica sta bene. Solo che per il momento meglio non muoversi dal letto. Qui, sa, dobbiamo prendere molte più precauzioni che in ospedale ma, come saprà, il signor Csányi mi ha chiesto… - Come saprò cosa? Il signor Csányi cosa? Non ci vorrebbe niente a fare domande simili, in teoria. -… la cortesia di ar…rangiarmi, si dice così sì?, nel suo vendéglakás. Ha parlato con il signor Csányi, sì? - Rivedo il capoccione della spia internazionale Zoltan Csányi che piega da una spalla all’altra: era questa la faccenda? - Ehm ehm… signor Rensich… forse io non dovevo chiamarla, ma… la sua amica signorina Bánóczki ha insistito… Forse non dovevo, ma come si può non accontentare una… Ho sbagliato?
- Ma no, ha fatto benissimo. È fantastico, - mi sono raddrizzato. Fantastico lo capisce anche Mónika. Vede che ho racimolato qualche parola ma non si è per niente tranquillizzata. Se potesse mi porterebbe in braccio fino all’hotel. Perché non mi stai chiamando tu, Agota? Fino a dove può arrivare Csányi? Il dottore ha detto la sua amica. E non si è congratulato. - Fantastico dottore, la ringrazio. Dica ad Agota… che vengo domani.
Guardo Mónika con il miglior sorriso di neopapà che mi possa permettere e le dico:
- Agota gave birth to twins! Two children! I’ve just become daddy!
- Do you remember László’s secret? - mi dice Mónika, tenendo con tutte le più buone intenzioni del mondo i suoi occhi nei miei. Okay, il segreto di László, non credo che manchi altro, sentiamo. Faccio sì con le palpebre. E lei:
- Those children are not your sons. Those children are of László. She made them with him.