61.

Abbiamo deciso di incontrarci a Malpensa. Non vedevo Maura da due mesi e mezzo. L’ho sognata quasi tutte le notti, morta. E adesso è qui, seduta accanto a Gianna, nella fila più vicina al nostro gate. Stanno già litigando. Discutono cercando di mantenersi nel cilindro d’aria della propria sedia, guardano dritte davanti a sé per non rovinare tutto prima che il viaggio cominci, ma si capisce benissimo che stanno litigando.

- Oh, ecco il tuo principe, - dice Gianna, quando ormai sono a pochi passi da loro, e scappa dal suo cilindro per abbracciarmi.

Il sorriso di Maura si accende con ancora troppa voglia di litigare dentro. Sembra contenta di vedermi, ma avrebbe preferito finire prima la discussione con la nostra assistente.

- Solo bagaglio a mano, eravamo d’accordo, giusto?

- mi dice, non lasciando alle labbra neanche il tempo di chiudersi per schioccare un piccolo bacio, praticamente baciandomi e parlandomi insieme.

- Sì, eravamo d’accordo -. Dobbiamo stare solo tre giorni ad Haiti: uno per trovare Fiona dentro la sua ultima scatola, uno per portarcela a casa, uno se lo mangiano i fusi. Il nostro volo, l’unico possibile nelle date imposteci dal pio Istituto Holy Cross, raggiungerà Port-au-Prince via Milano-Chicago-Miami. Se si sommano le tratte di collegamento - la loro da Trieste, la mia da Budapest - cambieremo aereo quattro volte e io e Maura conosciamo bene l’efficienza internazionale dei Lost and Found. Al ritorno poi, viaggiare leggeri non ci precluderà l’eventualità di anticipare qualche coincidenza. Insomma, ci sono mille ragioni per limitarsi al bagaglio a mano.

- Gianna si è portata un armadio a rotelle, - dice Maura, con la vena sulla fronte.

- Uuuh, che sarà mai, per una Samsonite, - risponde Gianna, guardando nuovamente davanti a sé, in uno spazio laterale a noi due e a chiunque altro, uno spazio ancora sgombro da occhi litigiosi. È chiaro sin d’ora che la nostra assistente, in questo viaggio, dovremo assisterla noi.

Ovviamente Sull’Atlantico smetto di esistere. Mentre Maura mi accarezza la mano sul bracciolo, io vado a Szeged, controllo che le mie wonderbabies facciano i compiti, corro con loro un paio di giri di pista come se potessero vedermi realmente, o comunque sentirsi spronate in chissà quale modo dalla mia presenza fantasmatica, incrocio lo sguardo di Agota oltre il vetro panoramico del vendéglakás, cerco di capire, così sospeso davanti alla finestra, cos’è che guarda sempre da lì, cos’è che ha davvero negli occhi quando fissa il fiume. Tornando a ventiquattromila piedi, il suo pancione mi appare piccolo piccolo. Mi alzo ancora, supero l’aereo cabrando verso la stratosfera, e poi nella mesosfera e poi nella termosfera, incontro meteoriti, aerorazzi x-15, space shuttle, satelliti, continuo a salire senza preoccuparmi della rarefazione dell’aria. Atomi di elio e idrogeno piovono verso l’alto ma io non mi preoccupo. Ci saranno circa 2700o C ma io non mi preoccupo. Respiro a meraviglia. Vedo Alberto che si allena tra gli eucalipti del Tilden, i giardinieri dell’allevatore di maiali che stanno rifinendo la mia villetta in Fürj Utca, la mamma di Maura che bagna il ficus della mia casa disabitata e piena di giocattoli. Berkeley, Szeged, Trieste sono un solo colpo d’occhio intorno al 40o parallelo di quella sagoma per niente sferica che è il contorsionista raggomitolato nel plexiglas. Da quassù il pianeta non soffre. E neanch’io. Vedo il microscopico Boeing in cui sono seduto, Gianna e Maura che continuano a passarsi le stesse foto, e mi accorgo che l’unico posto dove non ho ancora avuto il coraggio di andare è quello in cui mi porterà l’ultimo aereo. Sento che non mi costerebbe nulla forzare il campo gravitazionale e disperdermi nello spazio, ma resisto alla tentazione, mi costringo a credere alle teorie consolatorie di Alberto, a un’umiliazione cosmica, stellare. Mi basta pensarci un attimo, per precipitare dalla non esistenza sul sedile reclinato del mio viaggio reale.

Atterriamo a Chicago che la giornata deve quasi ricominciare da capo. Di nuovo le undici del mattino, di nuovo un porto distante dai centri abitati, circondato da rettilinei tronchi, immersi nella sterpaglia, occupato dalla stessa gente distesa su tre sedie col sacchetto del Duty Free ai piedi, un porto identico a tutti gli altri porti senza mare costruiti con lo scopo di staccarmi dalla vita per un numero determinato di ore e trasferirmi nel modo più rapido possibile in un punto diverso della superficie terrestre.

Gianna sta vomitando tutto il salmone affumicato sulla mano del doganiere che la interroga. In volo non ha fatto altro che lamentarsi dell’aria condizionata. Le hostess non hanno potuto accontentarla: quel gelo era un marchio American Airlines, nessuno aveva il permesso di ridurlo.

«Sento che mi si sta bloccando la digestione» ci aveva avvertito. Durante la manovra di atterraggio ha anche rifiutato il sacchetto. Qui però, allo sportello della dogana, il salmone è eruttato con una pressione di parecchie atmosfere.

Mentre Maura accompagna la nostra assistente a lavarsi, approfitto per controllare ancora una volta il passaporto. La faccia è la mia, il nome anche, il timbro rosso che hanno appena stampato a pagina 23 dice U.S. Immigration. Chicago: non c’è scampo, quello è il papà di Fiona diretto a Port-au-Prince, il papà in cui devo entrare prima che sia troppo tardi. Maura sta tornando dalla toilette con tutta la sua splendida potenza di polpacci e io non ho più la forza di desiderarla morta. Siamo pronti per un altro decollo, un altro cielo.

Le luci della pista di Fort Lauderdale appaiono sul nostro finestrino in anticipo di pochi minuti. Sono le due di notte. Il taxi solca una Highway pressoché deserta. Per il momento, salvo il fatto che non dormo da 36 ore, non corro da 48 e che Gianna pretenderebbe di girare un po’ per la Ocean Drive prima di chiuderci in albergo, si può dire che a Miami sta andando tutto liscio. Il letto è troppo comodo e profumato per prendere sonno. Prima di addormentarmi sfilo delicatamente dalle mani di Maura le foto nuove, in effetti tutte uguali. Fiona ritratta da sola, non più nel lettino, appoggiata con la schiena a una parete scura. I suoi occhi umidi a dodici, quindici, diciotto mesi. Foto segnaletiche, ha detto una volta Maura. Mentre si appoggia alla mia spalla per continuare a guardarle insieme a me, riesco a intuire gli spasmi del colon, dell’utero, dei muscoli masticatori di mia moglie. Sto cercando le parole per dirle che questa bambina sana e normodotata ci salverà, ma non riesco neanche a pronunciarne il nome che Gianna bussa e mi chiede di correre da lei. È riuscita a fondere la caffettiera elettrica della sua camera.

Il passaggio dalla Florida ad Haiti avviene adesso, in sala d’imbarco, molto prima di arrivare sull’isola. Sono le nove del mattino. Delle trecentocinquanta persone pronte a salire sul Boeing insieme a noi solo altre due sono bianche, e si tratta di suore del Midwest con la T-shirt di una missione luterana che non mi sentirei di includere nella percentuale. Avvertire il nostro biancore, la nostra disarmata sovraesposizione agli sguardi della gente, sta producendo anche in Maura il primo silenzioso cedimento. In qualunque direzione mi giri trovo i loro occhi già puntati su di me. E quando li incrocio, mica li distolgono: macché, restano a guardarmi senza battere le palpebre per interi minuti. Guardano gli indifendibili capelli di mia moglie senza battere le palpebre. Cristo, senza battere le palpebre, proprio come fa Fiona, da nove mesi, nelle sue foto. Haiti è già tutta su quest’aereo, penso. È l’interrogazione senza curiosità che stiamo subendo. L’unica a sentirsi a proprio agio è Gianna. Finalmente al centro dell’attenzione, usa ogni volta le sue sette parole di francese e le sue tredici di inglese per conquistarsi il sorriso di bambini che parlano solo in creolo. Poi, sconfitta, regala una salvietta profumata. - Hai visto che serio quel carboncino? - Carboncino, negretto, bambolina: la nostra assistente si sta concedendo una licenza dal linguaggio professionale. Tutti quei colloqui fatti in punta di piedi per non calpestare la dignità degli oppressi. Mesi e mesi di ispezioni giannesche. Ma adesso no. Adesso siamo alleati, compagni di viaggio. Siamo i suoi piccioncini. Non c’è da stupirsi che Maura continui ad andare alla toilette.

Eccoci a Port-au-Prince. La Samsonite con dentro l’amuchina, la clorochina e tutte le altre sostanze fondamentali per la sopravvivenza tropicale di Gianna non è comparsa sul nastro dei bagagli. Maura non è più in condizione di prendersi la rivincita che merita e decide di impiegare le ultime energie, prima di una completa disidratazione, aiutando la nostra assistente al banco del Lost and Found. Io intanto mi sono procurato una Mitsubishi da un bivacco di moribondi chiamato audacemente Locai Rent-a-Car. Sicché ora, sfiancati, soli, ma soprattutto bianchi, ci immettiamo sulla strada per Fiona.

Le indicazioni della madre superiora sono precise: seguite la carrefour per Jacmel2, prima della città troverete l’Hòtel Jacmel, passate lì la notte, al mattino chiedete a qualcuno di indicarvi la salita di Baissin Blue, dopo mezz’ora sarete arrivati, non venite al pomeriggio. Questa perentorietà dà all’ultima scatola di Fiona le sembianze di una cassetta di sicurezza: per Gianna è la prova di quanto le suore siano protettive nei confronti dei loro orfanelli, insomma è un fatto positivo, confortante; per noi no. Beninteso, né io né Maura abbiamo aperto bocca, ma mi basta guardarla, mia moglie, per capire che pensiamo la stessa cosa. Quel modo di mangiarsi il labbro inferiore, quel modo di stringere gli occhi di fronte a nessun lampo e a nessun’esplosione, quel modo di rimettere le ciocche troppo corte nel fermaglio della coda, quei modi per me sono parole. Non venite al pomeriggio, non venite. Mamma, papà, non venite. Da quanto tempo è che non mi trovo così d’accordo con lei? Sento le nostre menti procedere con le geometrie del nuoto sincronizzato. Stesso ritmo, stessa direzione, stessi scatti da marionetta. Il nostro movimento però è solo inerzia, irrefrenabile inerzia di uno sforzo mantenuto troppo a lungo. Sotto le sue carezze da stiamo facendo la cosa giusta, anche lei lo intuisce, potrei giurarlo. Eppure non smette di accarezzarmi, appoggia la sua mano sopra la mia ogni volta che la lascio per un po’ sulla leva del cambio. Stiamo facendo la cosa giusta, stiamo facendo la cosa giusta. Nega l’inerzia, non si arrende. Gianna addita i bersagli della sua attenzione: la vecchia seduta nel canale di scolo, lo storpio col carrello degli sciroppi, il venditore d’acqua, il mulo stracarico di capre morte, le donne coi catini in testa, il bambino rachitico con le mosche negli occhi, il maiale col muso dentro i resti di un cane, il camion con le vacche legate sul fondo del cassone, la gente seduta sulla pancia delle vacche. Per ogni bersaglio si sporge dal finestrino e dice: «Guarda!» Ha la testa completamente ricoperta dalla polvere della strada, sembra l’operaio di una cava. Non sono balle: la miseria esiste davvero. Ecco il senso del suo lavoro! Ecco la causa per cui riempie moduli e stende relazioni! Ecco la sua missione! «Guarda!» L’entusiasmo sta accelerando la regressione della sua correttezza.

Dopo settanta chilometri di sterrato, la carrefour per Jacmel si stacca dalle bidonville della giungla e comincia a salire piacevolmente asfaltata. La polvere è sparita, così pure le carogne di animali investiti, buttate a bordo strada. L’aria si fa via via meno rovente. Per raggiungere la costa a sud dobbiamo attraversare le montagne. Nel primo villaggio abbiamo comperato da una bambina tre banane grosse come cotechini. Gianna è più affamata di noi ma non ha voluto saperne di mangiare frutta senza la sua amuchina. Preferisce digiunare fino all’albergo, in memoria della Samsonite. Però la piccola venditrice merita una sua riflessione.

- Eh sì, ragazzi, la vostra Fiona sarà proprio fortunata. Chissà cosa le sarebbe toccato senza di voi. Magari avrebbe venduto banane sulla strada anche lei. Bravi i miei ragazzi.

Maura si gira a sorriderle. Stiamo facendo la cosa giusta, stiamo facendo la cosa giusta. Nega l’inerzia. Ma secondo me neppure lei considera così sfortunata quella bambina con la camicetta fucsia, i dreadlocks belli ordinati e il casco di banane per appoggiare la schiena. Vorrei dirglielo, trovare il coraggio di dirle, qui, in questa stupida jeep, con la banana ancora in mano: Tu pensi che Fiona sarà fortunata con noi? Pensi davvero che potrò vivere di nuovo a Trieste? Perché non sei morta? Perché non muori? Ti vorrei bene per sempre se tu morissi.

Valicato il passo, i tornanti si sono fatti più ripidi, i villaggi più radi e in poco meno di un’ora siamo scesi a valle. È finita la strada asfaltata. Sono ricomparse le buche, le zaffate di morte, la polvere. Ancora cinquanta chilometri, mi dico. Dai, non sono tanti, passeranno prima che te ne accorga. E infatti, tra i primi tuguri in lamiera che annunciano una nuova città mi salta agli occhi lo spruzzo mal tarato di un irroratore automatico: sotto il suo arcobaleno, più avanzato rispetto al giardino, c’è un cartello con su scritto HOTEL JACMEL. Non è ancora troppo tardi per chiedere di Baissin Blue, il sole ha appena iniziato a cadere, arriveremmo all’Holy Cross con il primo buio. L’idea di essere così vicini a nostra figlia, alla bambina sconosciuta per la quale ci siamo umiliati e fatti umiliare e vicendevolmente annientati purché diventi nostra figlia, e di lasciarla per una notte di più nella sua ultima scatola, l’idea di andare a dormire a un passo dal suo lettino bianco mi fa impazzire. Se Fiona deve nascere, se Maura deve partorire, se questa cosa deve cominciare, bene, che cominci subito.

- Non fatelo ragazzi, - ecco Gianna che rientra dalla sua regressione, - se la direttrice non vuole che ci andiate di pomeriggio, figurarsi di sera.

- Tu che dici? - Oh bella! Io che dico, Maura? Che ti sta sanguinando di nuovo il labbro. Che la gita è finita. Che ho paura anch’io ma ormai siamo costretti a diventare ciò che volevi che fossimo. Adesso. Subito. Quindi le dico:

- A me non me ne frega un cazzo della direttrice. Gianna può restare in albergo. Noi andiamo a prenderci la bambina. E smettila di morderti!

- Dario, ragiona. Ascoltatemi ragazzi. Abbiamo fatto un sacco di strada, non roviniamo tutto sul più bello. Questi istituti hanno equilibri sofisticati, una gestione delicatissima. Basta niente e succede un casino.

- E allora? - E allora. Sto parlando come un bambino. Sento che la saggezza di Gianna sta neutralizzando Maura. E allora è chiaramente un’obiezione già sconfitta.

- E allora vi conviene rispettare le regole della madre superiora. Perché se quella vuole può rendervi le cose molto complicate. Diglielo tu, Maura. Scendiamo da questa carretta, ci facciamo una doccia, una bella mangiata e domani, puntuali e ubbidienti, saremo dalla piccola. Su ragazzi, avete aspettato tanto, non sarà un giorno a cambiare il vostro destino di mamma e papà.

Maura mi guarda - la gita non è ancora finita - e io le pulisco il sangue col dorso della mano.