56.
Prodigio della scienza, le ragazze reggono anche il terzo cinquemila a 3'35" senza scoppiare. Le Ripetute Lunghe potevamo farle sul fiume, ma l’argine è ancora pieno di pozzanghere. E passata una settimana dall’ultimo scroscio, eppure il contorsionista non ha ancora assorbito del tutto i tre giorni di pioggia. La tiene lì, sulla sua pellaccia argillosa, sembra addirittura rigurgitarla, soffre dello stesso disturbo di Mihályne: indigestione d’acqua. Eccola Mihályne, in testa al gruppo, insieme alla sua inseparabile Imréné. Indossano entrambe le Mizuno Phantom e i body in lycra regalati, diciamo regalati, da Dora. Dietro, seguono Magdolna e Katalin, due call girl temporaneamente prestate all’atletica, sempre più sorprendenti per la loro tenacia. Mónika non c’è. Mónika è cento metri avanti, che diventeranno più di centoventi alla fine della Ripetuta. Costringendola a un ritmo di 3'30", di fatto le ho permesso di uscire allo scoperto. László è seduto cinque gradini sotto di me sulla scala dei cronometristi e la guarda passare badando bene a tenere ferma la testa in direzione delle sue beniamine. Io e Agota invece - c’è anche Agota oggi al campo - la seguiamo con lo sguardo per un buon pezzo di curva: quella spilungona bionda con la testa piena di elastici è la speranza della maratona magiara, e un po’ anche la mia. Intanto arrivano le altre quattro. A momenti mi sfugge il passaggio. 1'28", ottimo. Lo urlo alle spalle delle ragazze mentre la grandinata delle loro otto scarpette si allontana. László si volta di 180 gradi per lanciarmi dal basso verso l’alto la sua occhiata canagliesca in puro stile Gambadilegno. È una cosa insolita: ultimamente andiamo d’amore e d’accordo. Siringhiamo, infiltriamo, sorvegliamo i turni di cyclette in perfetta armonia. In più, da parte sua, alla complicità criminale si è aggiunta una rinnovata autostima in fatto di meteorologia. Questo, ovviamente, dopo le piogge della scorsa settimana. Di’ un po’ Monika, che razza di segreto può riservarci uno come László, eh?
Le quattro ragazze raggiungono la prima della classe, che le ha aspettate corricchiando con discrezione subito al di là della linea del traguardo, e insieme fanno i sei giri previsti di Recupero Lento. Ieri sera Maura, per la prima volta, mi ha chiesto di loro.
- Perché wonderbabies? Sono così meravigliose? -Nella sua voce un pizzico quasi impercettibile di irritazione faceva vibrare le note più alte. Mi ero accartocciato sulla poltrona come per proteggerla dalla vista di Agota che si massaggiava la pancia davanti al finestrone panoramico con un olio antismagliature.
- Be’, mi sa che stiamo facendo un buon lavoro. Sono ragazze in gamba. Meravigliose forse è un po’ troppo. Il nome wonderbabies viene dall’inizio, quando sembravano majorette su una pista di atletica. Adesso sono cambiate molto -. Agota era distante abbastanza da non sentire. Se mi sporgevo dallo schienale della poltrona, riuscivo comunque a vedere tutte quelle venuzze blu poco sopra il pube.
- Sono carine? Voglio dire, qualcuna è carina? -Erano domande nuove. Sul copione Fiona ero preparato: sapevo confortarla, incoraggiarla. No, di più: ero capace di disincarnarmi totalmente e partecipare con tutto me stesso all’attesa. Cosa aspettavano a chiamarci? Perché l’Holy Cross ci spediva altre foto come se fossero ulteriori stati di avanzamento di una reificazione non ancora ultimata? Perché non si decidevano a rivelarci se per noi, laggiù, una bambina in carne e ossa con quegli occhi umidi e quel grembiulino celeste esisteva davvero? Sul copione Fiona sapevo farla sfogare. Mi spostavo in bagno e la lasciavo piangere per un po’, immaginandomi seduto accanto a lei nel tentativo di staccarle dalle mani il Child Study per stringerla forte e baciarle i capelli. Col copione Fiona mi calavo nella mia parte così bene da riscoprire ogni sera chi io fossi veramente - la mia vera casa, la mia vera città, la mia vera vita - e amando mia moglie non morta di un amore solido come il palcoscenico su cui recitavo. Io credevo sul serio al nostro futuro quando Maura mi parlava di Fiona. Che cos’erano invece queste domande nuove?
- Carine? Sì, un paio sono passabili, ma sai io le vedo solo in allenamento, sempre stravolte dalla fatica -. Cercavo di non esagerare: sette diciottenni orrende l’avrebbero insospettita. Alle mie spalle, nella zona giorno, Agota si lustrava la pancia con sovrana indifferenza.
- Me le farai conoscere a Trieste?
Mónika lancia il quarto cinquemila. Le altre si lasciano staccare lentissimamente, concentrate sui loro tempi di passaggio. Alla fine di questi dodici giri e mezzo, arriveranno con appena venticinque secondi di ritardo, un intervallo minimo che le scaraventa in un film completamente diverso dal capolavoro in cui Mónika sarà la protagonista. Non posso certo biasimare il ringhio che Katalin mette nelle sue espirazioni guidando l’inseguimento. L’odio non è sportivo ma questo non è uno sport. La rabbia aiuta a protrarre lo sforzo per un periodo così lungo, uno sforzo di diciotto minuti alla velocità di soglia, ripetuto quattro volte. Il gruppo sfila sulla curva opposta con la continuità geometrica di un origami. Mónika è già semicoperta dal materasso del salto in alto, mentre le altre sono ancora tutte belle in vista, con la pelle luccicante delle gambe che sfarfalla così velocemente da farle sembrare immobili. È un gioco che la gente in discoteca apprezzerebbe molto, una specie di effetto strobo che qui invece si disperde nel verde eccessivo dell’erba nuova. Lo József Horváth Kollégiuma è stato militarizzato dalla primavera con la stessa facilità con cui il mio cervello è stato militarizzato da Agota. L’esaltata arrendevolezza che mi accomuna al mio posto di lavoro mi distrae per buoni trenta secondi, il che mi impedisce di prendere i passaggi delle ragazze. Non sentendo la mia voce urlare i parziali, László e Agota si girano a guardarmi. Negli occhi troppo distanti del mio amore l’adrenalina è scomparsa.
- Allora? Me le farai conoscere? Sì o no? - Sì o no? Neanche questa era una domanda da Maura. Il tono era scherzoso, ma le note più alte continuavano a vibrare. Era come se con quelle vibrazioni riuscisse a spostare un peso cementato a terra. Rideva, ma intanto spostava Trieste più vicino, sempre più vicino. Veniva avanti con tutta la città, scherzando e vibrando. Tra un attimo mi avrebbe schiacciato.
- Certo che te le farò conoscere. Ma ti assicuro che non ne resterai sbalordita. Si tratta solo di sette vergini ungheresi immolate al dio Maratona, nient’altro -. Dovevo dire sette ragazze ungheresi, sette ragazze, non sette vergini, ma le venuzze di Agota hanno rubato la mia attenzione. Aspettavo che qualcosa da un momento all’altro mi suggerisse la scelta di tempo per sollevarmi dalla poltrona e concludere la conversazione in bagno. Però non succedeva.
- Chi ti dice che sono vergini? - Agota mi guardava ora. Indossava i miei ghost socks e la mia giacca della tuta. Teneva la pancia con tutte e due le mani. Una pancia troppo grande, secondo me.
- Che ne so, chi me lo dice. Nessuno me lo dice Sono riuscito a strapparmi dalla poltrona mentre Maura mi buttava lì, con vibrazioni sempre meno impercettibili, che non credeva proprio fossero vergini le mie allieve. Anzi.
Le wonderbabies stanno per concludere il quarto e ultimo cinquemila. Tra Ripetute, Recuperi, Riscaldamento e Defaticamento, il totale supera i trentadue chilometri. Grazie alla seduta odierna gli enzimi mitocondriali dei loro quadricipiti raggiungeranno una concentrazione di molto superiore agli abitanti di Tokyo. Ma il beneficio più importante sta nell’aver resistito a una fatica psichica che non ha pari se non nella maratona stessa. Mónika si affloscia sul tartan appena oltre il traguardo. Mi guarda con l’aria di un husky stupefatto, spaventato a morte. Venticinque secondi dopo arrivano anche le altre, con gli occhi che scappano letteralmente dalla testa. Mancano sei settimane. D’ora in poi mi riprometto di non massacrarle più in questo modo.
Quando sono uscito dal bagno Agota era ancora davanti alla finestra che si massaggiava. C’erano le sue unghie blu che andavano a spasso su quella superficie tesa, giù giù, fino a sfiorare il folto pelo nero. Aveva ragione Maura, non erano vergini le wonderbabies. Di una almeno ero sicuro. Mi sono avvicinato da dietro e ho messo le mie mani sopra le sue. Agota ha appoggiato la nuca sulla mia spalla, cercava coccole. Il modo in cui l’ho spinta sul davanzale l’ha fatta quasi cadere. Ho colto un vago progetto di ribellione nei suoi occhi, ma poi si è subito girata verso il vetro e ha chinato la testa tra le braccia tese, come per spingere un bob. Anche Maura tende a mettersi la mia tuta in casa. Alla fine l’orgoglio l’ha fatta retrocedere, non c’erano più vibrazioni quando ci siamo salutati. Buonanotte. Buonanotte. Dormi bene. Sì, anche tu. Ho cercato di scacciare la schiena di Maura dalla schiena di Agota. Ho strizzato con tutta la forza che avevo l’isoprene vulcanizzato. Lei ha fatto ohi, ha scartato un poco, però non si è sottratta. Per la prima volta mi è parso possibile che i suoi glutei siano sensibili al dolore. Gli arrossamenti sulle zone strizzate erano accentuati dall’unto, mi dicevano cose, lanciavano avvertimenti che non capivo. Agota non era pronta per il mio assalto. Da nessuna parte, meno che meno là dove serviva. Avrei potuto usare l’olio che avevo sulle mani per renderle più facile il tutto. Avrei potuto, ma non avevo proprio intenzione di farlo.