35.

La dolcezza di Maura è una medicina che non riesco a mandar giù. Budapest le piace moltissimo. Ieri ha voluto addirittura venire a vedere il mio allenamento su quella che anche i budapestini chiamano Margit Island. L’avevo spaventata con la questione della lingua, invece ho scoperto che in questa città nessuno usa più l’ungherese. Non so cosa faccia la gente a casa, in strada però parlano tutti come in un aeroporto. Mancherà forse il tocco esotico, ma per Maura non è un problema, anzi.

Agota mi aveva già detto che avrei trovato la neve, o meglio, mi ha detto che era nevicato, visto che alla fine ho deciso di nasconderle che sarei venuto. L’ho chiamata il 26. Ho resistito quasi venti ore senza rispondere al suo messaggio. Poi, a Basovizza, ho ceduto.

«Ho fatto gli esami. Sono incinta».

«Come puoi essere incinta se prendi la pillola?» Com’è possibile se io sono sterile? Questo non gliel’ho detto.

«Non lo so. So che aspetto un figlio da te».

Ieri Maura mi ha chiesto a bruciapelo come mai il 26 mi sono portato dietro il cellulare a Basovizza. Ci stavamo scaldando con un’ottima cioccolata in un locale vicino all’Erzsébet Bridge. Io ho risposto che d’ora in poi lo terrò sempre con me, anche correndo, perché voglio sapere subito quando l’Holy Cross chiamerà.

«Non puoi aspettare un figlio da me». Mentre glielo dicevo, un angolo microscopico del mio cervello soppesava la possibilità, il miracolo di uno spermatozoo con la coda. Cristo, su quel vetrino c’era il mio orgoglio.

«Sì invece, ho fatto gli esami».

«No, non è possibile».

«Sei uno stronzo» Agota piangeva. Io avevo il sudore che mi bruciava gli occhi, ma non piangevo. Tutto il boschetto, ogni Pino, ogni pietra di Basovizza mi stava ascoltando.

«Va bene, non piangere. D’accordo, aspetti un figlio da me». Quell’angolo del mio cervello non era più microscopico. Assurdamente, davvero assurdamente, si stava gonfiando a dismisura. Non capivo perché il cranio non si fosse ancora spaccato. «Aspetti un figlio da me, cioè… diciamo che hai un embrione».

«Cos’è un embrione?»

Ieri Maura mi ha creduto. Ha staccato le mani dalla tazza di cioccolata e le ha messe sulle mie, giurandomi che saprò di Fiona l’istante dopo che l’avrà saputo lei, ovunque mi troverò. Il locale era pieno di bastoncini di incenso. Dalle casse ai quattro angoli uscivano a volume minimo, quasi strisciando, cover di Sting, U2, Dire Straits, eseguite a mo’ di coro gregoriano. Davanti ai finestroni sfilavano cordate di turisti abbruttiti dal gelo, leggermente piegati per affrontare il vento del ponte, diretti, crollasse il mondo, all’impervia rocca di Buda.

«L’embrione è una cellula un po’ più complicata delle altre, - ho preso un breve respiro, - andremo a rimuoverla insieme».

«Cosa?»

«Sistemeremo tutto in mezza giornata, vedrai. Non è doloroso». Stavo già pulendo il vetrino, non c’era più traccia del mio orgoglio. «Ci andremo insieme».

«Cosa?»

«Agota, non piangere».

«Sei uno stronzo! Un maiale!»

«Ma tu cosa vuoi fare?» Il fruscio della chiamata internazionale era assordante rispetto al silenzio del boschetto. Cercavo di togliermi il sudore dagli occhi. E di pensare.

«Io…»

Siamo stati un’ora buona in quel locale, mano nella mano.

Stavamo per uscire. Avevo già chiesto il conto e stavo aiutando Maura a indossare il cappotto, quando il coro gregoriano si è messo a cantare Losing my religion. I R.E.M. di Agota! Snervati, disossati, rifatti nella versione più comatosa che si potesse inventare, e nondimeno ancora R.E.M. I R.E.M. di Agota! Sono scoppiato a piangere così violentemente da far girare tutto il locale. Il cameriere voleva che mi sedessi di nuovo, chissà attraverso quale ragionamento mi stava restituendo la mancia. Maura mi toccava, mi guardava. Era scioccata.

«Io… sei uno stronzo».

«Agota, smettila di piangere». Anch’io avrei dovuto piangere il 26 invece di farlo ieri, sarebbe stato tutto più facile. «Tu devi correre. Hai talento. Non vorrai mica metterti a far figli?» Era impossibile che quello fosse mio figlio, quasi impossibile, eppure non ero completamente sicuro di volerla convincere. «È questo che vuoi? Vuoi un bambino?»

«Io… questo bambino…»

«Smettila di piangere. Agota, ascoltami. Il futuro ti sorride. Se lavori sodo ce la farai. Non ti interessa più il ranking mondiale? Non ti interessa più la maratona?»

«Non so… non so più niente…» Neanch’io sapevo più niente. Gli occhi mi bruciavano. Per un attimo ho giocato con l’idea di rimettermi a correre nel bosco, attraversare la frontiera slovena restando sempre protetto dai miei pini e continuare e continuare, in Austria, in Germania, fino a che le cartilagini rotulee si consumano, le ginocchia si bloccano, e il mio corpo si accascia su una morbida sella di muschio per decomporsi serenamente.

«Dobbiamo ragionare, Agota. Lo dico per te».

«Vaffanculo!»

Gli spazzini ammucchiavano neve sporca sotto le panchine di Ferenciek Tere. Io avrei preso un taxi o la metro o il tram o qualunque altra cosa fosse stata in grado di portarmi rapidamente in albergo, ma Maura riteneva che dovessi fare due passi per calmarmi. L’aria fredda mi avrebbe giovato. E così siamo tornati verso il nostro lussuosissimo Béke Radisson a piedi. Lei insisteva per tenermi un braccio dietro la schiena, anche se era faticoso camminare appaiati in mezzo a tutte quelle bancarelle sbocciate sull’Andrássy Utca nel giro di un paio d’ore per vendere trombe, maschere, petardi, stelle filanti per la festa di stasera. Mi anticipava tra la gente e mi riportava sotto, con il braccio, non appena un varco lo permetteva. Era convinta che fossi stremato per l’attesa di nostra figlia. Si trattava di stress, ovviamente. Non dovevo preoccuparmene. Mi incoraggiava. Lei a me.

Per fortuna c’erano le vetrine, le facce, le cose di Budapest che rubavano un po’ dei suoi sguardi. E io, pur di non alimentare il fraintendimento, pur di non farmi umiliare da una fiducia così mal riposta, le indicavo un sacco di cazzate senza senso, che lei comunque guardava e fingeva di ammirare per compiacermi. Allora il Sushi Bar, già affollato alle quattro del pomeriggio, era un mio alleato. Come le vetrate viola del Tai Restaurant, la lingua meticcia di Internet Pöintz, l’Erotic Show, il Peep Show, il Dark-art Tattoos e ogni altra insegna di questo koruth con i palazzi di Trieste, i marciapiedi di Parigi e le scritte di Amsterdam. Era la città di Agota e nonostante tutto stava chiaramente dalla mia parte.

Nella mezz’ora in cui Maura si è fatta vibromassaggiare dalla Jacuzzi - con l’intento, credo, di perdere conoscenza - io sono rimasto alla finestra a cercare nel cielo itterico del crepuscolo la rotta delle cicogne. Secondo Béla Sárkány torneranno dall’Africa non prima di marzo, ma io mi sono sforzato di vederle già per strada, in fondo alla traiettoria del mio sguardo: uno stormo schierato nella solita punta di freccia, ognuna con un fagotto nel becco. Le ultime due venivano dritte da me. Dovevo anticiparle. Abbatterne una. Così ho pensato.