21.

Stasera Agota è al settimo cielo perché ho sgridato László. Non si è trattato neanche di una vera sgridata: gli ho solo detto di lasciarla in pace. In realtà dovrebbe essere lei a lasciare in pace lui, visto che continua a urlargli di tenersi lontano dal gruppo anche quando la sua bicicletta è già a distanza di sicurezza e sapendo che delle bevande isotoniche abbiamo bisogno tutti. Ma insomma, l’ho fatta contenta. E poi sono sicuro che, per aiutare le wonderbabies a sopportare il carico psichico della doppia seduta quotidiana, il dottor László abbia ripreso alla grande la somministrazione delle sue magiche anfetamine. Il che almeno in parte giustificava ai suoi occhi la mia intrusione, con quel «Keep off» finale, come se Agota fosse un prato.

Siamo sul letto. Abbiamo la Tv accesa su Bbc World, senza audio. E lei è proprio contenta. Non è nervosa come le altre. Anche lei ha cominciato a dimagrire. Per un po’ l’organismo difende lo status quo e non succede niente, poi lo shock catabolico è così forte che gli etti scappano via da soli. Anche lei ha corso per novanta minuti a 13,5 km/h al mattino e per altri trentacinque a 17,5 km/h al pomeriggio, con una tazza di brodo, mezzo etto di alici e due fette biscottate nell’intervallo. Eppure non è nervosa. Fatica a inginocchiarsi, ha i muscoli affamati, legnosi, intossicati dal lattato -la seconda seduta era 5% sopra la soglia - ma il sonno smaltirà tutto e lei si inginocchia tra le mie gambe, riconoscente. Io vedo la sua testa che sale e scende davanti allo schermo della Tv, vedo i suoi capelli ancora bagnati oscurare la faccia di Béla Sárkány e poi oscurare me, oscurare lui e poi oscurare me, finché, proprio quando sto per perdere il contatto con il mondo fisico, Agota improvvisamente si solleva e con un’agilità ancora discreta si siede al posto della bocca e io sento la ruvidezza della prima penetrazione e non posso che stringere occhi, denti, pugni, nella speranza che il paradiso non svanisca così in fretta.

- Raccontami di New York, - sono state le prime parole che mi ha detto quando è entrata. Voleva mostrarmi che non era nervosa. Aveva voglia di chiacchierare.

- Be’, è un piccolo stato della Federazione americana Ero io che non avevo voglia di chiacchierare.

- Stupido, - e mi ha dato un finto pugno sul braccio, - raccontami della maratona, della tua maratona.

- Vuoi dire, della New York City Marathon? Della madre di tutte le maratone? Della mia NYC Marathon?

- C’era il mio fallimento laggiù. Columbus Circus, lo striscione FINISH e il mio fallimento. Non torno mai volentieri da quelle parti, ma Agota desiderava proprio sentirmi parlare. - Sono arrivato dopo John Kosgey, Osoro O ’ndoro, Joseph Chebete, Kip Rutho, Kip Ken Boy. Non ho vinto.

- Questo lo so. Però dietro i keniani c’eri tu -. Agota voleva la favola. Mentre la guardavo, sentivo picchiettare le loro scarpette in avvicinamento, il fiatone di una muta di cani. Mi hanno raggiunto sulla Fifth Avenue. Non erano cani, erano cinque masai con le ali ai piedi. Mi hanno torturato per mezzo miglio, poi mi hanno ucciso.

- Oh, certo, l’uomo bianco. Le foto sui giornali, i riconoscimenti, i superingaggi dei due anni successivi, gli sponsor. Vuoi che parliamo dell’uomo bianco?

- Stupido, raccontami delle tue emozioni. Che c’è di male nei soldi? Hai avuto successo, te li meritavi. Io voglio sapere cos’hai provato.

- Agota, tesoro, per quattro distretti su cinque ho corso in testa. Staten Island, Brooklyn, Queens, Bronx. Solo io, con le moto, i lampeggianti, la gente che urla, la telecamera, la macchina della giuria, il cronometro gigante davanti al naso. Primo fino a Manhattan, capisci? Mi chiedi cos’ho provato. Diciamo che ho provato un pizzico di invidia per Kosgey. Hanno stimato che il suo allungo fosse sui 2'35". L’andatura del record mondiale sui cinquemila, capisci? Fatta dopo trentotto chilometri di gara, capisci? Lo so che capisci. Ecco, un pizzico di invidia. E di odio.

- Però sei diventato importante.

- Cazzo, è vero, sto conducendo un master internazionale, - e l’ho tirata a me, strizzandole con forza il culo.

- Stupido! - Ma non riusciva più a tirarmi pugni da così vicino.

- No, dico sul serio. Considerando che non ho vinto nessuna gara di valore, che alle Olimpiadi mi sono ritirato, che il mio risultato di maggior prestigio è un sesto posto, devo ammettere che non avrebbero potuto trattarmi meglio. Pensa che a gente come Emil Zatopek o Abebe Bikila, per premio, li hanno nominati ufficiali dell’esercito. E loro erano pure contenti.

- Chi sono? - Avevo la sua bocca a venti centimetri. Grande, con la pelle nuova nell’angolo dell’herpes.

- Be’, guarda, lasciamo perdere. Solo perché sei tu, eh. Considera che hai appena bestemmiato due divinità. Adesso però devi inginocchiarti e farti perdonare.

Così abbiamo cominciato ciò che Agota ha appena finito.

Ovviamente il paradiso è svanito da un pezzo, ma lei mi trattiene ancora dentro di sé. È sporta in avanti - le braccia tese, le mani sulle mie spalle, le tette indifferenti alla forza di gravità - e mi guarda con una certa soddisfazione. Le pare di aver fatto un buon lavoro. Io distolgo lo sguardo e fingo di osservare il piercing, un po’ perché, quando è così vicina, non so mai quale dei due occhi scegliere e un po’ perché mi è passata nel cervello a tutta velocità l’immagine di Maura, chiusa nella sua posizione a uovo, e non voglio che Agota se ne accorga. Lei si guarda il piercing e mi dice:

- Sai, c’è un ritardo.

- Non capisco, scusa.

- Com’è in italiano il mio sangue del mese?

- Il tuo cosa?

- Il mio period, menstruation?

- Ah, le mestruazioni. Hai un ritardo? Be’, non c’è da preoccuparsi, no?

- Infatti non sono preoccupata, - e mi dà un bacio profondo, violento, adolescente. - Solo che da quando prendo la pillola sono molto regolare. Invece adesso c’è un ritardo di otto giorni. E la prima volta, solo questo.