7. La sacerdotessa

 

 

Eddins aveva trovato una casa a Piermont, una cittadina operaia lungo l'Hudson, tranquilla e arretrata, quasi dimenticata, a circa trenta minuti dalla città. Il traffico in entrata non era mai intenso. Sulla superstrada era proibita la circolazione dei camion, per lo più si vedevano automobili con un solo passeggero. La casa era bianca con il tetto ricoperto da assicelle grigiastre di amianto e sorgeva su una strada in discesa che portava alla cartiera e al fiume. Al pianterreno c'erano una stanza e una cucina, e al primo piano due camere da letto e un bagno con un vecchio impianto idraulico. C'erano poi una stretta striscia di terreno senza erba e un giardino. Il gradino della porta d'ingresso era fatto con due semplici pietre irregolari. La strada scendeva ripida quasi fin dentro il negozio di liquori di proprietà dell'ex sindaco, che era ancora al corrente di tutto quello che accadeva in città.

L'aveva riconosciuta subito, era come quelle fra cui era cresciuto, piccole case del Sud, non le dimore dei medici o degli avvocati e nemmeno la casa di suo padre, che aveva una ditta di sementi. Eddins aveva voluto bene a suo padre, troppo vecchio per andare in guerra eppure richiamato ugualmente, che nel 1943 era tornato a casa in licenza indossando la divisa con i fucili incrociati sul colletto, un'immagine imperitura. Gli uomini tornavano a casa così, negli stati del Sud, in uniforme, perché era un retaggio ereditario. Parliamo di Ovid, South Carolina - Oh-vid, come lo pronunciavano loro -, di vialetti d'accesso fatti con gusci di ostriche e cartelli di latta, chiese, bottiglie di whisky dentro sacchetti di carta marrone e ragazze dalla pelle   bianca e dai capelli ondulati che lavoravano nei negozi e negli uffici, ed eri destinato a sposarne una. Ce l'aveva nel sangue, inciso in profondità come i tappi delle bottiglie e i pezzetti di alluminio calpestati nel campo piatto dove si montava il luna park. C'era anche il dono della conversazione, le storie raccontate all'infinito, fino a quando le conoscevi a memoria, con i nomi e le famiglie. Nel pomeriggio, o alla sera, sedevano nelle verande ombrose a parlare con le loro voci lente e avvincenti di tutto quello che era successo e a chi. Il tempo, nel suo ricordo, procedeva a un ritmo diverso in quegli anni, per lo più restava immobile mentre tu ti spostavi a piedi, oppure, se la strada lo permetteva, in macchina. Poco fuori città c'era il fiume, non grande, che scorreva lento, quasi senza dare nell'occhio, eppure scorreva, con leggere strisce di schiuma che galleggiavano indisturbate sull'acqua color ruggine, fredda. Sulle due sponde, a perdita d'occhio, non c'era niente di particolare: alberi, argini, un cane randagio che trotterellava lungo la strada. In un cantiere parzialmente recintato i rottami di vecchie auto e poco più avanti, sulla strada, una macchina che una notte si era schiantata contro un albero, le portiere ammaccate aperte, il motore rubato.

Lui veniva da lì e quel mondo adesso se l'era lasciato alle spalle, eppure continuava a esistere, come i segni impressi sul foglio di carta che sta sotto quello su cui stai scrivendo. Conservava gli aspetti più profondi, il valore della famiglia, del rispetto, e in fondo anche una specie di senso dell'onore. Il bene più prezioso di sua madre era stato un vecchio tavolo da pranzo di mogano intagliato che apparteneva alla famiglia fin dal Settecento. Ricordava anche il litorale e l'eccitazione del viaggio per arrivarci, anche se era un bel tratto di strada. Ci andavano quando era piccolo, d'estate. Gli isolotti durante la bassa marea, le distese verdeggianti degli acquitrini, le spiagge e le barche capovolte come se fossero state messe lì ad asciugare. Ciò che gli piaceva di più della casa di Piermont era che assomigliava a quelle vicine all'oceano. Da lì poteva scorgere dall'alto  

"l'ampio fiume, ora immobile come una gigantesca lastra di ardesia, e altre volte vivo, luminoso e danzante.

Una sera a una festa incontrò Dena, una ragazza alta e dinoccolata con gli occhi neri e gli incisivi distanziati fra loro. Era del Texas, ed era divorziata, gli raccontò, benché non fosse proprio così, da un uomo che descrisse come un celebre poeta, Vernon Beseler, del Texas anche lui - Eddins non lo aveva mai sentito nominare -, che aveva effettivamente pubblicato delle poesie, disse lei, ed era amico di altri poeti. Una ragazza sensibile, dalla risata pronta, che parlava strascicando le vocali con una voce piena di vitalità. Aveva un figlio, un bambino che al momento si trovava a casa dei nonni. Si chiamava Leon, disse con una scrollatina di spalle, come per precisare che il nome non l'aveva scelto lei. Qual è il fascino di una donna che si è innamorata e sposata e adesso ti sta davanti con una cortesia quasi folle, come una supplice, con i tacchi alti, sola e senza un uomo? Eddins la trovò innocente, nel vero senso della parola. E divertente. Quando andò a prenderla a casa la prima volta lei lo accolse con un pezzetto di scotch sulla fronte che si era messa per prevenire le rughe e aveva dimenticato di togliere.

«Quello che cos'è?» le chiese.

Lei si passò una mano sulla fronte.

«Oddio» esclamò, imbarazzata e confusa. Gli raccontò di sé, storie della sua vita. Le piaceva cantare, disse, aveva fatto parte di un coro. Andare a scuola con il rossetto era proibito, invece nel coro era ammesso, come pure un po' di trucco. Che cosa è successo alle facce delle ragazze? chiedeva inevitabilmente la gente.

Aveva frequentato il Vassar College.

« Sei andata al Vassar? Dove si trova Vassar? » «A Poughkeepsie. » «Come mai hai scelto proprio Vassar? » chiese lui.

«Pare che io sia intelligente» rispose lei. «No, non pare... lo sono. » Aveva molto amato Vassar, disse, che era come una tenuta   inglese, con i vecchi edifici di mattoni, gli alberi alti. Vivevano al college come se ne fossero le padrone, andavano a lezione in pigiama. A cena però erano obbligate a indossare i guanti e le perle. C'era una ragazza di nome Beth Ann Rigsby che non li voleva mettere. Non si riusciva a obbligarla a fare niente se non voleva. Allora non le permisero più di cenare. Devi metterti i guanti e le perle, le dissero. Così una sera lei scese con un filo di perle e i guanti bianchi e nient'altro. Eddins era incantato. Non le staccava gli occhi di dosso.

« Guardi i miei denti? » chiese lei.

«I denti? No.» « Sono troppo grossi? Il dentista dice che ho una dentatura fantastica. » « Hai dei bellissimi denti. Com'eri da piccola? » «Be', ero una brava bambina. Prendevo buoni voti. Avevo questa fissa per l'Egitto. Raccontavo a tutti di essere egiziana e mia madre era furibonda. Sulla porta della mia camera avevo messo un cartello con la scritta: State entrando in Egitto. Vuoi sapere qualche parola egiziana? » «Volentieri.» « Alabastro » disse lei. « Oasi. » «Cairo» disse lui.

«Immagino di sì. Hanno avuto la prima grande regina della storia e la più famosa, Nefertiti. Al momento della morte il peso del tuo cuore veniva commisurato a quello di una piuma, simbolo della verità; se non lo superava, la prova era passata ed entravi nella vita eterna. » Le piaceva che lui la ascoltasse.

« Il faraone era un dio » continuò.

« Naturalmente. » «Quando moriva...» «Quando Dio moriva...?» «Era soltanto un modo per andare a raggiungere gli altri dèi» disse lei, come se lo volesse consolare.

In settembre andarono a Piermont in giornata e pranzarono   nel giardinetto trascurato. Il sole era ancora caldo. Lei portava un paio di calzoncini corti azzurri e i tacchi alti. Aveva le gambe nude e i tacchi erano rovinati. Chiacchierarono e risero. Lei desiderava piacere. Dopo andarono in cucina a bere del vino. Ed-dins sedeva di sbieco sulla sedia. Senza dire una parola lei gli si inginocchiò davanti e cominciò, leggermente impacciata perché era miope, a slacciargli i pantaloni. La cerniera si sciolse al suo tocco, dentino dopo dentino. Era un po' nervosa, comunque era quasi come se l'era raffigurato, il toro Api. Levigato e appena gonfio il suo cazzo quasi le scivolò in bocca, e sentendosi più sicura lei cominciò. Era un atto di fede. Non lo aveva mai fatto né con il marito né con altri. Ecco com'era, fare qualcosa che non avevi fatto mai, soltanto immaginato. La luce del tardo pomeriggio era morbida. Più tardi, nel suo diario, avrebbe scritto che era saltato fuori. Lui doveva averci pensato. Era pronto. Era stato così naturale. Una volta, quando Leon aveva un anno e mezzo, gli aveva legato un nastrino bianco intorno ai genitali, senza una ragione precisa, solo per metterli in evidenza perché erano perfetti. Avrebbe voluto confessarlo, raccontarlo a qualcuno, e fare questa cosa era come una confessione, come raccontarlo a Neil. Come uno stivale che scivola sul polpaccio, e continuò, acquisendo fiducia, producendo suoni minimi con la bocca. Fece del suo meglio, desiderando che non finisse, ma poi fu troppo tardi. Se ne rendeva conto dai movimenti di lui e poi dal grido e dall'enorme quantità, totalmente inaspettata, che quasi la soffocò. Per un attimo si sentì fiera del proprio coraggio. Ce l'aveva ancora in bocca. Non si mosse. Dopo molto tempo si accovacciò sui talloni.

Eddins non parlava e non si muoveva. Lei aveva paura di guardarlo, paura di aver fatto la cosa sbagliata. Però lo aveva voluto fare. Per via del suo ka, la forza vitale. Segui il tuo desiderio, dicevano, finché vivrai. Non c'è ritorno. Si alzò e andò a lavarsi la faccia nel lavandino. Sotto i rubinetti c'erano macchie scure di ruggine. Quando ebbe finito andò in soggiorno e si sedette su una sedia. Dalla finestra vedeva una farfalla bianca   volare su e giù in pieno sole, con un movimento puro, estatico. Dopo qualche momento Eddins venne a sedersi sul divano.

« Non startene seduta lì » le disse a bassa voce.

«D'accordo. Allora non ti è dispiaciuto?» «Dispiaciuto?» « In Egitto sarei la tua schiava. » «Gesù, Dena.» Voleva dire qualche cosa ma non riusciva a decidere quale.

«Alle gare di nuoto... » disse lei.

« Quali gare di nuoto? » « Le gare di nuoto a scuola. I ragazzi portavano tutti quegli stupidi costumi da bagno lucidi e si vedeva che qualcuno ce l'aveva... duro. Non potevano impedirselo. Mi ha fatto pensare a questo. » «Ai ragazzi?» «Non solo a loro.» «Vorrei essere tutti loro e che tu mi guardassi. » Sapeva che lui aveva capito. Sentiva nascere dentro di sé la dea.

« No, non mi è dispiaciuto per niente » disse lui.

«Era la prima volta. » «Ti credo.» Poi si rese conto che lei lo aveva frainteso. «Cioè è stato perfetto, comunque ti credo. » «Ho sentito che eri l'uomo giusto. Ti è piaciuto davvero? » Per tutta risposta lui la baciò, lentamente, sulla bocca. Lei temeva di dire qualche sciocchezza. Si guardò le mani, poi guardò lui, poi riabbassò gli occhi. Era imbarazzata, ma non troppo.

«Probabilmente ti dovrei sposare» gli disse. E aggiunse: «Però sono già sposata».

Per più di un mese, prima che suo figlio tornasse a vivere con lei - era stato lasciato dai nonni in Texas finché lei e Ver-non non avessero sistemato le cose - Dena e Eddins vissero sull’ Olimpo. Giacevano vicini, e per lui era come adagiarsi accanto a una bellissima colonna di marmo, una colonna capace di   placare il desiderio. Il suo pube era fragrante, come riscaldato da un sole invisibile. La parte sfrontata, assira, di lui, le sfiorava le labbra, soffocava i suoi gemiti. Dopo dormivano un sonno leggero. Il sole inondava il fianco della casa, l'aria fredda dell'autunno si insinuava sotto le finestre.

Tornavano a casa tardi, lei si teneva al suo braccio, con le lunghe gambe malferme, camminando a testa bassa, come se avesse bevuto. A letto lui giaceva sfinito, come un soldato alla fine della licenza, e lei lo cavalcava come un puledro, i capelli sugli occhi. Lui amava tutto di lei, il piccolo ombelico, i lunghi capelli scuri, i piedi con le dita lunghe e senza smalto, al mattino. Aveva un sedere fantastico, era come essere in un panificio, e il suo grido di piacere era quello di una moribonda, di una donna che si era trascinata a quattro zampe fino al tempio.

«Quando mi scopi» diceva, «mi sembra di andare lontano, di varcare una soglia dalla quale non potrò più tornare. Sento che la mente si offusca, come se stessi per impazzire. » Con Leon in casa non potevano più comportarsi così, però bastava anche soltanto andare a fare acquisti insieme, quando erano loro due soli, Dena con la giacca e i jeans piegata su un banco a guardare qualcosa, il logoro tessuto azzurro che aderiva ai glutei come un guanto.

Leon aveva cinque anni e portava gli occhiali. Negli sport non sarebbe mai stato bravo, però era pieno di spirito. Mostrò con un po' di riserbo, e per breve tempo, l'ostilità e il risentimento che provava nei confronti dello strano uomo che si era intrufolato nella camera da letto e nella vita di sua madre. Istintivamente capì chi era Eddins e che cosa significava, inoltre gli era simpatico e aveva bisogno di un padre. E di un amico.

«Guarda» disse mostrandogli la sua stanza, «qui tengo i libri, questo è il mio preferito, sul football. In questo invece puoi imparare di tutto, sulle stelle e qual è il buco più profondo nel mare, e sui temporali e come fare per fermarli. È il mio preferito. E poi c'è questa!» strillò. «È una storia che ho scritto io.

 

Tutto da solo, la puoi leggere dopo. E questo! Parla di soldati. » Ne prese in mano un altro.

«Lo sai che dove hai l'ombelico eri attaccato alla tua mamma quando eri dentro... com'è che si dice? Dove le donne hanno tutti i peli lì sotto... hai capito... » Malgrado l'esitazione di Eddins, Leon proseguì imperturbato.

«Ci fanno un nodo. Lo tagliano e fa male. Fanno un nodo e lo spingono dentro, veramente! » Guardò attraverso gli occhiali per controllare se Eddins gli credeva.

In cortile gli mostrò dei giochi di cui inventava via via le regole.

«Para! » gridò calciando la palla. «Quella è la porta! Ho fatto gol! » « Qual è la porta? » «Lì! » gridò Leon tirando in un'altra direzione.

«Non barare.» «Va bene, d'accordo» disse Leon, ma passò subito a mostrargli qualcos'altro.

Vernon Beseler viveva un'altra vita dalle parti di Tompkins Square con una poetessa che si chiamava Marian. Vedeva il figlio molto di rado. Era destinato a essere un padre assente ancora prima di scomparire. Un giorno telefonò e chiese a Dena se potevano incontrarsi perché stava pensando di tornarsene in Texas e voleva vederla ancora una volta.

«Vuoi che porti Leon? » chiese.

« Come sta? » «Sta bene.» «No, non portarlo» disse Beseler.

Le chiese di raggiungerlo all'aeroporto. Dena stentò a riconoscerlo tanto era smagrito e distratto. Suo malgrado avrebbe voluto aiutarlo. Era il ribelle e il poeta di cui si era innamorata e tanta parte della sua vita apparteneva a lui.

 

« Mi pare che questa donna con cui vivi non si prenda molto cura di te. » «Non deve farlo. » « Invece qualcuno dovrebbe. » « Che cosa intendi? » « Non hai un bell'aspetto » gli disse Dena.

Lui la ignorò.

« Scrivi? » gli chiese.

Questo era l'argomento sacro. Era sempre stato l'apostolo della scrittura. Qualsiasi cosa gli sarebbe stata perdonata in nome della poesia.

«No» rispose lui, «al momento non sto scrivendo. Magari andrò a insegnare, per qualche tempo. » «Dove?» « Non so bene. » Rimase in silenzio per un po'. Poi disse: «Nascere talpa, ci hai mai pensato? » «Talpa?» « Sì, nascere ciechi, senza occhi, con gli occhi sigillati. Tutto è tenebra. Vivere sottoterra in stretti cunicoli gelidi, spaventati dai serpenti, dai topi, da qualsiasi presenza in grado di vedere. Cercare un compagno, lì sottoterra, al di là di ogni luce. » Era difficile guardarlo.

«No» disse lei. «Non ci ho mai pensato. Sono nata con gli occhi. » «Bisogna avere pietà» disse lui.

Stava cercando di accendere una sigaretta con una concentrazione apparentemente molto intensa: prima la strinse fra le labbra, poi sfregò un fiammifero e lo avvicinò alla punta, infine lo spense e lo depositò in un posacenere. Allontanò la sigaretta dalle labbra con dita tremanti.

« Il bere non c'entra » disse.

«Non c'entra?» «Bevo ma non è questo. Ho oltrepassato leggermente la   linea rossa. Marian non beve. Fa i bagni di luna. Le piace denudarsi e sedersi sotto la luce della luna. » «E dove lo fa?» «Dove capita» rispose lui.

«Vernon, possiamo divorziare?» «Perché dovremmo divorziare? » «Perché non siamo più veramente sposati.» «Noi saremo sempre sposati» disse lui.

«Non credo. Cioè non credo che quello che dici abbia senso.» « Scriveranno canzoni su di noi » disse lui. « Ne potrei scrivere un paio anch'io. Come se la passa il vecchio Leon? » «E un bambino meraviglioso. » «Sì, lo sapevo che sarebbe diventato così.» « E il nostro divorzio? » « Già » disse Beseler fumando con aria pensierosa, e non aggiunse altro.

Infine sentirono annunciare il suo volo.

«Be', immagino che questo sia un adios, per un po' » disse.

La baciò su una guancia. Fu l'ultima volta che Dena lo vide. Era una donna texana, veniva da una terra dove la gente è leale, e seppure un po' sdegnata rimase leale nei confronti del ragazzo che era stato suo marito, che l'aveva portata via da casa e il cui destino era di diventare un poeta famoso, magari un cantante. Per lei aveva suonato la chitarra e cantato con voce sommessa.

Un avvocato di Austin, ingaggiato dalla famiglia di Vernon, si occupò del divorzio attraverso uno studio associato di New York. Fu stabilito un assegno di mantenimento di quattrocento dollari al mese per il bambino - per sé lei non aveva chiesto niente - e Eddins ebbe un figlio a tutti gli effetti.

Non sempre i grandi editori sono bravi lettori, e raramente i grandi lettori diventano bravi editori, tuttavia Bowman si   trovava in una posizione intermedia. Spesso, a tarda notte, quando i rumori della città si spegnevano, lui se ne restava seduto a leggere. Vivian era già andata a letto. L'unica luce proveniva da una lampada a stelo accanto alla sedia, e a portata di mano c'era qualcosa da bere. Gli piaceva leggere in compagnia del silenzio e del whisky dorato. Amava il cibo, la gente, la conversazione, ma leggere gli dava un piacere inesauribile. Le parole sulla pagina erano per lui ciò che per altri erano le gioie della musica.

Al mattino Vivian gli domandava a che ora era andato a letto.

«A mezzanotte e mezzo. Più o meno. » « Che cosa stavi leggendo? » «Di quando Ezra Pound era recluso al Saint Elizabeths. » Vivian conosceva il Saint Elizabeths. L'ospedale criminale che a Washington era sinonimo di malattia mentale.

« Perché lo avevano ricoverato lì? » «Probabilmente perché non sapevano dove altro metterlo. » «Che cosa aveva fatto, intendo? » « Sai chi è Pound? » «Vagamente» disse lei.

«Be'. È uno dei nostri maggiori poeti. Era un espatriato. » Vivian non se la sentì di chiedere che cosa volesse dire.

«In Italia ha fatto dei discorsi in lingua inglese alla radio a favore del fascismo» le spiegò Bowman. «Erano discorsi rivolti all'America agli inizi della guerra. Era ossessionato dalla malvagità delle banche, dagli ebrei, dal provincialismo americano, e ne parlava nelle sue trasmissioni. Una sera, a Roma, durante una cena seppe che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor, e disse: Oddio, sono rovinato. » «Non sembra così matto» disse Vivian.

«Esattamente.» Avrebbe voluto continuare a parlare di Ezra Pound e introdurre l'argomento dei Cantos, magari leggendogliene un paio dei più strepitosi, ma la mente di Vivian era altrove. Bowman non era molto curioso di sapere dove. Ripensò invece a un pranzo di qualche giorno prima in compagnia di uno dei suoi   autori, che aveva frequentato la scuola soltanto fino alla seconda media ma non aveva spiegato perché. Sua madre gli aveva dato una tessera della biblioteca dicendogli: Va' a leggere i libri.

« I libri. Così diceva mia madre. Avrebbe voluto fare l'insegnante ma aveva avuto tutti quei figli. Era una donna delusa. Diceva: Vieni da una famiglia di brava gente, lavoratori. Gente seria. » Serietà era una parola che lo aveva perseguitato per tutta la vita.

«Stava cercando di dirmi qualcosa. Come tutte le persone orgogliose, però, non voleva farlo in maniera diretta. Se non capivi, peggio per te, ma lei voleva trasmettere questa cosa. Un'eredità. Non avevamo niente da lasciare o ricevere in eredità, ma a questo lei credeva. » Si chiamava Keith Crowley. Era un uomo smilzo che parlando guardava di lato. A Bowman piaceva, gli piaceva anche come scriveva, però il suo romanzo non vendette più di due o tremila copie. Scrisse altri due libri, uno dei quali pubblicato da Bowman, e poi sparì dalla circolazione.

 

8. Londra

 

 

Bowman si svegliò nell'oscurità a causa di un violento tamburellare. Era la pioggia, le gocce che martellavano la finestra. Era nato durante un temporale, e i temporali lo facevano sempre sentire bene. Vivian, rannicchiata accanto a lui, dormiva profondamente, e lui rimase sdraiato ad ascoltare gli scrosci di pioggia. Quella sera lui e Baum sarebbero partiti per Londra, e piovve per tutto il giorno, una foschia umida colava dalle grandi ruote dei camion lungo la strada per l'aeroporto, i tergicristallo del loro taxi lavoravano senza sosta. Le aspettative di Bowman erano tutt'altro che offuscate dal clima. Era sicuro che l'Inghilterra gli sarebbe piaciuta, e anche la città di cui aveva tanto sognato all'università, la ricca città immaginaria con le sue figure leggendarie, donne e uomini azzimati usciti dai libri di Evelyn Waugh, le Virginie, le Catherine e le Jane, di mentalità ristretta, soddisfatte di sé, solo vagamente consapevoli dell'esistenza di vite diverse dalla loro.

Sull'aereo sedevano uno accanto all'altro, Baum che leggeva con calma un quotidiano mentre il motore rombava e cominciavano a muoversi, il decollo con il tremolio dell'aeroplano e il boato, l'acqua che oscurava gli oblò della cabina. Londra, pensava Bowman. Era l'inizio di maggio.

Al mattino ecco l'Inghilterra, verdeggiante e sconosciuta sotto le nuvole frastagliate. All'aeroporto di Heathrow presero un taxi che produceva il rumore di una macchina per cucire, guidato da un conducente che di tanto in tanto faceva commenti in una lingua che faticavano a comprendere. Poi raggiunsero la periferia, grigia e interminabile, che finalmente cedette   il posto a strade con angolazioni strane e edifici vittoriani di mattoni. Svoltarono su un ampio viale, The Mail, con il verde fitto di un parco che scorreva dal finestrino, il nero dello smalto della recinzione di ferro che si scrostava. In fondo, in lontananza, il grande e pallido Admiralty Arch. Avanzavano agilmente sul lato sbagliato della strada. Bowman rimase colpito dal carattere orgoglioso e antiquato della città e dalla sua irregolarità. Dagli strani nomi. La cosa più importante, la sua separazione dal continente, non gli era ancora nota.

Benché fossero trascorsi più di quindici anni dalla fine della guerra, se ne avvertiva ancora il fantasma. L'Inghilterra aveva vinto - non c'era famiglia, di nessun ceto sociale, che non avesse preso parte al conflitto: dai primi disastri, quando il paese era stato colto impreparato; all'affondamento di lontane corazzate ritenute indistruttibili, simbolo e orgoglio di una nazione; alla catastrofe di Dunkerque del 1940, quando l'esercito britannico mandato in Francia a combattere al fianco dei francesi era stato intrappolato sul litorale della Manica, e il corpo di spedizione disperato, confuso, senza equipaggiamento né rifornimenti, grazie a un gigantesco sforzo alleato dell'ultimo momento e al fatto che i tedeschi avevano perso l'occasione di bloccare il porto, era riuscito nella miracolosa evacuazione sfruttando ogni mezzo navale disponibile per riportare a casa, sfiniti e sconfitti, i soldati. E l'impresa non era ancora finita, la lotta senza fine, di proporzioni inimmaginabili, la guerra nel deserto, la decisione di salvare Suez, il fragore della guerra nei cieli, muri enormi che crollavano al buio, intere città in fiamme, notizie nefaste dall'Estremo Oriente, gli elenchi dei caduti, i preparativi per l'invasione, le battaglie senza fine...

E l'Inghilterra aveva vinto. I suoi nemici barcollavano tra le rovine, morivano di fame, ciò che era rimasto delle città odorava di morte e liquami, le donne si vendevano in cambio di poche sigarette, eppure era l'Inghilterra, come un pugile vittorioso ma suonato, ad aver pagato un prezzo troppo alto. Dieci anni dopo la fine della guerra i generi alimentari erano ancora   razionati, e viaggiare era difficile, non si potevano portare sterline fuori dal paese. Le campane che avevano suonato nell'ora della vittoria tacevano da tempo. Impossibile riprendere la vita di prima. Spegnendo una sigaretta dopo pranzo, un editore aveva decretato in tono calmo: «L'Inghilterra è finita».

All'arrivo furono ospitati da Edina Dell, un'amica editor, in una di quelle piccole enclave dette terraces, con un giardino delimitato da un muretto di mattoni e qualche albero davanti al soggiorno, che era la stanza più appartata della casa. Edina era la figlia di un classicista, ma con quei suoi denti irregolari e i modi disinvolti sembrava venire da un ambiente più ricco, da una grande dimora di campagna piena di dipinti, vecchia mobilia e scheletri negli armadi. Aveva una figlia che si chiamava Siri, nata da un matrimonio con un sudanese durato dieci anni. La bambina aveva un colore delicato e seducente, a sei o sette anni era piena d'amore per la madre e spesso stava in piedi accanto a lei tenendole un braccio intorno alla gamba. Era una gazzella con le iridi scure circondate da un bianco purissimo.

Edina aveva una relazione con Aleksei Paros, un omone imponente ed elegante, che veniva da una illustre famiglia greca e forse era sposato: sull'argomento era piuttosto vago, doveva essere più complesso di quel che sembrava. All'epoca faceva il venditore di enciclopedie, ma anche in maniche di camicia, mentre si aggirava per casa alla ricerca di una sigaretta, dava l'impressione di un uomo a cui le cose sarebbero andate bene. Era alto e sovrappeso e riusciva a conquistare senza sforzo uomini e donne. Edina era attirata da tipi così. Suo padre era stato un uomo del genere e lei aveva due fratellastri.

Aleksei era stato via, in Sicilia, ed era appena rientrato dopo aver fatto tappa in un club londinese, la notte precedente. Al club lo conoscevano perché gli piaceva giocare. Gli piaceva gironzolare con le fiches in mano, accarezzandole distrattamente con il pollice. Non utilizzava un sistema, per giocare, seguiva l'istinto, ci sono uomini che sembrano portati per questo. Passando davanti al tavolo dello chemin de fer era capace di   fermarsi e fare una puntata improvvisa. Era un gesto mediterraneo, da egiziano ricco. Se non fosse stato per l'aspetto, Aleksei avrebbe potuto esserlo, un playboy di piccolo calibro o un re.

Era rimasto al tavolo della roulette ad ascoltare il suono della pallina d'avorio che girava, un suono prolungato che si disgregava terminando nel clic fatale di quando, superati vari divisori fra i numeri, di colpo si bloccava su uno di essi. Vingt-deux, pair et noir. Ventidue, l'anno della sua nascita. I numeri a volte si ripetevano, tuttavia non aveva avuto la sensazione che sarebbe successo. Al tavolo c'erano alcuni giocatori giovani e un uomo con un abito logoro che scriveva i numeri usciti su un foglietto e poi aveva fatto una piccola puntata sul rosso o sul nero. Faites vos jeux, stava dicendo il croupier. Erano arrivate altre persone. Qualcosa di invisibile le attirava a un particolare tavolo, qualcosa che aleggiava nell'aria soffocante. Faites vos jeux. Una donna in abito da sera, più giovane della media dei presenti, si era fatta largo, e c'era gente in piedi di profilo fra le sedie. Il panno verde era coperto di fiches. Appena qualcuno scommetteva, altri due lo imitavano. Rieti ne va plus, annunciava il croupier. La ruota girava, ora più veloce, e all'improvviso la pallina lanciata da una mano esperta aveva cominciato a vorticare nella direzione opposta, proprio sotto il bordo, e in quel momento, come qualcuno che salta su una nave già in movimento, Aleksei aveva puntato cinquanta sterline sul numero sei. La pallina produceva il suo bellissimo suono circolare che si sarebbe rimasti ad ascoltare per sempre, un suono che conteneva immense possibilità, e lui era lì per vincerne mille e ottocento, di sterline, e per cinque o sei secondi che erano sembrati molto più lunghi aveva atteso, calmo ma assorto, quasi come sotto la ghigliottina alzata, e poi l'orbita aveva rallentato fino all'istante conclusivo in cui il saltello metallico segnava l'entrata definitiva della pallina dentro un numero. Non era il sei. Da giocatore esperto qual era Aleksei non aveva mostrato emozioni né rimpianto. Aveva puntato parecchie volte ancora cinquanta sterline per poi passare a un altro tavolo.

 

Al mattino sedeva in giardino a bere il caffè, il giardino della riconciliazione, lo chiamava. Al tavolo rotondo di ferro, con la sua camicia bianca, era come un ferito sulla terrazza di un ospedale. Impossibile restare arrabbiati con lui. Non parlò della nottata bensì di Palermo, palla-irma, la città senza indicazioni.

« È assolutamente vero » disse. « Ovunque tu vada non trovi il nome di una via da nessuna parte. È tutto in rovina. » Era intento a raddrizzare una sigaretta sfilata da un pacchetto schiacciato. Ogni sua mossa in un certo senso era il gesto di un sopravvissuto e al tempo stesso di qualcuno che ce l'avrebbe fatta a sopravvivere. Sembrava aver già fatto il suo gioco.

«Immagino che pulluli di criminalità» disse Edina.

«La Sicilia? Sì, certo» ammise Aleksei. «La criminalità esiste. Però non la si vede. Sequestri di persone. Donne rapite. Per questo non ho voluto portarti con me. » «Avevi paura che mi rapissero? » «Sì. Abbiamo già avuto una guerra a causa del rapimento di una donna » disse.

«Che cosa ci posso fare? » chiese lei sconsolata a Baum.

« Faremo un viaggio in America » promise Aleksei, « noleggeremo una macchina e attraverseremo il paese, andremo a Saint Louis, a Chicago, a vedere le Grandi Pianure. » « Sì, certo » disse lei. « Ci contavo da tempo. » E si congedò, in realtà per andare a fare i suoi esercizi di yoga sul pavimento della camera da letto, alla ricerca della consapevolezza, braccia e gambe che nuotavano delicatamente nell'aria immobile, e poi, finiti gli esercizi, a leggere.

Era la Londra dei negozi esclusivi di Jermyn e New Bond Street; le targhe con i nomi dei precedenti occupanti sulle case: Boswell, Browning, Mozart, Shelley, Chaucer persino; il lusso nascosto dei giorni dell'Impero, con i suoi guardiani sotto forma di uscieri dei grand hotel dai berretti bordati d'argento; i club esclusivi, le librerie, i ristoranti, e interminabili indirizzi con dentro la parola tenace o place, vie, corti, crescent, piazze,   viali, row, gardens, mansion e mew; gli innumerevoli alberghetti addirittura spartani con le camere senza bagno; il traffico; i segreti che non si sarebbero mai saputi. E fu proprio in questa Londra che Bowman si fece per la prima volta l'idea di una geografia editoriale, una rete di persone che si conoscevano fra loro pur vivendo in paesi diversi - specialmente quelli interessati allo stesso genere di libri e che possedevano cataloghi simili - e che, cosa altrettanto importante, erano amici, magari non intimi, piuttosto colleghi e rivali e in virtù di questo e delle imprese comuni, amici.

Si trattava per lo più di uomini dotati di grandi capacità, persino eccezionali, alcuni guidati da principi morali, altri meno. L'editore inglese più importante, o il più chiacchierato, era Bernard Wiberg, un uomo robusto di quasi cinquant'anni con una faccia da Diciottesimo secolo, di cui sarebbe stato facile fare una caricatura: naso grosso e mento a punta, e due braccia che sembravano più corte del normale. Rifugiato tedesco, era venuto in Inghilterra senza un penny poco prima della guerra. Nei primi anni aveva condiviso una stanza con altri; l'unico lusso che si concedeva era un caffè al Dorchester una volta alla settimana. Circondato da gente che consumava pasti che costavano anche più di trenta scellini, era deciso a diventare uno di loro.

Aveva cominciato pubblicando libri fuori diritti con una bella veste grafica e un marketing accurato. Ebbe un grande successo con le memorie piccanti di donne che avevano fatto strada, preferibilmente cominciando da giovani, e passando di letto in letto nella Londra della Reggenza, e aveva pubblicato, ignorando l'indignazione generale, alcuni libri sull'Olocausto visto dall'altra parte, compreso un best seller intitolato Giulietta dei campi, basato sui diversi miti che circolavano a proposito di una bellissima fanciulla ebrea che per un po' si era salvata lavorando nel postribolo di un campo di concentramento, dove un ufficiale tedesco si era innamorato di lei. Il libro era sia un insulto ai milioni di vittime della Soluzione finale sia una   menzogna nei confronti dei sopravvissuti. Wiberg aveva assunto un tono borioso.

«La storia è come gli abiti dentro l'armadio» aveva detto. «Se li indossate, capirete. » Si riferiva, da un certo punto di vista, alla sua vita e alla sua famiglia, i cui membri erano tutti periti nel terrificante incubo dell'Europa orientale. Si era gettato il passato alle spalle. Si faceva fare la manicure e indossava abiti costosi. Amava la musica, l'opera. Pare avesse dichiarato che la sua casa editrice era strutturata come un'orchestra sinfonica: percussioni e ottoni, i titoli fondamentali del catalogo, per così dire, in fondo; poi via via i legni: flauti, ottavini, oboi e clarinetti, cioè i libri di peso inferiore che però rendevano felici i lettori e vendevano come noccioline. Lui era interessato soprattutto alle percussioni e voleva la dedica di autori che vincevano il Nobel per la letteratura, voleva una bella casa e dare delle belle feste.

La bella casa ce l'aveva, per la precisione un appartamento su due piani affacciato su Regent's Park. Era una dimora di lusso, con i soffitti alti e le pareti smaltate in colori caldi e avvolgenti, coperte di disegni e quadri, c'era persino un grande lavoro di Bacon. Gli scaffali delle librerie erano coperti di libri, non si sentiva il rumore del traffico o della strada, regnava una quiete aristocratica e un cameriere serviva il tè.

Robert Baum e Wiberg si capivano istintivamente e nel corso degli anni conclusero molti affari insieme, ogni volta concordi nel sostenere che l'altro avesse ottenuto il guadagno maggiore.

Edina la pensava diversamente, e non era la sola.

«Ci sono meravigliosi rifugiati tedeschi che si chiamano Jacob» ammetteva, «medici eccellenti, banchieri, critici teatrali. Wiberg non è fra questi. È arrivato qui e ha cercato il nostro tallone d'Achille, ha approfittato della nobiltà cristiana degli inglesi. Ha fatto cose tremende. Il libro sulla ragazza ebrea che si innamora dell'ufficiale delle SS... c'è un limite a tutto. E ovviamente è un arrampicatore sociale. Siccome non poteva   entrare nell'alta società ha sempre assunto ragazze delle migliori famiglie. Le ha pagate. Be', la vera storia è questa. Robert sa come la penso. » La controparte o quasi di Wiberg a Colonia era Karl Maria Lòhr, anche lui un uomo alla mano, che aveva ereditato la casa editrice dal padre, il fondatore, e che amava stare seduto sul pavimento dell'ufficio a bere whisky e a parlare con i suoi autori. Aveva tre segretarie, che prima o dopo, a fasi alterne, erano state sue. Con una delle tre, Erna, trascorreva spesso i fine settimana, ufficialmente per andare a trovare la madre che viveva a Dortmund. Un'altra, più giovane, era diligente e poiché non era sposata non aveva problemi a fermarsi più a lungo in ufficio. Le serate a volte si concludevano in un ristorantino apprezzato dagli artisti che rimaneva aperto fino a tardi, animato da chiacchiere e risate, e poi con un drink nella biblioteca della casa di Lòhr, tutta rivestita di pannelli di legno, dove Katja, la seconda segretaria, teneva degli abiti di ricambio e aveva persino un bagno tutto suo. Silvia, la terza - avanzata di grado, dopo una promozione -, lo aveva accompagnato alle fiere di Francoforte e di Londra e in un'occasione particolarmente memorabile a Bologna, dove avevano cenato sulla terrazza verdeggiante del ristorante Diana e avevano dormito al Baglioni. Spesso fra i loro appuntamenti trascorreva un lungo intervallo di tempo e la relativa novità e il viaggio lo eccitavano. Lei si presentava sempre a letto tenendo un braccio sotto i seni, che erano un po' pesanti. Silvia era spiritosa e con lei si finiva in situazioni divertenti. Una volta in un bar del porto di Amburgo un marinaio l'aveva invitata a ballare. Karl Maria non si era scomposto, poi l'uomo le aveva offerto venticinque marchi per salire in camera con lui. Al suo rifiuto ne aveva offerti cinquanta e seguendola al bar era arrivato a cento. Karl Maria si era proteso verso di lui dicendo: «Hòr zu. Sie ist meine Frau, è mia moglie. Non me la prendo, ma ho paura che ti possa avvicinare troppo al suo prezzo».

 

Il marinaio era ubriaco, comunque erano riusciti a liberarsene e a rientrare in albergo, dove avevano bevuto l'ultimo bicchiere nel bar ricercato e deserto e avevano riso. Lòhr era un forte bevitore.

L'editore svedese era un signore garbato che aveva acquisito i diritti dei libri di Gide, Dreiser e Anthony Powell, per non parlare di Proust e Genet. Aveva pubblicato i russi, Bunin e Ba-bel', e in seguito i grandi émigrés. Era stato in Russia, un posto terribile, diceva, una sconfinata prigione, una prigione al cui ingresso bisognava abbandonare ogni speranza, eppure i russi erano le persone più meravigliose che avesse mai conosciuto.

«Li apprezzo più di quanto riesca a spiegare» disse. «Non sono come noi. Non so perché ma in loro ci sono una profondità, un'intimità che non si trovano in nessun altro. Forse è il risultato dell'eterna tirannia che hanno subito. La Achmatova, mi piacerebbe tanto pubblicare le sue poesie, se non fossero già pubblicate da altri. Suo marito è stato giustiziato dai comunisti, suo figlio ha passato anni in un campo di prigionia, lei viveva in una stanzetta sotto la sorveglianza della polizia segreta, sempre con la paura di essere arrestata. Gli amici andavano a trovarla e, parlando d'altro per ingannare la polizia che origliava, lei gli mostrava una cartina di sigaretta dove aveva scritto una poesia in modo che loro la leggessero e la imparassero a memoria, e quando le facevano capire con un cenno d'averla memorizzata lei avvicinava un fiammifero alla cartina. Quando entri nella casa di un russo e siedi con lui, di solito in cucina, anche solo per bere una tazza di tè, ti dà la sua anima. » Berggren non possedeva quel tratto sacro. Aveva in pratica l'aspetto di un banchiere; alto, riservato, con i denti irregolari e i capelli biondicci che erano diventati grigi. Indossava sempre un completo, a volte con il gilet, e per leggere di norma si toglieva gli occhiali. Si era sposato tre volte, la prima con una donna che possedeva molti soldi e una casa, una vecchia casa   costruita un secolo prima, con un campo da tennis e vialetti lastricati. Era tradizionalista ma sagace e forse non del tutto inconsapevole quando, a una festa, aveva fatto in modo di presentarle la nuova amante per avere la sua opinione, diciamo, visto che si fidava del suo giudizio.

L'amante diventò la sua seconda moglie... lui era dispiaciuto per il divorzio dalla prima perché l'aveva amata, ma la vita aveva voltato pagina. Questa seconda moglie, Bibi, era elegante, però capricciosa ed esigente. I conti delle sue spese erano sempre una sgradevole sorpresa e lei non prestava attenzione al costo di cose come il vino.

Berggren era fatto per le donne. Per lui erano la principale ragione di vita, o comunque una rappresentazione di essa. Vivere con lui non era difficile, era un uomo civile e dotato di buone maniere benché a volte potesse sembrare poco comunicativo. Non che si chiudesse in se stesso, semplicemente i suoi pensieri erano altrove. In genere evitava le discussioni, sebbene con Bibi ciò non fosse sempre possibile. C'era un albergo, su Nàckstròmsgatan, dove alloggiavano gli scrittori, ed era lì che andava quando a casa la situazione diventava troppo turbolenta. Il direttore lo conosceva, come pure l'impiegato alla reception. La barista faceva roteare del ghiaccio triturato nel bicchiere, lo buttava e poi versava un vino svizzero, il Sion, che gli piaceva.

Un pomeriggio passò davanti a una vetrina in cui una ragazza di vent'anni con un paio di pantaloni neri aderenti stava vestendo un manichino. Lei era consapevole della presenza di Berggren ma non lo guardò mai. Lui si trattenne più a lungo di quanto avesse voluto, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Una ragazza, non quella del negozio ma una molto simile, divenne la sua terza moglie.

Chi può dire come fosse la parte invisibile della loro vita? Lei era una donna difficile oppure stava in piedi fra le sue ginocchia, nuda, come le figlie dei patriarchi, il ventre esposto, i fianchi sporgenti? Una certa indesiderata freddezza del cuore   gli impediva di conoscere la vera felicità, e pur avendo sposato donne bellissime, pur avendole possedute, per meglio dire, permaneva in lui un senso di incompletezza, anche se vivere senza di loro gli riusciva impensabile. Nel passato era il cibo ciò di cui si aveva fame, non ce n'era mai abbastanza e la maggior parte della gente era sottonutrita o denutrita, adesso invece si aveva fame di sesso, senza sesso c'era lo spettro della carestia.

Con Karen, Berggren non si sentiva ringiovanito, ma ancora meglio. Il sesso era più di un piacere, alla sua età si sentiva tutt'uno col mito. Qualche anno prima aveva visto per caso una scena meravigliosa, sua madre che si vestiva; gli dava la schiena, aveva settantadue anni allora, il sedere era levigato e perfetto, la vita sottile. Era una questione genetica, dunque, forse poteva continuare all'infinito, però un giorno vide un'altra scenetta perfettamente innocente, Karen e un'amica, sua ex compagna di scuola, sdraiate sull'erba ad abbronzarsi con i loro succinti costumini, a pancia in giù, una accanto all'altra, si parlavano e di tanto in tanto una di loro alzava la gamba e scalciava pigramente nel sole che accarezzava le loro schiene nude. Lui era seduto in maniche di camicia sulla terrazza di pietra e leggeva un dattiloscritto. Per un attimo pensò di scendere a sedersi con loro, ma provava un certo imbarazzo e la consapevolezza che al suo arrivo il loro discorso, qualunque cosa riguardasse, si sarebbe interrotto. Non provò a immaginare di che cosa stessero parlando, si limitò a guardare la pigra contentezza che esprimevano, paragonandola al proprio temperamento meno gioioso e vivace. Accese una sigaretta e fumò con calma mentre rileggeva alcune pagine. Adesso si erano alzate e raccoglievano gli asciugamani. Quel giorno, e nei giorni che seguirono, accettò la realtà di quanto era accaduto con le donne che aveva amato, le mogli, principalmente, e fu una delle ragioni che lo condussero, malgrado la sua posizione e l'intelligenza e l'alta considerazione in cui era tenuto, a togliersi la vita, all'età di cinquantatré anni, l'anno in cui lui e Karen si separarono.