2. La grande città

 

 

« Il nostro eroe ! » gridò lo zio Frank spalancando le braccia per stringerlo a sé.

Era la cena organizzata per festeggiare il suo ritorno a casa.

« Non proprio un eroe » disse Bowman.

«Invece sì. Abbiamo letto tutto di te. » « Su di me? Dove? » « Nelle tue lettere ! » rispose lo zio.

«Frank, fammelo abbracciare! » strillò la zia.

Erano venuti dal Fiori, il loro ristorante nei pressi di Fort Lee, un locale con gli arredi di stoffa rossa, dove le arie del Rigoletto e del Trovatore risuonavano finché non se n'erano andati anche gli ultimi innamorati sussurranti, e al bar non restavano che pochi uomini e qualche coppia malinconica. Frank era stato la figura maschile più importante dell'infanzia di Bowman. Aveva la pelle scura, il naso a patata e stava perdendo i capelli. Tarchiato e di buon carattere, si era iscritto a legge a Jersey City ma aveva abbandonato gli studi con l'idea di diventare uno chef. Nel suo ristorante, quando era in vena, a volte tornava in cucina, sebbene la sua vera passione fosse la musica. Aveva imparato a suonare il pianoforte da autodidatta ed era sempre felice quando poteva far correre sui tasti le sue dita grosse e pelose ma agili.

Era una serata piena d'affetto e chiacchiere. Beatrice, la madre di Bowman, e gli zii ascoltavano i racconti dei luoghi in cui era stato - dove si trovava San Pedro? e il cibo giapponese, l'aveva assaggiato? - e bevevano lo champagne che Frank aveva messo in serbo prima della guerra.

 

«Non sai come eravamo preoccupati in tutti quegli anni che sei stato per mare » disse zia Dorothy, che in famiglia chiamavano Dot. «Pensavamo a te ogni giorno. » «Davvero?» «Abbiamo pregato per te» aggiunse lei.

Dot e Frank, che non ne avevano, lo consideravano un po' come un figlio. Adesso tutte le paure erano passate e il mondo era come avrebbe dovuto essere; inoltre, almeno agli occhi di Bowman, non era tanto diverso da prima, familiare, normale, con le stesse case, le stesse strade, tutto quello che ricordava e conosceva fin dall'infanzia, banale e al tempo stesso suo. Ad alcune finestre, dove c'erano stati figli o mariti caduti in guerra, brillavano le stelle d'oro, che insieme alle numerose bandiere erano quasi le uniche tracce di quegli anni. L'aria stessa, immobile e immutata, era familiare, come il liceo e la scuola media con le loro facciate sobrie. Lui si sentiva superiore, in un certo senso, eppure vincolato a tutto questo.

La sua uniforme era appesa nell'armadio, con il berretto sullo scaffale in alto. Li aveva indossati quando era il sottotenente Bowman, un ufficiale giovane ma rispettato e persino ammirato. L'uniforme aveva perso ormai da tempo autenticità e fascino, ma il berretto, stranamente, esercitava ancora il suo potere.

Per lungo tempo, e con una certa frequenza, sognò di trovarsi ancora laggiù. Nel Pacifico, sotto il fuoco nemico. La nave era stata colpita, sbandava, cadeva in ginocchio come un cavallo morente. I passaggi erano inondati, e lui lottava per attraversarli e raggiungere il ponte dove si affollavano gli uomini. La nave era quasi appoggiata su un fianco e lui si trovava vicino alle caldaie, che potevano esplodere da un momento all'altro, doveva trovare un posto più sicuro. Era al parapetto, doveva buttarsi in mare e risalire a bordo più a poppa. Nel sogno si buttava, ma la nave viaggiava troppo veloce. La poppa lo superava rombando mentre lui tentava di nuotare, lasciandolo sempre più indietro, nella sua scia.

« Douglas » disse sua madre, riferendosi a un ex compagno   di scuola di Bowman appena più grande «ha chiesto tue notizie. » «Come sta?» « Studia legge. » « Suo padre era avvocato. » «Anche il tuo» disse lei.

« Non sarai preoccupata per il mio futuro, vero? Torno all'università. Provo a iscrivermi a Harvard. » «Ah, fantastico! » esclamò lo zio.

«Perché così lontano? » chiese la madre.

«Mamma, sono stato nel Pacifico e non ti sei mai lamentata per la lontananza. » «Ah no?» « Comunque sono contento di essere a casa. » Lo zio gli passò un braccio intorno alla vita.

«Mai quanto lo siamo noi, ragazzo mio» disse.

A Harvard non lo presero. Era stata la sua prima scelta ma la domanda venne respinta perché, come spiegavano nella lettera, non accettavano studenti provenienti da altre università. Bowman si mise d'impegno e scrisse un'accurata replica nella quale citava i nomi degli illustri professori con i quali aveva sperato di studiare, la cui preparazione e autorevolezza non avevano eguali, e descrisse se stesso come un giovane che non poteva essere penalizzato per aver combattuto in guerra. Malgrado la sfrontatezza, la lettera riuscì nell'intento.

Nell'autunno del 1946, a Harvard, Bowman era un outsider: aveva un paio d'anni di più dei compagni e gli si attribuiva una notevole forza di carattere; era stato in guerra, e per questo la sua vita sembrava più reale. Era rispettato, e decisamente fortunato sotto molti punti di vista, primo fra tutti il fatto di dividere la stanza con un ragazzo con cui andò subito d'accordo. Malcolm Pearson veniva da una famiglia abbiente. Era alto, intelligente e si mangiava le parole, al punto che Bowman non riusciva   a capire quasi niente dei suoi discorsi, ma piano piano si abituò e ci fece l'orecchio. Pearson trattava i suoi costosi indumenti con signorile distacco e si presentava di rado in mensa. Voleva laurearsi in storia, con la vaga intenzione di fare l'insegnante o qualsiasi altra professione potesse dispiacere a suo padre, e mettere la maggiore distanza possibile fra lui e l'impresa di materiali da costruzione della famiglia.

In effetti, una volta laureato insegnò per qualche tempo in una scuola maschile del Connecticut, poi fece la specializzazione e sposò una ragazza che si chiamava Anthea Epick, sebbene nessuno dei presenti alle nozze che ebbero luogo a casa della sposa, nei pressi di New London, nemmeno il pastore e Bow-man, che gli faceva da testimone, lo avessero sentito dire: «Lo voglio». Anche Anthea era alta, con le sopracciglia scure e le gambe leggermente storte, un dettaglio che sarebbe passato inosservato, sotto l'abito bianco, se il giorno prima non si fossero trovati tutti insieme in piscina. Camminava in maniera strana, come se barcollasse, ma aveva gli stessi gusti di Malcolm e i due si intendevano alla perfezione.

Dopo il matrimonio Malcolm non si diede molto da fare. Vestito come un bohémien degli anni Venti, con un soprabito troppo ampio, la sciarpa, un paio di pantaloni della tuta, un vecchio cappello di feltro e un bastone ricavato da un ramo, portava a passeggio il collie nella sua proprietà vicino a Rhine-beck e si dedicava ai suoi interessi, limitati quasi esclusivamente alla storia del Medioevo. Lui e Anthea ebbero una figlia, Mix, a cui Bowman fece da padrino. Era eccentrica anche lei. Una bambina taciturna, che quando cominciò a parlare lo fece con uno strano accento inglese. Rimase anche da adulta a vivere con i genitori, che lo accettarono come un fatto previsto sin dall'inizio, e non si sposò. Non era nemmeno promiscua, si lamentava il padre.

Per Bowman gli anni di Harvard furono importanti quanto il periodo trascorso in mare. Se ne stava sui gradini del Wide-ner, gli occhi all'altezza degli alberi, e osservava gli imponenti   edifici di mattoni rossi e le querce dello Yard. Verso sera cominciavano a suonare le campane, gravi e solenni, che continuavano, apparentemente senza sosta e senza motivo, per poi spegnersi in rintocchi calmi e interminabili, morbidi come carezze.

Bowman era partito con l'idea di studiare biologia, ma nel secondo semestre era incappato per caso, come se gli fosse spuntata davanti dal nulla, nell'età elisabettiana: Londra, la città ancora alberata di Shakespeare, il leggendario Globe, l'eloquenza della gente di alto rango, il linguaggio e gli abiti sontuosi, il Tamigi e la sua dissoluta South Bank, con i terreni appartenenti al vescovo di Winchester e le giovani prostitute, le cosiddette oche di Winchester, la fine di un secolo tumultuoso e l'inizio di un altro... tutto catturò il suo interesse.

Durante la lezione di storia del teatro giacobino, l'illustre professore, a tutti gli effetti un attore che aveva affinato la sua interpretazione nel corso di decenni di insegnamento, cominciò alla grande, declamando con voce profonda: «Kyd era l'El Greco del teatro inglese».

Bowman ricordava la lezione parola per parola.

« Su uno sfondo di paesaggi nuvolosi e lampi intermittenti, possiamo scorgere queste figure curiosamente spigolose vestite di indumenti di inaspettata ricchezza, e animate dai fremiti di una cupa passione. » Lampi intermittenti, indumenti di inaspettata ricchezza. Gli aristocratici che si dedicavano alla scrittura - il conte di Oxford, la contessa di Pembroke -, i gentiluomini di corte Raleigh e Sydney. O i numerosi autori che non temevano rivali: Thomas Kyd, arrestato e torturato per le sue idee liberali; Webster, Dekker, l'incomparabile Ben Jonson; Marlowe, che vide rappresentato il suo Tamerlano il Grande quando aveva ventitré anni; e lo sconosciuto attore figlio di un guantaio e di una donna analfabeta, Shakespeare in persona. Fu l'epoca di una prosa elevata e fluente. La regina Elisabetta I conosceva il latino, amava la musica e suonava la lira. Grande monarca, grande città.

 

Anche Bowman era nato in una grande città, al French Hospital di Manhattan, nella canicola di agosto, alle primissime ore del mattino, quando, come gli aveva detto Pearson, vengono al mondo i geni. Nell'immobilità più assoluta, una sorta di apnea generale, verso l'alba si sentì un debole rombo in lontananza. Cresceva lentamente, poi arrivarono raffiche di aria più fresca seguite da un violento temporale con fulmini e pioggia battente, e quando passò, si vide spuntare un gigantesco sole estivo. Ai piedi del letto c'era una cavalletta aggrappata alla coperta, che chissà come era riuscita a rifugiarsi nella stanza. L'infermiera allungò una mano per scacciarla, ma la madre di Bowman, ancora intontita dal parto, le disse di non farlo, che era un segno. Correva l'anno 1925.

Un paio d'anni più tardi il padre di Bowman li abbandonò. Era un avvocato dello studio Vernon, a Wells: un giorno andò per lavoro a Baltimora, dove conobbe una donna dell'alta società di nome Alicia Scott, se ne innamorò e abbandonò moglie e figlio. In seguito lui e Alicia si sposarono ed ebbero una figlia. Fece poi altri due matrimoni, con donne sempre più facoltose incontrate in qualche country club. Erano le matrigne di Bowman, che lui non conobbe mai, come del resto non conobbe la sorellastra.

Non rivide più il padre, però ebbe la fortuna di trovare in Frank uno zio comprensivo e spiritoso, dedito a scrivere canzoni e a studiare riviste per nudisti. Il Fiori andava piuttosto bene, e Bowman e la madre vi cenavano spesso, quando lui era ragazzo. Qualche volta il nipote giocava con lo zio, che era bravo con le carte e conosceva molti trucchi, come far comparire quattro re dal mazzo dopo le quattro regine e cose del genere.

Negli anni a venire Beatrice Bowman si comportò come se suo marito si fosse assentato momentaneamente, come se stesse sempre per tornare a casa, persino dopo il divorzio, quando lui aveva già sposato la signora di Baltimora, che continuava a sembrarle irreale, benché avesse voluto sapere com'era la donna che glielo aveva portato via e avesse infine trovato una foto su   un quotidiano locale. Nei confronti delle altre due mogli si mostrò meno curiosa, poiché le suscitavano soltanto un senso di commiserazione. Era come se lui andasse alla deriva sempre più lontano e lei fosse decisa a non guardare. I corteggiatori non le erano mancati, ma non c'era mai stato niente di serio; forse percepivano la sua ambiguità. I due uomini importanti della sua vita, il padre e il marito, l'avevano abbandonata. Aveva suo figlio e il suo lavoro a scuola. Non erano ricchi, ma vivevano in una casa di proprietà. Erano felici.

Alla fine Bowman decise di iscriversi al corso di giornalismo. Allora si favoleggiava di reporter come Murrow e Quentin Reynolds, seduti alla loro macchina per scrivere fino a notte fonda a finire un pezzo, tutto intorno le luci della città, cinema e teatri che si svuotavano, Costello's, il bar, affollato e rumoroso. L'inesperienza sessuale sarebbe stata superata. Non è che a Harvard fosse stato timido, semplicemente quella cosa che avrebbe completato la sua vita non era successa. Sapeva cos'erano gli ignudi ma non conosceva la nudità. Rimase innocente e vibrante di desiderio. Ci fu Susan Hallet, una ragazza di Boston con cui usciva, snella, con l'incarnato chiaro e i seni a pera che lui associava alle classi privilegiate. Avrebbe voluto che lei lo seguisse per un fine settimana a Gloucester, dove ci sarebbero state le sirene per la nebbia e l'odore del mare.

« Gloucester? » « O un altro posto » disse lui.

Come poteva fare, protestò lei, come spiegarlo a casa?

«Potresti dire che ti fermi a dormire da un'amica.» «Non sarebbe la verità. » «Certo. È proprio questo il punto. » Lei teneva gli occhi bassi, le braccia incrociate sul petto come se volesse abbracciarsi. Doveva dire di no, benché l'insistenza di lui le piacesse. Per lui era quasi insopportabile, la sua vicinanza e il suo gelido rifiuto. Avrebbe potuto acconsentire,   diceva Susan, se ci fosse stato un modo per andarci e... riusciva a immaginare solo vagamente il seguito. Le era capitato spesso, ballando, di sentire le sue erezioni. Più o meno sapeva di cosa si trattava.

« Non saprei come tenerlo segreto » disse.

«Io sì» la rassicurò lui. «Ovviamente tu ne saresti al corrente. » Lei accennò un sorriso.

«Dico sul serio» continuò lui. «Lo sai che cosa provo per te.» Non potè fare a meno di pensare a Kimmel e alla disinvoltura con cui altri uomini affrontavano situazioni analoghe.

«Anch'io faccio sul serio» disse lei. «Però rischio molto di più. » «Un rischio c'è sempre. » « Non per l'uomo. » Capì cosa intendeva, benché per lui non avesse senso. Suo padre, che con le donne aveva sempre avuto successo, avrebbe potuto insegnargli qualcosa di impagabile sull'argomento, ma da padre a figlio non era stato trasmesso niente.

«Vorrei che potessimo farlo» disse lei con semplicità. «Partire eccetera, intendo. Lo sai che mi piaci molto. » «Sì. Come no?» «Gli uomini sono tutti uguali. » «Che banalità.» Malgrado l'euforia che dopo la guerra regnava un po' ovunque, restava pur sempre necessario trovarsi un lavoro. Bowman fece richiesta al «New York Times» ma non c'erano posti liberi, e lo stesso valeva per gli altri quotidiani. Per fortuna aveva un contatto, il padre di un compagno di università che si occupava di pubbliche relazioni, o ne era addirittura l'inventore. Era in grado di ottenere qualsiasi cosa da quotidiani e riviste; si diceva che per diecimila dollari potesse farti arrivare sulla copertina   del « Time ». Era in grado di alzare il telefono e chiamare chiunque, e non c'era segretaria che non glielo passasse immediatamente.

Era stabilito che Bowman lo andasse a trovare a casa, di mattina. Faceva sempre colazione alle nove in punto.

« Si aspetta la mia visita? » «Sì, sì. E informato. » Dopo una notte quasi insonne, alle otto e trenta Bowman era davanti all'ingresso. Era una mite mattina autunnale. La casa si trovava nei Sixties, appena dietro Central Park West. Un ampio edificio imponente, con le finestre alte e la facciata quasi completamente coperta da un fitto manto d'edera. Alle nove meno un quarto Bowman suonò il campanello della porta di vetro e pesante ferro battuto.

Venne fatto accomodare in una stanza inondata di sole che si affacciava sul giardino. Lungo una parete era allestito un buffet all'inglese con due vassoi d'argento, una brocca di cristallo con la spremuta d'arancia e un grande bricco di caffè coperto da un panno, nonché burro, panini e marmellata. Il maggiordomo gli chiese come desiderasse le uova. Bowman declinò l'offerta. Accettò una tazza di caffè e aspettò nervosamente. Sapeva che il signor Kindrigen avrebbe avuto l'aspetto di un uomo ben vestito, con un volto vigoroso e i capelli grigi.

Regnava il silenzio. Di tanto in tanto arrivava una voce flebile dalla cucina. Bowman terminò il suo caffè e andò a versarsene un'altra tazza. Le finestre sul giardino stavano dissolvendosi nella luce.

Alle nove e un quarto entrò Kindrigen. Bowman gli diede il buongiorno. Kindrigen non rispose e sembrò non accorgersi nemmeno della sua presenza. Era in maniche di camicia, una costosa camicia con i gemelli. Il maggiordomo gli servì il caffè e del pane tostato. Kindrigen mescolò il caffè, aprì il giornale e cominciò a leggerlo seduto di sbieco. Bowman aveva visto sedere in quel modo soltanto i cattivi dei film western. Aspettò in silenzio, fino a quando Kindrigen finalmente disse: «Lei sarebbe? »  

«Sono Philip Bowman» rispose lui. «Penso che Kevin le abbia parlato di me...» «Sei un amico di Kevin? » « Sì. Eravamo compagni di università. » Kindrigen non aveva ancora alzato gli occhi. «Di dove...?» « Sono nato nel New Jersey, vivo a Summit. » «E cos'è che vuoi? » chiese Kindrigen.

«Mi piacerebbe lavorare al 'New York Times'» disse Bowman, adeguandosi alle maniere dirette dell'altro.

Kindrigen gli gettò una rapida occhiata.

«Tornatene a casa» disse.

Trovò un impiego presso un piccolo stampatore che pubblicava una rivista di teatro e cominciò vendendo la pubblicità. Non era un lavoro difficile, però era noioso. I teatri prosperavano. Nei West Forties si susseguivano uno dopo l'altro, e folle di spettatori passeggiavano avanti e indietro tentando di decidere che cosa andare a vedere. Preferisci un musical o l'ultimo lavoro di Noèl Coward?

Non molto tempo dopo Bowman venne a sapere di un altro impiego, come lettore di manoscritti in una casa editrice. Scoprì che il salario era inferiore, però una vera casa editrice era tutt'altra cosa, un lavoro aristocratico, la fonte del silenzio e dell'eleganza delle librerie e della freschezza delle pagine nuove, benché tutto ciò non risultasse evidente dagli uffici dell'editore, in una traversa della Quinta Avenue, sul retro di uno degli ultimi piani. Era un vecchio edificio, con un ascensore che saliva lento oltrepassando graticci aperti e corridoi rivestiti di vecchie piastrelle bianche ormai sconnesse. Stavano bevendo champagne nell'ufficio dell'editore perché uno degli editor era appena diventato padre. Robert Baum, l'editore, coproprietario insieme a un socio finanziatore, era in maniche di camicia: un uomo sui trent'anni, di altezza media e con una faccia cordiale, una faccia sveglia e alla mano, con un principio di borse   sotto gli occhi. Parlò amabilmente con Bowman per un paio di minuti e ritenendosi soddisfatto del colloquio gli diede il lavoro su due piedi.

«Lo stipendio è modesto» spiegò. «Non sei sposato?» « No. Quant'è? » «Uno e sessanta» disse Baum. «Centosessanta dollari al mese. Cosa ne dici? » «Be', meno del necessario, più del previsto» ribatté Bowman.

«Più del previsto? Ho commesso un errore.» Baum esprimeva sicurezza e fascino, ed erano entrambi autentici. Gli stipendi del settore editoriale erano tradizionalmente bassi, e la sua offerta si collocava appena al di sotto della media. In un'impresa commerciale già incerta di per sé, oltre che in competizione con case editrici più grandi e solide, era necessario contenere i costi. Baum amava ripetere che si occupavano di alta letteratura solo per necessità. Non avrebbero mai rifiutato un best seller per questioni di principio. Diceva che l'obiettivo era pagarli poco e venderne vagonate. Su una parete del suo ufficio era incorniciata la lettera di un collega e amico, un editor più anziano, al quale era stato chiesto di leggere e valutare un dattiloscritto. La lettera era scritta su un foglio ripiegato in due e andava dritta al punto: Si tratta di un libro molto banale, con personaggi privi di spessore descritti in uno stile che fa venire i nervi. La storia d'amore è squallida e di scarso interesse, e chi legge, di fatto, la trova respingente. All'immaginazione rimangono soltanto le oscenità. Un romanzo totalmente privo di valore.

«Ha venduto duecentomila copie» disse Baum «e ne stanno facendo un film. È il nostro titolo più importante. Conservo la lettera per non dimenticare. » Non aggiunse che il libro non era piaciuto neanche a lui e che a convincerlo alla pubblicazione era stata sua moglie, secondo la quale avrebbe mosso qualcosa nei lettori. Diana Baum, pur comparendo di rado in ufficio, esercitava una forte influenza sul marito. Si dedicava anima e corpo al loro bambino, Julian,   e alla critica letteraria, tenendo una rubrica su una piccola rivista liberal, molto influente nonostante la bassa tiratura, e di conseguenza era diventata un personaggio.

Baum aveva dei soldi, benché non si sapesse quanti. Suo padre, un banchiere emigrato, in America aveva fatto fortuna. Erano una famiglia di ebrei tedeschi dotata di un certo senso di superiorità. La città pullulava di ebrei, molti dei quali erano poveri del Lower East Side e dei vari distretti, ma ovunque vivevano nel loro mondo in qualche modo separato dal resto. Baum in collegio aveva fatto l'esperienza di sentirsi un outsider, o peggio ancora, e malgrado la sua indole socievole era riuscito a stringere poche amicizie. All'entrata in guerra degli Stati Uniti, anziché cercarsi un incarico defilato nelle retrovie, era entrato nell'intelligence, in servizio attivo. Una notte, nelle pianure olandesi, aveva rischiato di lasciarci la pelle. Dormivano in un edificio a cui era stato strappato il tetto. Qualcuno era entrato con una torcia per poi aggirarsi fra gli uomini addormentati. Aveva battuto un colpetto sul braccio di un uomo.

«Sei tu il sergente? » gli aveva sentito chiedere Baum.

L'uomo si era schiarito la gola.

«Esatto» aveva risposto.

«Alzati. Ce ne andiamo. » «Veramente sono caporale. Faccio le veci del sergente.» «Lo so. Devi portare ventitré uomini al fronte. » «Quali?» « Sbrigati. Non c'è tempo. » Li aveva condotti lungo una strada buia. Stavano andando incontro al rumore inquietante degli spari e dei tonfi pesanti dell' artiglieria. Su un leggero declivio un capitano impartiva degli ordini.

«Chi siete?» aveva chiesto.

« Ho ventitré uomini » era stata la risposta del sergente.

In realtà erano ventuno perché due si erano defilati, oppure nel buio avevano perso la strada. Poco lontano si sparava.

« Hai già combattuto, sergente? »  

« Nossignore. » « Stanotte combatterai. » Era previsto che attraversassero il fiume con i canotti. Li trascinarono fino all'argine avanzando carponi. Tutti sussurravano, ma Baum aveva l'impressione che facessero ugualmente un gran baccano.

Salì a bordo per primo. Non aveva paura, era paralizzato dal terrore. Teneva il fucile, con cui non aveva mai sparato un colpo, davanti a sé come uno scudo. Stavano per compiere un'azione fatale. Sentiva che sarebbe stato ucciso. Percepiva il tonfo sordo dei remi che di lì a poco sarebbe stato sovrastato da una sventagliata improvvisa di mitraglia, perché era certo che i loro sussurri arrivassero al nemico. Remate con le mani, disse qualcuno. I tedeschi aspettavano che fossero a metà del guado per aprire il fuoco, ma poi, chissà perché, non accadde niente. Fu la seconda ondata a essere sorpresa in mezzo al fiume. A quel punto Baum era arrivato sull'altra sponda e sentiva esplodere i colpi dall'argine, fin sopra la sua testa. I soldati gridavano e cadevano in acqua. Nessuno dei canotti riuscì nell'impresa.

Rimasero inchiodati lì per tre giorni. Baum vide il capitano che aveva impartito gli ordini nella forra galleggiare sull'acqua, un corpo seminudo con il petto esposto e i capezzoli scuri e gonfi come quelli di una donna. Non in quel momento, ma una volta finita la guerra, Baum fece un voto. Giurò a se stesso che non avrebbe mai più avuto paura di niente.

Non sembrava il tipo di persona che avesse vissuto un'esperienza del genere: era un uomo casalingo e urbano, lavorava il sabato e per rispetto verso i genitori, e verso tutti coloro che erano vissuti in lontani villaggi cancellati dalla faccia della terra o erano finiti dentro enormi fosse comuni, nelle festività religiose più importanti si presentava in sinagoga. Al tempo stesso, però, era lontano dall'ortodossia fatta di cappelloni neri e sofferenza, alla maniera antica. Era convinto che la guerra da cui era riemerso sano e salvo gli avesse fornito le credenziali. Si distingueva dai suoi concittadini solo per la consapevolezza interiore.

 

Gestiva la sua impresa all'inglese: nell'ufficio arredato sommariamente c'erano una scrivania, un vecchio divano, un tavolo e alcune sedie. Leggeva tutti i libri personalmente e dopo qualche scambio di opinioni con la moglie prendeva le sue decisioni. Pranzava con agenti letterari che per molto tempo non lo presero sul serio, organizzava cene e in ufficio prese l'abitudine di fare quotidianamente un giro per parlare con tutti; si appollaiava in un angolo delle scrivanie e chiacchierava con tranquillità. Che cosa pensavano di questo o quell'altro, chiedeva, che cosa avevano letto o di che cosa avevano sentito parlare? Aveva un modo di fare aperto, e parlare con lui riusciva facile. A volte sembrava l'addetto alla consegna della posta più che l'editore, e spesso era lui a raccontare qualche aneddoto, storie di seconda mano, pettegolezzi, novità, si fingeva inorridito dall'ammontare degli anticipi... come si fa a sperare di pubblicare buoni libri, se per farlo ci si rovina? Non sembrava avere mai fretta, anche se raramente si dilungava nelle sue visite. Ripeteva battute che aveva sentito in giro e chiamava tutti per nome, anche il ragazzo dell'ascensore, Raymont.

Bowman non fece il lettore a lungo. L'editor che aveva avuto un figlio se ne andò a lavorare da Scribner, e Bowman, che si era dato da fare per scoprire quanto guadagnasse, prese il suo posto. Il lavoro gli piaceva. La redazione era un mondo a sé. Non doveva timbrare il cartellino, certi giorni si fermava in ufficio fino alle nove o alle dieci di sera e altre volte poteva andarsi a bere qualcosa già alle sei. Gli piaceva leggere i dattiloscritti e parlare con gli autori, prendere parte alla nascita di un libro, gli piacevano le discussioni, le revisioni, le bozze e le correzioni, le copertine. Non l'avrebbe mai detto, prima di cominciare, ma lo trovava appagante.

Nei fine settimana era un piacere tornare a casa, cenare con la madre: ci beviamo un cocktail, prima? chiedeva lei, e lui le raccontava del lavoro. Quell'anno Beatrice avrebbe compiuto cinquantadue anni e non li dimostrava, però aveva ormai accantonato il pensiero di risposarsi. Il suo affetto e le sue attenzioni  erano tutti rivolti alla famiglia. Durante la settimana Bow-man viveva in un monolocale senza bagno vicino a Central Park West, e il relativo lusso della vecchia casa costituiva un bel contrasto.

Sua madre amava moltissimo conversare con lui, l'avrebbe fatto tutti i giorni. Resisteva con difficoltà all'impulso di abbracciarlo e baciarlo. Lo aveva cresciuto da sola e adesso, che era bellissimo, poteva al massimo ravviargli i capelli. Persino quel gesto a volte risultava imbarazzante. L'amore che lei gli aveva dato lui lo avrebbe trasmesso a qualcun altro. Al tempo stesso lui rimaneva inspiegabilmente il bambino meraviglioso che era stato negli anni in cui erano loro due soli, quando andavano a trovare Dot e Frank e cenavano al ristorante. Non avrebbe mai dimenticato la signora ben vestita che, vedendo il bambino impugnare la forchetta troppo grande per arrotolare gli spaghetti, aveva detto con ammirazione: « È il più bel bambino che abbia mai visto».

I libriccini con testi e figure costruiti piegando i fogli che poi venivano cuciti insieme, scrivere con lui le prime parole, le innumerevoli notti che adesso le sembravano una sola, in cui lo metteva a letto e lo sentiva chiedere, in tono implorante: « Lascia la porta aperta ».

Tutti i giorni, ogni momento.

Ricordava quando sulle guance gli era spuntata la prima peluria, una lanugine pallida e soffice che lei aveva finto di non vedere, e poi lui cominciò a radersi, i capelli gli si scurirono gradualmente e i suoi tratti presero ad assomigliare sempre di più a quelli del padre. Guardando al passato, Beatrice ne ricordava ogni brandello, per lo più con gioia, soltanto con gioia. Erano sempre stati uniti, madre e figlio, e lo sarebbero rimasti per sempre.

Beatrice, la minore di due sorelle, era nata a Rochester nell'ultimo anno, il 1899, e nell'ultimo mese del secolo. Il padre, un insegnante, era morto a causa della spagnola, comparsa prima in Spagna e poi esplosa in America nell'autunno del 1918,   proprio alla fine della guerra. Più di mezzo milione di persone avevano perso la vita in uno scenario che ricordava le epidemie di peste. Il padre di Beatrice era stato colpito dall'influenza mentre percorreva Clifford Avenue in un pomeriggio mite, e due giorni dopo, pallido come un cencio, con una febbre bruciante e difficoltà di respirazione, era spirato. Dopo la scomparsa del marito la madre si trasferì con le figlie dai genitori, che gestivano un alberghetto nella Irondequoit Bay: un edificio tutto di legno con il bar, una grande cucina bianca e, d'inverno, le stanze vuote. Quando compì vent'anni Beatrice andò a New York. In città aveva dei lontani parenti, i Gradow, cugini della madre piuttosto benestanti, di cui lei frequentava spesso la casa.

Il loro palazzo, dove Bowman era stato portato a cinque o sei anni, era una delle immagini perdute della sua infanzia: un edificio imponente e ornato di granito grigio che, almeno così lo ricordava lui, aveva un fossato e grate alle finestre e si trovava in un punto imprecisato vicino al parco, impossibile da ritrovare, come succede con le strade di quella città sconosciuta e familiare che compare ripetutamente nei sogni. Bowman non si prese mai la briga di chiedere alla madre se per caso fosse stato demolito, ma lungo la Quinta Avenue gli sembrava che vi fossero delle ubicazioni probabili per quel palazzotto.

Forse a causa della morte del padre, che ricordava vividamente, Beatrice aveva un timore cronico dell'autunno. C'era un momento, di solito verso la fine di agosto, in cui l'estate investiva gli alberi con una forza abbacinante e le fronde erano rigogliose, ma poi di colpo, da un giorno all'altro, diventavano stranamente immobili, come se attendessero qualcosa e ne fossero consapevoli. Gli alberi sapevano. Ogni essere sapeva, gli scarabei, le rane, i corvi che zampettavano solenni sul prato. Il sole era allo zenit e abbracciava il mondo, ma stava finendo, tutto ciò che si amava era a rischio.

 

Neil Eddins, l'altro editor, era un uomo del Sud, con il volto ben rasato e buone maniere, che portava camicie a righe e non aveva difficoltà a fare amicizia.

«Sei stato nella Marina militare, vero?» chiese a Bowman.

« Sì, anche tu? » «Non mi hanno voluto. Non sono riuscito a inserirmi nel programma. Ero nella Marina mercantile. » «E dove?» «Quasi sempre sull'East River. L'equipaggio era italiano. Non riuscivano nemmeno a farli salpare. » «Almeno non correvate il rischio di essere affondati. » «Non dal nemico» rispose Eddins. «Voi siete stati affondati?» «Qualcuno dice di sì.» «In che senso?» «È una storia troppo lunga.» In quel momento passò Gretchen, la segretaria. Aveva un bel corpo e un viso gradevole deturpato da tre o quattro grossi ponfi infiammati sulle guance e sulla fronte, un'innominabile malattia della pelle che la rendeva infelice, benché non lo desse a vedere. Al suo passaggio Eddins emise un piccolo gemito.

« Ti piace? » Sapevano che era fidanzata.

«Sì, perdio» disse Eddins. «Pazienza per l'acne o quel che è, si sistema. In effetti mi piacciono le donne che assomigliano un po' a un pugile, con gli zigomi alti, le labbra carnose. Che sogno ho fatto l'altra notte! Mi scopavo tre belle ragazze, una dopo l'altra. Eravamo in una stanzetta, praticamente una cabina, e stavo cominciando a darmi da fare con la quarta quando qualcuno ha cercato di entrare. No, no, maledizione, non adesso! gridavo. Avevo il culo della ragazza proprio davanti al naso mentre si piegava per togliersi le scarpe. Ti faccio schifo? » «No, assolutamente.» «Fai mai sogni del genere? » «Di solito ne sogno una alla volta» disse Bowman.

 

«Qualcuna in particolare?» chiese Eddins. «A me piacciono soprattutto le voci, una bella voce profonda. Quando mi sposerò sarà la prima cosa che le dirò, parlami con la tua voce profonda. » Gretchen ripassò tornando indietro. Accennò un sorriso.

«Santo cielo» esclamò Eddins, «sono consapevoli dell'effetto che ci fanno, vero? Ne vanno pazze. » Qualche volta dopo il lavoro andavano da Clarke's a bere qualcosa. La Terza Avenue era una strada di bevitori e c'erano molti bar, tutti all'ombra della sopraelevata, con i treni che arrivavano sferragliando, facevano tremare i palazzi e lasciavano che la luce tornasse a filtrare tra le rotaie, dopo il loro passaggio.

Parlavano di libri e di letteratura. Eddins aveva frequentato soltanto un anno di università ma aveva letto tutto, era membro della Joyce Society e Joyce era il suo mito.

«Di solito, però, non apprezzo uno scrittore che mi parli troppo dei pensieri e dei sentimenti dei personaggi» disse. «Preferisco vederli, sentire quel che dicono e decidere per conto mio. Giudicare dall'esterno. Mi piacciono i dialoghi. I personaggi parlano e tu capisci tutto. Ti piace John O'Hara? » «Qualcosa» disse Bowman. «Qualcosa di O'Hara mi piace.» «Che cos'ha che non va? » «Può essere troppo cattivo. » «Scrive di gente così. Appuntamento a Samarra è un gran libro. Mi ha appassionato. Aveva ventotto anni quando l'ha scritto. » «Tolstoj era più giovane. Ne aveva ventitré. » « Quando ha scritto cosa? » «I racconti Infanzia, Adolescenza, Giovinezza. » Eddins non li aveva letti. In effetti, ammise, non ne aveva nemmeno sentito parlare.

«Lo hanno reso famoso nel giro di una sera » disse Bowman. «La cosa interessante è che tutti sono diventati famosi nel giro di una sera. Fitzgerald, Maupassant, Faulkner, quando ha scritto  

Santuario. Dovresti leggere Infanzia. C'è un capitoletto meraviglioso in cui descrive il padre, alto, calvo, e con due grandi passioni nella vita: la famiglia e la sua proprietà terriera, saresti portato a pensare, e invece no, le carte e le donne. Pagine straordinarie. » «Sai cosa mi ha detto oggi? » «Chi?» «Gretchen. Mi ha detto che in città è arrivato il Bol'soj. » «Non sapevo che le interessasse il balletto. » «Mi ha anche spiegato che cosa significa Bol'soj. Vuol dire grande, importante. » «E allora? »                                                      !

Eddins fece un gesto eloquente con le mani.

«Perché mi sta facendo questo?» disse. «Le ho scritto una poesiola, come quelle che Byron scriveva per Caroline Lamb, una delle innumerevoli donne, contesse comprese, in cui, se mi concedi la licenza, lo aveva intinto. » «Era preso dal fluxus dionisiaco » disse Bowman.

«Fluxus. Che cos'è, latino? Comunque sia, la mia poesia dice così: 'Bol'soj, Oh boy''.» «E sarebbe a dire? » «Ma scherzi? Ne parla in continuazione. » «Com'è la poesia di Byron?» chiese Bowman. «Non la conosco. » «È considerata la più breve poesia in lingua inglese, ma la mia è più corta. 'Caro Lamb, God damn. ' » «È quella che ha sposato?» «No, questa il marito ce l'aveva già. Era una contessa. Se conoscessi una contessa o due me la passerei meglio. Specialmente se la mia, la mia contessa, intendo, tendesse un po' verso il bello. Anzi, non dovrebbe neanche essere una contessa. È una parola che invita allo svilimento, non trovi? Al liceo avevo una ragazza - ovviamente non abbiamo mai combinato niente - che si chiamava Ava. Un bellissimo nome. Aveva anche un corpo niente male. Adesso che siamo diventati adulti mi chiedo dove   sia finita. Dovrei scovare il suo indirizzo, ammesso che non si sia sposata, che pensiero macabro. D'altra parte neanche troppo, se la si guarda da un certo punto di vista. » «Dove andavi al liceo? » «L'ultimo anno l'ho fatto in un collegio dalle parti di Char-lottesville. Mangiavamo tutti insieme nella mensa. Per dimostrare qual era l'atteggiamento da tenere verso i soldi il direttore bruciava abitualmente delle banconote. Lui si mangiava un uovo sodo ogni mattina, guscio compreso. Io fin lì non ci sono mai arrivato, nonostante la fame perenne. Morivo di fame. Probabilmente mi avevano rinchiuso lì per via di Ava e di quello che poteva succedere. I miei non erano favorevoli al sesso prima del matrimonio. » «Quali genitori lo sono?» Erano seduti in mezzo al bar affollato. Le porte sulla strada erano aperte e il rumore del treno, il frastuono assordante di un'onda che si frange, ogni tanto si inghiottiva parti del loro discorso.

«La sai quella del conte ungherese?» chiese Eddins. «Be', c'è questo conte e un giorno la moglie gli dice che il loro figlio sta crescendo e che sarebbe ora di dirgli qualcosa sulle api e i fiori. D'accordo, dice il conte, e lo porta a fare una passeggiata. Scendono al torrente e sul ponte si fermano a osservare le contadinelle che lavano i panni. Tua madre vuole che ti parli delle api e dei fiori, dice il conte, che ti spieghi cosa fanno. Sì, padre, dice il ragazzo. Be', le vedi le ragazze là sotto? Sì, padre. Ti ricordi quello che abbiamo fatto con loro quando siamo venuti qui, qualche giorno fa? Sì, padre. Ecco, lo fanno anche le api coi fiori. » Era elegante, Eddins, con un abito estivo di colore chiaro, leggermente stropicciato, benché la stagione fosse un po' troppo avanzata. Al tempo stesso riusciva a sembrare trascurato, con le tasche della giacca sempre zeppe di oggetti, i capelli sulla nuca bisognosi di una spuntatina. Spendeva in vestiti più di quello che poteva permettersi, il suo negozio preferito era British American House.

 

«Sai, c'era una ragazza che abitava nel quartiere, una bella ragazza un po' ritardata... » «Ritardata? » «Non so che cosa avesse che non andava, era un po' tonta. » «Non raccontarmi niente di criminale, adesso. » «Che gentiluomo» disse Eddins. «Sei proprio un tipo come ne facevano una volta. » «Dove?» «Dappertutto. Saresti piaciuto a mio padre. Se avessi la tua prestanza...» «Cosa faresti? » «Farei girare la testa a tutta la città. » Anche Bowman cominciava a sentire l'effetto dell'alcol. Si vedeva riflesso nello specchio dietro il bar, fra le bottiglie scintillanti, in giacca e cravatta, in una serata newyorkese, con la gente intorno, le facce; aveva un'aria pulita, composta, in un certo senso inscindibile da quella dell'ufficiale di Marina che era stato. Ricordava benissimo quei giorni, benché nella sua vita non fossero ormai che un'ombra. I giorni per mare. Sottotenente Bowman! Sissignore! Un senso di fierezza che non avrebbe mai perduto.

In quel momento dalla porta stava entrando proprio la ragazza che Eddins aveva cercato di descrivere, con una faccia che ricordava quella di un pugile, gli zigomi schiacciati e il naso un po' camuso. Bowman vide la metà superiore di lei nello specchio, mentre passava in compagnia del fidanzato o del marito, con un abitino leggero stampato a fiori arancioni. Non poteva passare inosservata, tuttavia a Eddins era sfuggita, intento com'era a parlare con qualcuno. Non era importante, la città era piena di donne come lei; se non proprio piena, comunque la sera capitava di incontrarne in giro.

Poi Eddins si era voltato e l'aveva vista.

«Ossignore» disse, «lo sapevo. Ecco la ragazza con cui vorrei fare l'amore. » «Se non la conosci nemmeno. »  

«Non voglio conoscerla, voglio scoparmela.» «Che romantico. » Sul lavoro comunque era un agnellino e non perdeva tempo con Gretchen, o almeno si sforzava. Un giorno, con aria disinvolta, diede a Bowman un foglio ripiegato e distolse lo sguardo. Un'altra poesia, al centro della pagina: All'Hotel Plaza, per farlo scontento, disse l'amore della sua vita, caro Gretchen, sarà anche sconveniente, ma, mio Dio, sei un uomo intelligente, non potremmo rimandare un momento?

«Non si dovrebbe scrivere cara » chiese Bowman.     , «Cosa vuoi dire?» «Cara è il femminile di caro. » «Dai, ridammela» disse Eddins, «non voglio che finisca nelle mani sbagliate. »